Brevi dal mondo
2017/7, p. 37
PAkistan, Olanda, Monaco di Baviera
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Testimoni
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PAKISTAN
Asia Bibi da sette anni in carcere
Sono trascorsi ormai otto anni da quel 19 giugno 2009 quando, in Pakistan, Asia Bibi , mamma cristiana di cinque figli, fu arrestata dietro accusa di blasfemia, da parte di alcune sue compagne di lavoro, e sette anni da quando nel 2010 fu condannata a morte. Un’accusa che lei ha sempre respinto come falsa. Da allora ha trascorso tutto questo tempo in carcere e non si vede ancora come il caso possa risolversi, nonostante la pressione dell’opinione pubblica internazionale.
La Pontificia opera internazionale missionaria Missio, di Aquisgrana, ha colto l’occasione di questo anniversario, per esprimere attraverso il suo presidente, il prelato Klaus Krämer, tutta la sua preoccupazione per il fatto che il processo di appello viene continuamente trascinato per le lunghe. Già tre anni fa, Missio aveva inoltrato una petizione con 18.425 firme al governo federale tedesco perché la consegnasse ai responsabili del Pakistan chiedendo la liberazione di Asia Bibi.
Ora il caso è nelle mani della Corte suprema del Pakistan. Ma lo scorso ottobre uno dei tre giudici competenti ha abbandonato l’incarico per le continue dilazioni del processo contro la pena di morte e perché lo scorso aprile la giustizia pakistana ha rifiutato la domanda di avviare il dibattimento nel mese di giugno. Nel frattempo non è stato ancora nominato alcun giudice della sezione giudiziaria.
«I nostri partner in Pakistan, ha affermato Klaus Krämer, sono sconcertati e temono che la camera di appello trascini il caso finché Asia Bibi e la sua famiglia si logorino e che lei stessa abbia a morire». «I fanatici islamisti esercitano una pressione enorme sulla Corte suprema – ha aggiunto Krämer – e minacciano atti di violenza nel caso che la condanna a morte di Asia Bibi venga sospesa. Per questa ragione i giudici sono intimopriti».
A dire il vero nessuna condanna a morte per blasfemia è stata finora eseguita in Pakistan. Recentemente, all’inizio dello scorso mese di giugno, è stata emessa una condanna a morte di un trentenne musulmano sciita per alcuni suoi commenti in facebook ritenuti blasfemi. Purtroppo l’abuso della legge sulla blasfemia sta assumendo nel paese una dimensione sempre maggiore. Ora è stata estesa anche all’ambito digitale.
Il caso di Asia Bibi, comunque, è rappresentativo della problematica riguardante la legge sulla blasfemia. Il codice penale pakistano prevede tra gli altri casi, la pena di morte per lo scherno di Maometto e il carcere a vita per le offese al Corano.
Stando alle fonti pakistane (metà del 2013) i casi portati davanti ai tribunali sono stati 1.250 e riguardano 600 musulmani, 460 Ahmadi (gruppo musulmano non riconosciuto come tale), circa 160 cristiani, 30 indù, ma le condanne a morte finora non sono state eseguite. Tuttavia, dal 1991, circa una cinquantina di persone sono state uccise in attentati o linciaggi extragiudiziali dopo essere state liberte dal carcere.
Attualmente basta anche una critica a queste leggi per essere accusati di blasfemia. Nella vita di tutti i giorni, questa legge è spesso usata come strumento nelle querele tra vicini o in quelle politiche o economiche per eliminare persone sgradite e minoranze religiose oppure per tenerle sotto pressione. Purtroppo è ormai una legge che ha impregnato la cultura pakistana, cooperando a creare nel paese un clima di generale diffidenza e di intimidazione. Per le minoranze e anche per i musulmani moderati è rischioso esprimersi pubblicamente su questa legge. Bastino due esempi: sette anni fa, due esponenti politici pakistani di primo piano si erano impegnati nella difesa contro la condanna a morte di Asia Bibi. Uno, l’allora ministro per le minoranze nel governo pakistano, Shabbaz Bhatti, fu assassinato il 2 marzo 2011; l’altro, Salman Taseer, governatore della provincia del Punjab era stato ucciso due mesi prima, il 4 gennaio, dalla sua guardia del corpo. Da quel tempo i politici e i membri dell’amministrazione della giustizia, attanagliati dalla paura, hanno abbandonato ogni iniziativa.
OLANDA
Chiese vuote e in vendita
In Olanda, da alcuni decenni, il numero dei cattolici è in continua diminuzione. Molte chiese sono rimaste ormai vuote e vengono messe in vendita. Ogni settimana, in media, sono due quelle che chiudono, per diventare poi hotels, centri sanitari o scuole. In questi ultimi 24 anni in tutto il Paese ne sono state vendute 900.
Sono informazioni pubblicate in un servizio dell’8 giugno scorso dall’agenzia di stampa tedesca KNA, e raccolte durante una conversazione con la signora Mickey Bosschert, titolare dell’immobiliare Reliplan.
Ormai sessantottenne, la Bosschert conosce quasi tutte le chiese dell’Olanda. Sono infatti 24 anni che con il suo marito ha cominciato a catalogarle, raccogliendole inizialmente in un album fotografico e successivamente postandole in internet dove è facile ora poterle consultare.
Oggi, in Olanda, il mercato della vendita delle chiese è in piena espansione. Ogni giorno, ha affermato la Bosschert, arrivano sul suo tavolo progetti di grandi chiese che sono messe in vendita. A informarsi, ha precisato, vengono perfino dei cinesi per cercare di comperarle.
Mentre parlava di questo fenomeno, si trovava nella chiesa del piccolo villaggio Deest, di soli 1.500 abitanti, appartenente al comune di Druten, distante una ventina di chilometri da Nimega. In questo comune, ha affermato, quattro delle cinque chiese esistenti, saranno messe in vendita. La ragione è che sono rimaste vuote e la loro manutenzione è molto costosa ed è a carico della comunità. La stessa grande chiesa di Deest è ora destinata a diventare una casa di riposo per anziani.
La gente non desidera però che queste chiese siano vendute a persone di altra religione come è avvenuto, per esempio, nel villaggio di Afferden, nel Limburgo, in cui l’edificio, con l’annessa casa parrocchiale, attualmente in fase di ristrutturazione, è stato acquistato da monaci buddisti thailandesi.
Nel centro di Amsterdam sorge il ristorante Bazar, che un tempo era una chiesa cristiana. E nella città di Womerveer, situata a nord di Amsterdam, una chiesa protestante, è stata ristrutturata per ricavarne 16 abitazioni. Nel corridoio d’ingresso è stata conservata una parte dell’organo, e sulle pareti sono rimaste due finestre della chiesa che ricordano il passato.
Bosschert ha parlato anche di un altro progetto a lei particolarmente caro. Si tratta di un antico convento delle suore di santa Caterina da Siena, situata a nord di Amsterdam, su un’area pari a un ettaro di terreno: oggi è sede, tra l’altro, di una casa per la maternità dell’Esercito della salvezza, di un centro di attività sociale e presto anche di una scuola. La chiesa limitrofa, invece, era già stata affittata a una agenzia internazionale di musica, poi divenne una biblioteca. Attualmente l’edificio, risalente al 1924, è stato trasformato in un hotel.
La Chiesa olandese, ha sottolineato la signora Bosschert è ormai un organismo “leblos”, senza vita. E ha aggiunto che la sua preoccupazione è di cercare di vendere queste chiese a persone che le adibiscano per scopi umanitari. Anche perché, ha ribadito, se arrivassero delle comunità di altre religioni, sarebbe un fatto doloroso per gli abitanti del luogo.
MONACO DI BAVIERA
Memoria dei martiri del lager nazista di Dachau
L’arcidiocesi tedesca di Monaco di Baviera e Freising ha celebrato il 12 giugno scorso, per la prima volta, il giorno della memoria dei beati martiri di Dachau. In questa località, distante pochi chilometri da Monaco, i nazionalsocialisti, dopo la loro presa del potere, nel 1933, avevano creato il primo campo di concentramento che divenne poi il modello di tutti gli altri. Tra il 1933 e il 1945, secondo i dati ufficiali, furono internate qui più di 200 mila persone, soprattutto avversari politici dei nazisti, ebrei, sinti e rom, come pure biblisti e omosessuali. Il numero delle vittime è calcolato a oltre 30.000.
A partire dal 1940, con il crescere della persecuzione contro la Chiesa, furono deportati in questo lager anche oltre 2.700 sacerdoti: 1780 venivano dalla Polonia. Più della metà non sopravvisse. Di questi prigionieri, 200 sono stati considerati martiri e beatificati, tra cui 56 sacerdoti, religiosi e laici. Fra di essi anche il padre Engelmar Unzeitig, dell’istituto missionario di Mariannhill.
Era originario dell’odierna Repubblica Ceca, dove era nato nel 1911. Ordinato sacerdote nel 1939, a 28 anni, voleva andare missionario in terre lontane. Aveva scelto come motto del suo sacerdozio: “Se nessun altro vuole andare, andrò io!”.
Svolge il suo primo ministero in Austria. Incurante dei rischi, denuncia nelle sue omelie il regime nazista. Viene arrestato e deportato a Dachau nel 1941, dove saranno uccisi oltre 1000 sacerdoti e religiosi cattolici, ma anche pastori protestanti e preti ortodossi. Nel lager, p. Elgelmar si prende cura dei prigionieri, in particolare dei russi, impara la loro lingua e li assiste materialmente e spiritualmente. Scoppiato il tifo, i malati vengono abbandonati in una baracca dove nessuno pensa di andare: ci va lui, li aiuta come può e alla fine viene contagiato e muore senza ricevere le cure del caso. È il 22 marzo 1945. Il giorno prima aveva compiuto 34 anni. È stato sacerdote solo sei anni, 4 dei quali passati nel lager nazista.
In una lettera aveva scritto: «Qualunque cosa facciamo, qualunque cosa vogliamo, è sempre e solo la grazia che ci guida e ci porta. La grazia di Dio onnipotente ci aiuta a superare ogni ostacolo. L’amore raddoppia le nostre forze, ci rende ricchi di fantasia, contenti e liberi. Se solo la gente sapesse che cosa Dio ha in serbo per quelli che lo amano!».
Il card. Angelo Amato, che l’ha proclamato “beato” il 24 settembre 2016, nella cattedrale di Würzburg, intervistato da Sergio Centofanti per la Radio Vaticana, ha così affermato: «Padre Unzeitig appare come una scintilla di autentica umanità nella notte buia del terrore nazista. Egli mostra che nessuno può estirpare la bontà dal cuore dell’uomo.... Amando Dio con cuore totalizzante, era misericordioso e caritatevole con coloro che, come lui, soffrivano per gli stenti e le umiliazioni della prigionia.
Per dare consolazione ai prigionieri russi tradusse gran parte del Nuovo Testamento in russo per riaccendere la loro fede. Con la sua presenza affabile e piena di bontà dava speranza ai prigionieri oppressi e disperati del lager. Assisteva gli ammalati gravi accompagnandoli con affetto materno fino alla fine. Con lui la morte diventava un passaggio sereno verso l’eternità. Il supremo gesto d’amore fu la volontaria offerta di assistere e curare i malati di tifo a Dachau.
Nonostante l’esperienza disumana del lager, si mantenne paziente e ilare, cercando di tenere alto nei prigionieri il sentimento di dignità e di umanità. La sua condizione era da lui considerata come uno status onorifico, un privilegio per testimoniare l’amore di Cristo. La sua forza d’animo suscitava ammirazione e dava a tutti il respiro per continuare a sopportare una situazione senza speranza. “Era l’amore fatto persona”, ha detto di lui padre Adalberto Balling. Altri lo chiamano il nostro Beato, il martire della carità, il Massimilano Kolbe dei tedeschi».
a cura di Antonio Dall’Osto