Dall'Osto Antonio
Niente sarà più come prima
2017/9, p. 33
Numerose le ragioni per cui ai cristiani sarà difficile, per non dire impossibile, tornare nei luoghi da dove son stati costretti brutalmente a fuggire. Il problema non riguarda solo la ricostruzione delle case, ma tutto il tessuto religioso e sociale distrutto. Sono ormai poche le famiglie che non pensino di andarsene.

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I cristiani in Iraq
NIENTE SARÀ
PIÙ COME PRIMA
Numerose le ragioni per cui ai cristiani sarà difficile, per non dire impossibile, tornare nei luoghi da dove son stati costretti brutalmente a fuggire. Il problema non riguarda solo la ricostruzione delle case, ma tutto il tessuto religioso e sociale distrutto. Sono ormai poche le famiglie che non pensino di andarsene.
Secondo quanto ha dichiarato l’arcivescovo siro-cattolico di Mosul, Yohanna Petrois Mouche, non c’è da aspettarsi un rapido ritorno dei cristiani ora che la città è stata riconquistata e liberata. In un’intervista rilasciata lo scorso 24 luglio alla Pontificia opera tedesca Kirche in Not, ha affermato che «per il momento è impossibile vivere qui in maniera durevole poiché Mosul è completamente distrutta». Per ora, ha aggiunto, sono venuti solo per qualche ora dei cristiani che avevano vissuto qui prima della conquista delle milizie del cosiddetto “Stato Islamico”, per vedere le loro case. Hanno trovato tutto distrutto. Per molti perciò l’alternativa rimane di tornare nella piana di Ninive dove, pur essendo stati distrutti i villaggi cristiani, è già iniziata la ricostruzione.
Mosul, ha precisato l’arcivescovo, adesso è ufficialmente liberata, ma in vari luoghi si nascondono ancora dei seguaci dell’Isis. «Sono però sicuro, – ha sottolineato – che saranno presto scovati». Ma la cosa più importante è che cambi l’atteggiamento degli abitanti «che si sono lasciati sedurre dall’ideologia islamista». Secondo l’arcivescovo tuttavia è possibile che cristiani e musulmani possano continuare a stare insieme, ma «è necessario imparare a vivere insieme in pace».
Su un possibile ritorno dei cristiani a Mosul si era invece espresso con grande perplessità, l’autunno scorso, l’esperto del Medio Oriente, Otmar Oerhing, coordinatore internazionale del dialogo religioso della Fondazione Konrad-Adenauer. Fin dall’inizio dell’offensiva per la riconquista della città, dopo aver visitato il paese, aveva dichiarato che, a suo parere, «a Mosul non sarebbe tornato più nessun cristiano». Per delle ragioni molto ovvie. Anzitutto perché la radicalizzazione della popolazione musulmana di Mosul era iniziata già parecchio tempo prima della conquista da parte dello “Stato Islamico”. Le case dei cristiani erano state marcate con dei contrassegni, facendo capire che a Mosul non c’era più posto per loro.
In secondo luogo, perché, se anche i cristiani tornassero, mancherebbe loro il denaro per la ricostruzione: in più non ci sarebbe alcuna garanzia di sicurezza. Non ci sarebbe da sperare neanche sulla presenza di truppe dell’ONU, cosa inaccettabile in uno Stato sovrano. E nemmeno avrebbe effetto «un influsso sul governo iracheno – in particolare da parte degli Stati Uniti – come alcuni capi religiosi pensano».
A suo parere perciò «c’è purtroppo molto da dubitare che possa esserci una riconciliazione ».
Chi invece spera che questa sia possibile è il Patriarca caldeo Louis Raphael Sako, il quale fin dall’inizio della liberazione aveva espresso la speranza che la città di Mosul tornasse ad essere nuovamente un punto d’incontro multiculturale tra diverse culture, etnie e religioni. E si augurava che dopo la liberazione dallo “Stato islamico” anche nella circostante piana di Ninive venissero rispettati i diritti di tutti i cittadini, dei gruppi popolari e religiosi, e fosse combattuta ogni discriminazione. A suo parere, i cristiani dovrebbero ora cercare di ricostruire la fiducia verso i loro vicini musulmani.
Secondo dati locali, prima della conquista di Mosul da parte dell’Isis, vivevano in città oltre 25.000 cristiani e nella circostante piana di Ninive vi erano molti villaggi a maggioranza cristiana. Ma ora ci sono almeno 13.000 case danneggiate o completamente distrutte e ridotte a un cumulo di macerie.
Un futuro
a tinte fosche
Il futuro dei cristiani si presenta perciò ora a tinte molto fosche. È questa la convinzione anche di Angela Gärtner, responsabile della Caritas internazionale tedesca, e grande esperta della situazione dell’Iraq. Lo ha dichiarato in un’intervista dopo il suo recente viaggio nelle zone liberate, pubblicata il 1 giugno scorso sul sito internet della Chiesa cattolica tedesca katholisch.de¸ che qui riprendiamo in forma leggermente ridotta.
Domanda: Soltanto un anno fa si temeva che la storia del cristianesimo in Iraq fosse giunta ormai alla fine. Ora che gli ex villaggi cristiani sono stati liberati e i cristiani tornano indietro, è cambiata la situazione?
Tra le famiglie cristiane, il desiderio di lasciare il paese è ancora molto grande. Temono di non avere più alcun futuro nella loro patria. Proprio ora, di fronte alla battaglia di Mosul, molta gente è fortemente preoccupata del futuro del paese. Sono tutti convinti che la liberazione di Mosul non significherà la fine del conflitto in Iraq, anche dopo la cacciata dell’Isis. Il timore concreto è che le linee di demarcazione tra i diversi gruppi sociali diventino ancora maggiori. I cristiani perciò si domandano: dove sarà il nostro posto nella nostra terra?
Domanda: La ragione è perché dopo una guerra ci sono sempre anche dei vinti?
Anzitutto perché, dopo questa guerra, ci sarà un nuovo conflitto, e riguarderà le risorse e i territori. Prima c’era una mescolanza sociale, che negli anni scorsi è venuta meno. In futuro ci sarà una divisione geografica ancor più marcata tra i vari gruppi: sunniti, sciiti, kurdi e una quantità di minoranze a cui appartengono anche i cristiani e gli yazidi. Tutti devono cercare dove collocarsi. I cristiani non sanno più semplicemente dove potrà essere il loro posto. Per questo c’è il desiderio di emigrare. Personalmente non ho incontrato nessuna famiglia che non pensi di andarsene.
Domanda: Perché, ciononostante, i cristiani tornano nei loro villaggi liberati?
La piana di Ninive era la tradizionale regione dell’insediamento dei cristiani in Iraq. Prima che l’Isis la conquistasse, la gente poteva fare a tempo a fuggire in Kurdistan. Ora, da oltre due anni, vivono lì come profughi. La maggior parte di loro non parla il kurdo, ma solo l’arabo. Inoltre il mercato di lavoro kurdo è completamente crollato. I cristiani si sono resi conto che nel prossimo futuro le condizioni di vita in questo luogo rimarranno molto difficili. Per questo, il ritorno nei loro villaggi di origine rimane solo una possibile alternativa. D’altronde, per la maggior parte di essi anche un espatrio a breve termine è impossibile per ragioni finanziarie.
Domanda: Cosa attende i cristiani nella loro vecchia patria?
I villaggi cristiani sono in gran parte liberati anche dalle mine e da altri tranelli. Ma restano dei grossi problemi. Da una parte, ci sono naturalmente le enormi distruzioni che rendono impossibile un ritorno. Dall’altra, le competenze territoriali spesso non sono ancora chiare. Molte regioni che prima erano soggette al governo centrale, sono state ora occupate dai peshmerga. Non è ancora chiaro dove passeranno le linee di demarcazione tra i kurdi e il governo. Il Kurdistan cerca attualmente di raggiungere una autonomia ancora maggiore. Si pone quindi l’interrogativo su chi investirà nelle infrastrutture come la fornitura dell’acqua e dell’energia elettrica o nelle scuole. E chi garantirà la sicurezza. Attualmente sono i peshmerga a controllare i villaggi. Come sarà in futuro? Finché ciò non sarà chiaro, sono molto pochi coloro che sono disposti a tornare.
Domanda: Ciò significa che i cristiani, là dove attualmente stazionano, hanno una scuola e i genitori un lavoro?
È una domanda piuttosto rosea. Il Kurdistan in effetti si è dato molto da fare; oltre un milione di sfollati sono stati accolti nella regione ai loro confini. Ma in Kurdistan ci sono poche scuole dove si parla l’arabo. Perciò sono stati istituiti dei turni a rotazione, con delle lezioni in arabo il pomeriggio. Inoltre ci sono poche scuole di soli sfollati, e la loro qualità è ritenuta critica.
Inoltre è molto difficile che tutti i bambini vengano a scuola. E nel settore del mercato del lavoro la situazione è molto simile. Gli sfollati possono forse essere assunti al massimo come lavoratori a giornata.
Domanda: Il Kurdistan costituisce un partner importante nella lotta contro l’Isis e nella ricostruzione?
In senso globale non lo si può dire. Per stare ai fatti: la piana di Ninive prima era soggetta al governo centrale di Bagdad, ora è stata conquistata dai peshmerga. Da ambe le parti è in atto un lungo e difficile processo circa l’unificazione, ossia su chi avrà il controllo e su quale regione. Ci sono di mezzo anche importanti risorse, soprattutto il petrolio.
Domanda In che cosa consiste il compito della Caritas sul luogo?
Il nostro lavoro consiste nel sostenere le persone nella loro attuale situazione. Noi aiutiamo gli sfollati in Kurdistan, per esempio, con del denaro in contanti. Le nostre analisi ci mostrano che con il denaro si può rispondere a tre importanti bisogni. Il primo più importante è quello dell’approvvigionamento delle medicine. In secondo luogo, la gente riceve anche provviste alimentari da parte dello Stato e delle Nazioni Unite, ma è una cosa molto irregolare. Perciò, offrendo del denaro, la gente può acquistare da se stessa delle provviste. In terzo luogo, il denaro aiuta anche a pagare gli affitti che sono schizzati alle stelle.
Inoltre, noi offriamo anche aiuti di carattere psicosociale. Si tratta di interventi per alleviare le esperienze vissute nella fuga. Ma vogliamo anche indicare ai cristiani delle prospettive per quanto riguarda il futuro in Iraq. Per una buona convivenza tra i diversi gruppi è necessaria la fiducia reciproca nella società, e noi cerchiamo di rafforzarla.
«La gente – ha concluso la Gärtner – è molto frustrata. Alcuni hanno già dovuto più volte fuggire: alcuni vengono, per esempio, da Bagdad, sono fuggiti nella piana di Ninive, e da qui, dopo due anni, sono diventati profughi in Kurdistan. E la prognosi per il futuro è tutt’altro che buona. Spesso i cristiani dicono: «io posso anche sopportare tutto questo, ma quale prospettiva hanno i miei figli?». È comprensibile perciò che ci sia il desiderio di andare in un altro paese». Ma la preoccupazione di dover lasciare il proprio ambiente culturale e di recarsi in un paese in cui si parla una lingua del tutto diversa, e il fatto che le possibilità di essere presto e adeguatamente inseriti nel mondo del lavoro siano scarse, preoccupa molto la gente.
a cura di Antonio Dall’Osto