Mostrami cosa ti rende felice
2017/7, p. 1
Occorre ridonare alla vita evangelica la sua bellezza
umana e divina, quella che crea gioia nel vivere e nel
donarsi. Quindi il progetto discepolare deve delinearsi
come esistenza carica di una certa gioiosità di vivere.
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Testimoni
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La gioia “contagiosa” della vita consacrata
MOSTRAMI
COSA TI RENDE FELICE
Occorre ridonare alla vita evangelica la sua bellezza umana e divina, quella che crea gioia nel vivere e nel donarsi. Quindi il progetto discepolare deve delinearsi come esistenza carica di una certa gioiosità di vivere.
Oggi per donarsi totalmente a Dio non basta il desiderio dell’“utile” ma sono necessarie risposte al desiderio del “bello”, per cui l’evangelismo se non è un fatto riscontrabile come gioiosa, “bella notizia” corre il rischio di essere visto soltanto quale teoria dai tratti stoico-platonici, e come tale incapace di far proprie alcune irrinunciabili istanze di umanità non estranee al Vangelo, tra cui in particolare la gioia, quella capace di rendere possibile «l’esistere da persona soddisfatta- scrive Bonhoeffer – nonostante desideri e bisogni insoddisfatti».
Il ritratto vivo di quel religioso/a in cui il divino e l’umano si abbracciano con ammirevole naturalezza, dovrà essere il vivere, colto nella giocondità che traspare dal suo volto. In questo consisterà, per il consacrato, essere buona notizia tra la gente, piuttosto che nell’essere visto come personaggio del tempio, della legge, delle istituzioni. Per tale fine occorre ridonare alla vita evangelica la sua bellezza umana e divina, quella che crea gioia nel vivere e nel donarsi. Benedetto XVI ha detto ai rappresentanti delle nuove esperienze evangeliche, quelle che hanno saputo rispondere alle esigenze di cambiamento: «Cari amici discepoli in questo nostro tempo, convocati per proclamare la gioia del credere»… «i vostri cammini sono nati proprio dalla sete della vera vita; sono movimenti per la vita sotto ogni aspetto». Quella vita che non si misura in termini di opere e di monumenti ma solo in termini di vitalità: quale forma gioiosa dell’amore espresso nel farsi fratelli, sorelle, padri, madri da parte di persone formate a essere in qualche misura «maestri della sapienza del cuore».
Specie quando si vive in una qualche forma di vita fraterna, si ha irrinunciabile bisogno di persone serene che conoscano la letizia, la più vera, quella del cuore; quella felicità leggera che traspare dal viso e dai gesti. Quindi il progetto discepolare deve delinearsi come esistenza carica di una certa gioiosità di vivere. Una gioia che sa soffrire; una gioia matura, adulta e senza leggerezze e senza niente di artificiale o di adolescenziale; una felicità solida, coraggiosamente acquisita.
Il futuro
e la prova della vita
Il futuro di ogni carisma passa attraverso la prova della “vita”. Oggi il futuro di ogni forma di vita carismatica non passa attraverso la prova della sua gloriosa storia, ma attraverso la prova della vita, quella che sta sotto gli occhi dell’uomo contemporaneo, perché la vita carismatica non ha soltanto la funzione di costruire la persona secondo categorie religiose, ma anche di costruirla in modo tale da essere creatura nuova nell’oggi, non avulsa dalla maturazione delle nuove istanze che vanno meglio ad esprimerla compiutamente.
È avvenuto nel passato che la preoccupazione di essere “religiosa” secondo alcuni paradigmi formatisi nel tempo «l’ha portata lungo i secoli a essere prigioniera di se stessa e delle sue paure, finendo con il preoccuparsi maggiormente di essere “religiosa” piuttosto che “vita”», quando invece per sua natura è chiamata a dischiudere orizzonti impensati di senso con il farsi incremento, intensificazione di bellezza dell’esistere, acqua viva per le nostre seti. Da qui l’odierna necessità di «dover imparare di nuovo a vivere e trovare un modo di stare nella storia che serva davvero per vivere, consapevoli che le risposte del Signore, sono sempre all’interno di un dato contesto storico, a partire dal fatto che la vita evangelica non è soltanto in funzione dell’annuncio dell’aldilà atteso, ma è costituita perché l’aldilà sia presente nella storia con sforzi di prefigurazione, di storie vissute, in funzione dell’avere più vita.
Tutto questo in una parola viene detto “spiritualità”: tema che oggi ha bisogno di un’acuta analisi critica delle “premesse”, ad opera di persone che non abbiano la propensione di far dire al Vangelo quello che amano che dicesse, ma capaci invece di far intravedere “altro”, radicato in profondità nel Vangelo.
Spiritualità
forza del carisma
Un carisma ha solo la forza di una vera spiritualità. Una parte della spiritualità attualmente espressa dalla vita religiosa, segnata da un’età media molto avanzata dei suoi membri, è datata storicamente e teologicamente, chiusa nel suo saputo di cui gli artefici sono stati i monaci, orientati alla fuga mundi. Da qui l’immagine classica del discepolo la cui spiritualità era caratterizzata prevalentemente dalla rinuncia che implica una radicale spoliazione di sé. Fino al IV secolo la santità era vista in particolare come “martirio”; successivamente, il martirio – quale modello di santità – è stato intravisto nello stile di vita povero, austero, mortificato, distaccato dal mondo, penitente, lontano dai problemi della vita, per cui nell’immaginario della gente è spesso passata l’idea che le virtù vitali fossero il mettersi da parte, la sottomissione, l’ascetica dolorifica, il disprezzo dei beni, la paura d’amare, la rigidità legalista. Ed è così che ritenere che l’umano, la terra, la passione per la vita fossero in qualche modo un intralcio è arrivato quasi fino a noi. Scrive una suora: «ci si doveva letteralmente mettere da parte, dimenticare le doti, le qualità, i doni, i valori ricevuti dalla natura, dalla famiglia…». Com’è stato possibile tutto questo? Noi veniamo dal credere che l’amore di Dio si meriti e che ai primi posti della graduatoria del merito ci sia la sofferenza, e dunque, in quanto meritoria, salvifica in sé. Da qui al credere che il cristianesimo sia una proposta di sofferenza il passo è breve. Ma per il cristiano, lo sviluppo di nuove possibilità non nasce dal doverle fare quale tributo sacrificale, bensì dalla potenza delle “passioni gioiose”, entro cui stanno anche quei sacrifici che sono al servizio della vita.
Il pensiero dei giovani si ritrova nel dire di C. Wieland: «preferisco una follia che mi entusiasma che una verità che mi abbatte», che significa: non mi interessa il divino che non alimenti l’umano. È questo il fine per cui uno sceglie di consacrarsi: per avere vita in abbondanza. Certamente secondo logiche evangeliche, che però oggi si calano su un concetto di persona, evoluto secondo alcune istanze antropologiche in precedenza misconosciute. In questo sta la gloria di Dio, non nella morte. La morale sottesa nel dire di Gesù: se il chicco di frumento muore porta molto frutto è quella della fecondità, non quella del sacrificio. Il sacrificio rimane: è la potatura del tralcio, ma lo scopo è il frutto moltiplicato.
Una salvezza
non solo promessa
«Una salvezza che sia solamente “promessa” perde la sua ragionevolezza». La spiritualità, come la fede, è ricerca della salvezza, ma se un tempo era prevalentemente la salvezza ultima dell’anima, oggi è la salvezza di tutto l’uomo già fin d’ora. Scriveva Schillebeecks: «La salvezza che la fede prospetta deve essere almeno un riflesso parziale e frammentario di quello che l’uomo sperimenta come salvezza totale». Non è più sufficiente una spiritualità di gente che mira solo al cielo, ma necessita una spiritualità fornita di prospettiva di popolo di Dio, pienamente coinvolta nelle vicende del mondo: questa è la spiritualità irrinunciabile nell’attuale sensibilità ecclesiale. Ne consegue che la spiritualità si presenta primariamente non tanto come un sistema di norme e pratiche, ma vitale nella realtà quotidiana; e le persone spirituali si presentano e sono percepite come coloro che hanno sete del Dio vivente e si sentono da lui amate, portatrici della gioia di un incontro. Sperimentare ciò è fondamentale affinché la vita dei consacrati, con l’andare degli anni, non vada verso una tiepida moderazione e si trasformi in un noioso adempimento di costumi.
Essere persone spirituali significa in più essere conquistate oltre che dal Signore anche dalle sue creature e dal creato; significa coltivare uno sguardo contemplativo della realtà; vivere la fiducia nel bene presente in ognuno rischiando in prima persona. Dunque una spiritualità a dimensione anche sociale, cioè attenta ai problemi del mondo, in grado di esercitare la responsabilità personale, la povertà in presa diretta con la carità; la condivisione, la solidarietà; lavorare per la giustizia-pace-salvaguardia del creato, esprimere come Gesù una fedeltà alla legge al di sopra della legge.
Una duplice
fedeltà
Non c’è fedeltà al divino che non sia fedeltà all’umano. Se, come disse Giovanni Paolo II «Essere uomo significa vivere in una data cultura», allora è connettendosi con le domande della storia che si mette l’agire sui sentieri di senso, vale a dire che non c’è possibilità di elaborare spiritualità per l’uomo senza immersione nella situazione culturale di un dato momento. Da qui il dover chiedersi: l’impianto attuale rispetta abbastanza l’essere-nella-storia del religioso/a, non trattandosi tanto di conquistare la vita eterna quanto di radicarla sin d’ora nel quotidiano?
È dunque indifferibile un faticoso inserimento culturale del carisma spirituale per portarlo a ri-esprimere con categorie nuove, la propria ricchezza, e diventare annuncio in una linea missionaria.
In un convegno di spiritualità alcuni giovani si ritrovarono nel dire di uno di loro: «Preferiamo le forme di “vita evangelica” che amano la terra», espressione in sintonia con la dottrina di Teilhard de Chardin il quale diceva che se uno vuole trovare Dio allora deve legarsi profondamente alla terra; e ancora: se una religione è giudicata inferiore all’ideale umano, per quanti miracoli vanti, è una religione perduta. Nella Gaudium et spes (n.1) è detto: «nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel cuore dell’uomo», infatti «il Vangelo si rivolge propriamente ai desideri più veri che ciascuno porta dentro di sé». Nella presentazione della verità evangelica Gesù ha tenuto conto di tutta la complessità dell’umano, tanto della mente quanto della ragione, come del cuore. Allora non si può più parlare di salvezza in termini cristiani senza avere davanti agli occhi la salvezza di tutto l’uomo, non solo per la vita eterna ma anche per il ben-essere quaggiù in coerenza con la sua vocazione terrena.
Nel cristianesimo, dunque, siccome il Vangelo contiene una concezione della vita umana prima di una teologia, la prima operazione è cercare di risvegliare l’umano, offrire spazi di umanità interessante, credibile, che possa attirare l’attenzione, sviluppare interrogativi, promuovendo efficacemente la crescita della salute non solo spirituale ma anche psichica, fisica, in risposta al desiderio di autenticità, di realizzazione, in fedeltà anche a se stessi, cioè alla propria verità e al nome scritto da Dio in ognuno. È un fatto che i/le giovani sentono l'esigenza – diversamente da un tempo – di modi di essere che siano maggiormente espressivi di umanità quali la libertà, la ragione, l’autenticità, la creatività e la soggettività. Generazioni queste che non sono refrattarie nemmeno all’idea di vocazione intendendo con essa un progetto e una idea di fondo cui ancorare la propria esistenza, a condizione però che sia un progetto che rifletta i tratti culturali emergenti nella storia che è loro propria.
Oggi a dirlo è l’agire quanto mai sconvolgente di papa Francesco il quale presenta nei gesti un cristianesimo che si offre come custodia della qualità dell’umano, dicendoci in questo modo che testimoniare l’incarnazione significa comprovare l’entrata della vita divina nel vivere in pienezza la dimensione umana.
Rino Cozza csj