Gargano Guido Innocenzo
Chiamati a vivere l'inedito
2017/9, p. 16
“Un raggio della divina bellezza”, è il titolo del volume sulla vita consacrata contemporanea, indicatore di verifica e di orientamento per i consacrati e le consacrate di oggi.

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Testimoni
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Primo piano sulla vita consacrata
chiamati
a vivere l’inedito
"Un raggio della divina bellezza", è il titolo del volume sulla vita consacrata contemporanea, indicatore di verifica e di orientamento per i consacrati e le consacrate di oggi.
Un titolo come quello proposto da Grazia Paris va inteso con riferimento ad un ideale teologico spirituale che oggi si fa onestamente fatica a riconoscere con gli occhi di una osservazione oggettiva sulla concreta vita consacrata osservata storicamente.
Una qualunque visita, anche solo turistica, ad una delle tante case in cui si vive la vita consacrata porterebbe piuttosto ad ammettere invece che quasi ovunque venga intercettata una presenza di vita consacrata ci si trovi in realtà di fronte a edifici spesso assai puliti e dignitosi ma che, anche quando si presentano in piccole strutture architettoniche, sembrano quasi sempre spazi fatiscenti abitati da uomini o donne di età piuttosto avanzata con segni evidenti di un passato certamente decoroso, e perfino glorioso, ma di tempi andati che probabilmente non torneranno più.
Certe strutture poi, data la loro monumentalità, dovuta quasi sempre allo sviluppo di opere legate al carisma originario come quelli della scuola, delle realtà sanitarie, del servizio di accoglienza dei bisognosi di tutti i tipi, restano ormai in piedi grazie soltanto alla presenza di stipendiati estranei alla vita religiosa con una presenza assai ridotta, e spesso semplicemente simbolica, di appartenenti alla vita consacrata.
Le cause
di una crisi
E’ mutato il clima generale. La società occidentale contemporanea non delega quasi più nulla alle supplenze delle forme religiose, nutrite di gratuità, di una volta. Essa preferisce chiaramente un volontariato diffuso, religioso o meno, assai più snello e cangiante nelle forme più diverse, sia pure effimere, della postmodernità, e non sembra avere più bisogno di persone dedite al servizio del prossimo in piena gratuità, caratteristica propria degli appartenenti alla vita consacrata.
Fanno eccezione intuizioni geniali, come quella di Santa Teresa di Calcutta, che puntano l’attenzione su situazioni quasi impossibili da gestire istituzionalmente nella società contemporanea e perciò destinate ad essere raggiunte soltanto da un enorme investimento di generosità gratuita che soltanto una vita consacrata può garantire in modo passabilmente efficace.
L’adesione, con vistosi risvolti numerici, di giovani e meno giovani a intuizioni come quelle della Santa di Calcutta, o di altre personalità simili alla sua, che incantano tantissimo l’opinione pubblica contemporanea rivela a tutti che simili scelte possono essere vincenti anche oggi. Ma questo perché esse rivelano a molti un’opportunità provvidenziale di impegnare eroicamente la propria vita, captata specialmente da ragazzi e ragazze generosi, felici di poter dare la propria vita per la felicità del prossimo senza fermarsi più di tanto a pensare a se stessi e alla cosiddetta realizzazione personale imposta con i criteri mondani.
Antropocentrismo e
maturazione nella fede
Simili fenomeni dovrebbero aiutare i responsabili di ogni ordine e grado a riconsiderare la scelta quasi universale di combattere il disagio che serpeggia in tante strutture di vita consacrata correndo sistematicamente agli strumenti delle scienze umanistiche, stimolati in questo dai tanti psicologi sostitutivi del padre/madre spirituale che pullulano ormai in ogni congregazione o istituto religioso, affollando le anticamere ambulatoriali di cosiddetti ´Consultori scientifici´ interpellati ansiosamente dalle rispettive Autorità. Questi Consultori/Consulenti sono ovviamente assai preziosi ma, io direi, ad una condizione: quella che svolgano un servizio di appoggio o non di sostituzione sic et simpliciter del discernimento spirituale e cristiano su di una scelta che può giustificarsi, a mio parere, soltanto con la fede.
Si constata invece che molti responsabili, preoccupati, e giustamente, di aiutare il soggetto affidato alle loro cure formative, scelgono con determinazione la strada cosiddetta scientifica dello psicologo professionale, ma spesso lo fanno, purtroppo, a scapito di una verifica seria sulla presenza o meno di una crescita delle convinzioni di fede che dovrebbero invece essere a monte di ogni determinata scelta di appartenenza alla vita consacrata.
Direi insomma che non si dovrebbe delegare mai troppo facilmente allo psicologo – a meno che non vi siano segni gravi di scompenso psicologico umano - ciò che attiene alla misteriosa azione della grazia! E in ogni caso l’ultima parola spetterebbe ovviamente non allo psicologo ma al padre/madre spirituale, dopo aver udito il prezioso consiglio di coloro che hanno vissuto nella stessa comunità del candidato.
Pena il rischio di dare il primato ai criteri semplicemente umani e non invece a quelli che provengono più direttamente da una vita di fede.
Duole dirlo, ma l’esperienza mi permette di dire che spesso succede proprio il contrario. Persone ingenue e semplici, disponibili e docili inizialmente all’azione della grazia di Dio vengono troppo facilmente deviate dalla propria scelta originaria perché i responsabili hanno insegnato essi stessi per primi a dare più fiducia ai criteri delle logiche mondane, perseguite con l’assolutizzazione della psicologia o delle cosiddette scienze umane, che danno oggettivamente più importanza all’affermazione di sé che non alle indicazioni evangeliche che educano a “dare la propria vita a Cristo offrendosi generosamente, come ha fatto Lui, per la vita degli altri”.
Criteri
di discernimento
Qualcosa di analogo succede anche quando si tratta di formulare un giudizio o prendere una decisione di tipo più istituzionale con riferimento, questa volta, ad un’altra scienza cosiddetta umana come quella della sociologia, quando si tratta di decidere lo spostamento di una persona consacrata da una comunità ad un’altra e, più ancora, nelle difficili decisioni di chiudere o aprire una casa.
La professionalità stipendiata e difesa come si deve, nei suoi diritti dalle organizzazioni sindacali, appare più efficace e soprattutto meno paternalista e dunque più accettabile, e meno umiliante all’uomo adulto educato ai criteri della post modernità. Ma bastano questi criteri per fare un discernimento serio e coerente alla luce del vangelo quando si tratta di comunità di consacrati?
Notiamo che la stessa istituzione ecclesiastica sembra preferire la managerialità ai criteri più schiettamente evangelici perfino nella scelta dei vescovi. E nella gestione pratica si preferisce rivolgersi a volontari organizzati sollecitando l’attribuzione dei servizi a laici e professionisti vari senza alcun riferimento al valore aggiunto da una consacrazione o struttura canonica di qualunque tipo, come avveniva invece abbondantemente nel corso del secondo millennio della storia ecclesiastica.
Si tratta senza dubbio, in molti casi, di una soluzione giudiziosa ed estremamente positiva. Ma non sempre si aggiunge a simili soluzioni tecniche ideali, che danno spazio non solo legittimo ma desiderabile, nella Chiesa, ai laici, un impegno altrettanto serio di formare questi stessi laici alla mentalità evangelica e non semplicemente mondana. Spesso anzi succede che le conseguenze di quest’ultima carenza esplodano sotto gli occhi di tutti provocando non soltanto scandali inimmaginabili, ma anche la conseguenza paradossale di convincere le stesse persone consacrate a lasciare da parte i valori evangelici per anteporre ad essi i criteri dell’efficienza, e perfino del profitto economico, ottenuto spesso con l’umiliazione oggettiva delle persone umane interne ed esterne alle comunità di vita consacrata.
Stando così le cose nell’ambito della vita consacrata non meraviglia più lo sviluppo numerico di movimenti ecclesiali di ogni tipo e sensibilità, composto sostanzialmente da laici, nonostante che abbiano spesso al centro un nucleo di persone consacrate coerenti con le loro scelte che non riuscivano a perseguire più all’interno delle loro istituzioni originarie.
L’efficacia di simili movimenti è sotto gli occhi di tutti.
I posteri diranno se, con tutto questo, si stia andando verso una maggiore o minore autenticità della testimonianza cristiana. Di fatto però, almeno per ciò che riguarda le generazioni di questo ultimo secolo, si deve onestamente constatare che la presenza di queste forme alternative alla vita consacrata tradizionale spinge a concludere che siamo ormai – come ricorda la stessa rassegna della prof. Paris – ad una sorta di capolinea per le sorti di congregazioni e ordini religiosi di ogni tipo. Perché non prenderne atto? Quale che voglia essere il giudizio su una tradizione così gloriosa come la vita consacrata e quale che possa essere la possibilità o meno di lavorare efficacemente per tentare di farla rifiorire nella cristianità, non si può fare a meno di constatare il fatto. Si dovrebbe dunque ripensare il tutto in tutt’altro modo? Ma quale modo? Qui sta appunto il problema.
Criticità
e linee di futuro
La forma assunta dalla vita consacrata nel corso del secondo millennio dovrebbe forse ritornare sic et simpliciter a quella conosciuta dalla antichissima proposta monastica del primo millennio e proseguita a sopravvivere con le determinanti trasformazioni imposte dal modo di essere della Chiesa che è passata dalla società feudale alla travagliata modernità e che si sta tramutando sotto i nostri occhi negli anni della inevitabile post modernità?
Di quelle antiche forme di vita monastica sono rimaste in piedi strutture monumentali genialmente armoniche e accattivanti. Ed esse proseguono ad essere accattivanti, soprattutto nelle fasi adolescenziali della crescita umana, per gli intrinseci valori estetici, prima ancora che morali, riproposti qualche volta in tentativi più o meno riusciti di ritornare alle forme antiche o medioevali del monachesimo cristiano rivisitato alla luce di sollecitazioni potenti di altre forme religiose, soprattutto orientali.
Occorre ammettere però anche che, qua e là, la presenza di una contestazione non necessariamente matura ed equilibrata, carica di contestazione adolescenziale è dietro l’angolo. Infatti chi non intende accettare affatto il presente e fugge in un passato o in un’atmosfera “altra”, disdegna di riferirsi, e peggio ancora identificarsi, con una proposta come quella della vita consacrata cosiddetta attiva, tutta presa eccessivamente dal “fare” più che dal “contemplare”.
Il numero delle scuole di preghiera cosiddetta “profonda” si moltiplica nelle nostre città a livelli quasi esponenziali. Alcune di queste scuole perseguono un radicale ritorno alla vita monastica dei tempi antichi selezionando dalle diverse “scuole di spiritualità” gli elementi che sembrano più congeniali. E, d’altra parte, il desiderio di essere appunto contemporanei della postmodernità, provoca al contrario in molti una sorta di rigetto spontaneo nei confronti di certi ibridismi del “fai da te” motivato soltanto dal carisma del fondatore che non lascia sperare molto su una loro possibile permanenza nella storia della Chiesa dopo la morte del fondatore ritenuto a ragione o a torto carismatico.
Segno, questo, che quelle forme monastiche sono considerate morte e sepolte una volta per sempre? Oppure segno esplicito della convinzione che evocare simili forme significhi perdere tempo dietro memorie storiche obsolete e degne soltanto di essere visitate sia pure con stupore e sincero apprezzamento che è tipico dei visitatori interessati di un museo cittadino o nazionale?
La stessa nostra autrice – dovendo circoscrivere l’ambito di ricerca – non ritiene di dover dedicare neppure un cenno fugace a simili realtà monastiche che esulano per lei da una rivisitazione della vita consacrata che volutamente ha delimitato entro i confini ben definiti della fioritura straordinaria delle cosiddette congregazioni religiose – soprattutto femminili ma non solo – diffuse in Europa, e da qui sparse in tutti i continenti extra europei, nel periodo che va dalla rivoluzione francese della fine del secolo XVIII, fino alla secolarizzazione galoppante che si è imposta nella stessa Europa e nell’America del Nord durante tutto il secolo ventesimo.
Considero questa scelta forse un poco riduttiva, nonostante tutto, anche solo per il semplice fatto che così facendo si potrebbe correre il rischio di porre nello stesso sacco tradizioni ben altrimenti profonde e radicate teologicamente come le poderose riforme monastiche dei primi secoli del secondo Millennio. Tradizioni che hanno visto l’affermazione impressionante di ordini monastici come quello cistercense e dei monaci ed eremiti cosiddetti “bianchi”, e come la feconda apertura alla modernità dei Monaci benedettini cosiddetti “neri” che tanto hanno contribuito alla fecondità del messaggio evangelico e della cultura umanistica e cristiana dei secoli successivi fino al XIX secolo. Ma tradizioni che, attingendo alle forme monastiche rivisitate alla luce del nascere della società moderna, hanno prodotto Ordini religiosi di straordinario spessore nei primi secoli del secondo millennio, come i Domenicani e i Francescani, ma non solo, e poi dalla metà in poi dello stesso millennio Ordini determinanti per la storia della Chiesa come i Gesuiti, per esempio, e come le varie forme di Suore della carità, i vari discepoli di San Francesco di Sales e, appunto i Salesiani.
Ritengo che non si possa parlare di vita consacrata dimenticando nomi eccezionalissimi di santi che, col dare inizio a nuove forme di vita monastica, adesso riconosciuta sotto l’ampio mantello di vita consacrata, hanno punteggiato durante tutto il secondo millennio lo sviluppo della Chiesa Cattolica Apostolica Romana permettendole di affacciarsi al terzo millennio rigogliosa di testimoni di Cristo nelle terre nuove dell’Africa, dell’Asia e dell’America latina, regioni estremamente generose di martiri e di straordinari testimoni di Cristo postisi a servizio assolutamente gratuito dei bisogni umani in tutti gli ambiti della vita umana. E quasi sempre appartenenti ad una delle forme di vita consacrata.
C’è però, nonostante questo, un dato di fatto che non si può in nessun caso ignorare. L’Europa, e in genere il Nord di questo nostro pianeta, dà oggi a tutti, o quasi, l’impressione di aver esaurito la sua spinta creativa e la sua vitalità, anche se gli vengono riconosciuti con estrema sincerità gli onori dovuti se non altro per aver seminato la Parola del Vangelo in tutti i continenti e soprattutto per essersi interessati dei poveri e degli esclusi promuovendoli al punto da cominciare a rivelarsi oggi come determinanti per il futuro del mondo, in assoluta obbedienza alla missione ricevuta dal Signore.
Teologia della Parola
e vita spirituale
E dunque come ripartire? O meglio: è davvero necessario ripartire? Oppure si tratta semplicemente di riprendere in mano il Vangelo e rileggerlo in modo assolutamente nuovo in cui la kenosis e l’umiliazione del Crocifisso del Golgota si riprendano il primo posto che compete a tutti coloro che intendono definirsi radicali nella sequela di Cristo?
C’è infatti qualcuno che pensa ancora di poter autodefinirsi “consacrato a Cristo” senza giocarsi tutto portandosi dietro tutto ciò che la cristianità ha ereditato da più di un millennio rinunciando generosamente alla sete di successo e di affermazione di sé e delle proprie proposte culturali e istituzionali ereditate dal mondo e fatte passare, mentendo, come patrimonio ricevuto da Cristo?
A me impressiona tantissimo l’attuale rincorsa alla canonizzazione del Padre Fondatore o della Madre Fondatrice nel tentativo di farne velocemente un mito per esorcizzare la paura di finire nel dimenticatoio in tempi più ravvicinati di quanto i loro rispettivi discepoli si augurerebbero.
La radicalità è giocata inoltre tutta nel contesto della cosiddetta santità personale con la conseguenza di una cecità paradossale che non permette quasi mai di vedere ciò che vedevano molto bene tutti “quelli di fuori”, e cioè il tradimento che si perpetra spesso dei valori del Crocifisso nei piani alti della dirigenza non solo delle Istituzioni ecclesiastiche ma anche delle proprie cosiddette Opere di Apostolato.
Una malattia di elefantiasi che ha portato tantissime congregazioni di vita consacrata a trasformarsi inevitabilmente in grandi Holdings internazionali bisognose ovviamente di una dirigenza manageriale indotta, e perciò preparata, con i criteri mondani. E quel che è peggio è che anche nella formazione dei membri che vengono, sia pure in pochi, a far parte di istituzioni di questo tipo si richiedono e si impongono, per poter formare meglio il personale interno, criteri non più spirituali in senso stretto ma piuttosto psicologici con piglio decisamente manageriale. Non devono forse i singoli membri essere all’altezza di ciò che viene richiesto loro dai fatti? Certamente! Ma con una dimenticanza plateale della Parola di Gesù che aveva detto: “Non sono venuto per i sani ma per gli ammalati” e che, a proposito dei “dirigenti” della Sua Chiesa aveva detto a Pietro, dopo avergli aperto gli occhi di fronte ai limiti del suo essere fatto di carne e sangue ma anche di paure e contraddizioni continue, che lo avrebbero condotto fino al triplice tradimento umiliante: Non ti preoccupare, uomo di poca fede, perché “su una pietra come te, che pure ti chiami Pietro, io fonderò la mia Chiesa”.
Noi invece spesso pretendiamo pietre solide e ben levigate secondo i criteri e i modelli dei vari cosiddetti “scienziati” che osservano tutto fermandosi alla carne e al sangue, sennò le rifiutiamo immediatamente nonostante che, a parole, proclamiamo tutti ai quattro venti che intendiamo rivolgerci agli scarti della società. Sì, ma poi, con i fatti, decidiamo che restino fuori dai nostri confini che vogliamo che restino abitati e abitabili unicamente da chi è perfetto secondo i criteri non dello Spirito, e dell’adesione sincera e generosa al Vangelo, ma dei parametri mondani.
Quanti di noi, che pure siamo stati selezionati a dovere durante i tempi della formazione, non hanno dovuto constatare che la santità si nascondeva negli scartati o per motivi di intelligenza o addirittura per motivi di mancanza di nobiltà familiare non di sangue, ma di censo e di cultura. Per cui se non corrispondevano a determinati parametri si preferiva metterli in condizione di uscire, a meno che non fossero disposti ad accettare di dedicarsi ai lavori più umili e faticosi che nessuno dei cosiddetti “coristi” o “insegnanti” o comunque “professionisti” rinomati dalla società, si rifiutava di fare!
Forse proprio la dimenticanza del Vangelo, tradito sia per la ricerca dell’onore e dell’affermazione legata all’istituzione in quanto tale sia per il rifiuto sistematico di chi andava scartato per esigenza di perfezione umana potrebbe essere all’origine inconfessata di un fallimento di cui nessuno, e tanto meno le autorità istituzionali, intendeva assumersi la responsabilità.
Chiamati
a vivere l’inedito
Concluderei perciò queste mie osservazioni con le parole sacrosante che scrive sr. Nicla Spezzati che, al termine della sua prefazione al libro scrive giustamente: «i consacrati e le consacrate sono chiamati a intraprendere nuovi passaggi, affinché gli ideali e la dottrina prendano carne nella vita. Chiamati a vivere l’inedito. Un’arte complessa e umile che chiede piedi allenati a sentieri inesplorati, occhi penetranti e anima obbediente di profeta» (p.11).
Queste parole le sottoscrivo di cuore, ma mi permetto anche di aggiungere che, se non si accetta di morire con Cristo Crocifisso a tutto ciò che pensavamo fosse frutto delle fede più pura e invece era solo escrescenza di “religione” contrapposta alla “fede”, si arriverà al massimo a far sopravvivere in qualche modo le nostre congregazioni religiose, ma non a farle risuscitare al terzo giorno all’alba della Pasqua del Signore. Se non c’è morte e sepoltura non c’è infatti Risurrezione, ma solo sopravvivenza priva di futuro vero. Una verità che facciamo una fatica enorme ad accettare, ma è semplicemente il messaggio per antonomasia della testimonianza cristiana.
Il lavoro preciso, puntuale, esauriente di sr. Grazia Paris è comunque estremamente prezioso e dovrebbe essere conosciuto da tutti coloro che hanno a cuore la vita consacrata in questo tormentato periodo post conciliare della Chiesa cattolica. Mi sembra di poter dire che tutti, operatori e studiosi della vita consacrata oggi, non dovrebbero prescindere dal conoscere quell'insieme di problemi e di possibili soluzioni che il lavoro davvero straordinario della Paris ha generosamente messo a disposizione di tutti.
p. Guido Innocenzo Gargano, osbcam