Brena Enzo
Vita consacrata e famiglia
2017/6, p. 24
L’anno della vita consacrata e i due Sinodi dedicati alla famiglia non potevano passare senza provocare una riflessione sulla relazione che intercorre tra queste due vocazioni all’interno della Chiesa.

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Testimoni
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Giornata di studio dell’Antonianum
VITA CONSACRATA
E FAMIGLIA
L’anno della vita consacrata e i due Sinodi dedicati alla famiglia non potevano passare senza provocare una riflessione sulla relazione che intercorre tra queste due vocazioni all’interno della Chiesa.
Testimoni aveva già presentato una riflessione in occasione di una sessione della USG dedicata a questo aspetto specifico, anche alla luce delle aperture di tanti istituti a forme di collaborazione con laici e famiglie (Testimoni 4/2014, p. 1).
Nel 2016, l’Istituto Francescano di Spiritualità della Pontificia università Antonianum ha organizzato una giornata di studio sul tema, il cui risultato è ora reperibile in libreria.1
Due
vocazioni
I principali contributi di quella giornata di studio sono del biblista p. Roberto Pasolini ofmcap (Includere l’A/altro. Vita consacrata e famiglia in una Chiesa tutta battesimale) e del vescovo ausiliare di Milano, mons. Paolo Martinelli ofmcap (Vita consacrata e famiglia. Percorsi di reciprocità), nei quali è apprezzabile un approfondimento propositivo capace di evidenziare le caratteristiche di entrambi gli stati di vita.
«È urgente riscoprire l’irrinunciabile testimonianza dei coniugi cristiani – ricorda nell’introduzione p. Alceo Grazioli tor – in un vitale rapporto con i chiamati alla verginità, in una comunione che non può rivelarsi un misero appiattimento bensì un’arricchente reciprocità sinfonica».
Il dato di fondo, per nulla scontato, è che entrambi sono vocazioni: matrimonio e vita consacrata. Se, per quanto riguarda la vita consacrata ciò non costituisce una novità, lo è di certo per il matrimonio che solo a partire dal concilio Vaticano II° si è visto considerato vocazione a pieno titolo. «La Lumen gentium – afferma p. Grazioli – evidenziando l’importanza della chiamata universale alla santità (LG 10) e riscoprendo il sacerdozio comune dei fedeli laici (LG 40), ha affermato manifestamente che la vocazione alla pienezza dell’amore può essere vissuta anche dalla condizione familiare, che nasce dal sacramento del matrimonio».
Questa consapevolezza viene riconosciuta e confermata dal recente Sinodo sulla famiglia che, in modo esplicito, considera gli sposi come consacrati che «mediante una grazia propria, edificano il corpo di Cristo e costituiscono una chiesa domestica» (Relazione finale, 4-25/10/2015, p. 42).
Definire gli sposi come consacrati, senza nulla togliere a chi ha scelto la vita consacrata, ha il pregio di ricordare quanto l’ambito umano è luogo di incarnazione del dono di Dio, accolto e corrisposto. Non è più tempo di questioni peregrine su quale sia la scelta migliore o più valida, quanto di imparare a valorizzare ciò che una ha da dire e offrire all’altra in un rapporto di reciprocità, dato che entrambe le vocazioni, per vie diverse, permettono di rispondere all’unico Amore.
Battesimo, relazione
e inclusione
Il contributo biblico di p. Pasolini mette in evidenza come la Bibbia, nell’insieme di AT e NT, non presenti un modo preciso e univoco di parlare di matrimonio e vita consacrata. Esse sono forme diverse attraverso le quali si esprime l’unica consacrazione battesimale a Dio.
Nel battesimo si radicano e ricevono significato le due vocazioni e, più precisamente, nella struttura relazionale che ci costituisce ontologicamente per il fatto di essere creati a immagine di Dio. Al di là della differenziazione maschile/femminile, infatti, il tratto distintivo della somiglianza dell’uomo con Dio sembra essere proprio quello della relazione tra i due.
L’uomo che emerge dalle pagine bibliche è «un essere relazionale la cui vita si gioca nella capacità di includere l’Altro (Dio) e l’altro (gli altri) all’interno del suo spazio di vita». Il tratto identitario ricevuto in dono da Dio fonda la possibilità di unione e comunione dell’uomo e della donna non solo a un livello fisico ed emotivo-affettivo, ma soprattutto al livello tipicamente umano: la libertà. La qualità “vocazionale” della relazione uomo/donna sta in questo aspetto della libertà.
Proprio a salvaguardia della libertà deve essere inteso il comando divino di non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male: «la gratuità del dono della vita rivela la sua natura relazionale attraverso l’esplicitazione del limite e della sua simbolica funzione di custodia».
L’esperienza del limite è percepita dall’uomo come una prova di inadeguatezza, istintivamente interpretata come ingiustizia, come opportunità negata. Non è colta, invece, come condizione sufficiente perché la sua libertà possa esprimersi in una scelta di apertura – di inclusione – che permetta la crescita nella conoscenza e la possibilità di accedere alla pienezza del dono ricevuto, passando attraverso il libero dono di sé.
In questo senso – annota Pasolini – il limite imposto da Dio nell’Eden «è anche presagio di un’ontologia di comunione che l’uomo deve imparare a riconoscere e ad abbracciare nella libertà e nella responsabilità». Come a dire che la proibizione, paradossalmente, custodisce la libertà della comunione, preservando dal pericolo di una conoscenza e di un possesso autoreferenziali e aggressivi. La vita dell’uomo è garantita se e quando «si mantiene capace di includere Dio (l’Altro) e il prossimo che è posto accanto a lui (l’altro)».
Questo percorso, che conduce l’uomo alla pienezza dell’immagine e somiglianza divina, deve essere compiuto nella consapevolezza e nella libertà di «autolimitarsi per poter diventare non solo oggetto ma anche soggetto di infinito e libero amore». Percorso, peraltro, bisognoso di «una rigenerazione perché ormai la sua natura ferita e mortale prevale sulla sua persona libera e creativa nell’amore».
Alla luce di questo unico cammino di salvezza trovano senso le scelte della vita consacrata e del matrimonio, e la relazione tra essi.
Abramo è proposto come icona della vita consacrata, simbolo di «una vita che accetta di ridefinirsi interamente – e improvvisamente – a partire dalla parola di Dio» e che «all’interno della comunità cristiana si attesta proprio come un’esperienza di accoglienza del primato di Dio nella propria vita». Ascolto e sequela sono, per Abramo, scelte e atteggiamenti “terapeutici” per guarire dalle conseguenze del peccato e ricostruire la relazione e la comunione con Dio.
Nell’episodio del sacrificio di Abramo, poi, l’ascolto si rivela possibilità di conoscere non solo Dio ma anche se stesso. «Offrendo con generosità il figlio tanto atteso e desiderato, Abramo mostra che l’uomo è in grado di obbedire a quella struttura antropologica in cui è già scritta la capacità di saper “offrire” la necessità di “prendere”», maturando in anticipo la somiglianza con Dio che, nella pasqua del Figlio, rivela in modo definitivo la gratuità del suo amore.
Sempre nella Genesi, è possibile cogliere la via più naturale per la quale uomini e donne portano a guarigione la loro struttura antropologica relazionale: l’amore coniugale tra uomo e donna. La relazione tra Abramo e Sara – come anche quelle di Isacco e Rebecca e di Giacobbe e Rachele – rivela come l’uscita dalla logica del peccato passa attraverso la possibilità di umanizzazione che le relazioni amorose rendono accessibile a chi vuole fare tale percorso di liberazione.
«Assumendo la Genesi come paradigma antropologico – dice Pasolini – osserviamo nelle grandi storie d’amore dei patriarchi come l’umanità ferita dal peccato sia chiamata, proprio nel rapporto con l’altro, a vivere l’occasione di fare ritorno alla sua natura relazionale». Solo nell’esperienza dell’amore, cioè dell’inclusione dell’altro, è possibile tornare al Padre, superando la paura e la morte, tristi conseguenze dell’esclusione dallo spazio delle relazioni.
Il dono battesimale dello Spirito rende l’uomo e la donna capaci di includere l’Altro e l’altro nella libertà e creatività dell’amore, ciascuna vocazione a partire dalla scelta preferenziale compiuta.
Mai senza
l’altra
Il contributo di mons. Martinelli poggia sulla convinzione che matrimonio e vita consacrata sono vocazioni che non possono sussistere nella Chiesa l’una senza l’altra, dal momento che entrambe rispondono, in forme diverse, all’unica chiamata alla pienezza dell’amore.
Tenendo presente il magistero degli ultimi decenni e a partire dall’universale vocazione alla santità, Martinelli fa notare come le caratteristiche tradizionalmente ritenute proprie della vita consacrata – santità, conformità a Cristo, valore escatologico – siano da considerare invece, appannaggio di tutta la Chiesa e di ogni cristiano.
«Ciò che fonda la verginità cristiana è ciò che fonda il matrimonio come sacramento. Gesù è il senso dell’una e dell’altra forma»: è l’eunuco per il regno dei cieli (Mt 19) e insieme lo Sposo che dà la vita per la sua sposa (Ef 5). Per questo, ogni scelta di vita (ministro, consacrato, laico) esprime ciò che è essenziale all’altra (cfr. ChL 55).
Al di là e contro ogni riduzionismo, la visione cristiana fondata sulla Scrittura ha sempre valorizzato entrambe le vocazioni lungo la storia, considerandole «coessenziali, insieme al sacerdozio ministeriale, per una Chiesa tutta missionaria, in uscita».
Martinelli fa notare quanto lo sforzo apologetico della Controriforma abbia spostato il baricentro del sacramento del matrimonio sul versante del diritto, mettendo in ombra il più tipico aspetto teologico-spirituale. Ciò ha condotto il popolo cristiano a una progressiva mondanizzazione dell’esperienza coniugale.
È interessante rilevare che questa sorta di riduzionismo giocato sul matrimonio ha avuto conseguenze negative anche sulla vita consacrata. La verginità, infatti, «viene caricata del compito di mostrare la grazia nel suo aspetto escatologico e trascendente, perdendo tuttavia il suo nesso con la dimensione antropologica e storica».
Non è difficile convenire sulla necessità di riscoprire la figura centrale del cristiano e della famiglia (cfr. LG, ChL). A tal proposito, il recente documento post-sinodale Amoris laetitia afferma che la famiglia non è da intendere come semplice destinataria della cura pastorale, ma è soggetto di pastorale e di evangelizzazione. La famiglia, infatti, «è il crocevia dell’umano in cui si mostra la pertinenza della fede alla vita».
Sarebbe corretto affermare, anzi, che sacerdozio e vita consacrata si comprendono solo a partire dalla famiglia, dal momento che chiunque si riconosca chiamato al ministero e alla vita dei consigli evangelici è comunque persona nata, battezzata e cresciuta in una famiglia. La complementarietà tra matrimonio e vita consacrata «è essenziale alla missione della Chiesa nella storia».
Per valorizzare seriamente tale complementarietà è necessario richiamare il valore positivo e insuperabile della differenza sessuale, tipico della rivelazione ebraico-cristiana. Il dato originario della creazione dell’uomo come maschio e femmina, entrambi immagine e somiglianza di Dio, è orientata all’unità dei due, espressione del mistero di comunione a cui appartengono. Differenza sessuale e fecondità sono espressione della imago Dei. Ma la condizione umana deve fare i conti con il peccato, che segna gli affetti, le relazioni e la generazione dei figli.
Il mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio si rivela come «assunzione, guarigione e compimento dell’uomo nella sua condizione concreta»; e centro della rivelazione cristiana è il mistero pasquale, che libera l’uomo dal peccato, «comunicando al contempo la verità dell’amore nuziale, in cui Cristo stesso si presenta come lo sposo che dà la vita per la sua sposa».
L’eucaristia – fa notare Martinelli – esprime la realtà di «un corpo sponsale donato fino all’estremo, sino alla morte» e la Chiesa appare come «la sposa che accoglie questo corpo donato fino alla morte per renderlo fecondo in sé, in favore di tutta l’umanità».
Qual è il senso, allora, di una scelta di vita consacrata? Essa consiste in una libera rinuncia a marito/moglie e alla generazione di figli, e diventa testimonianza che il compimento della vita è Cristo morto e risorto, che ha rivelato l’amore “più grande”. «Liberando i rapporti affettivi dalla paura della morte e dalla pretesa che l’altro debba essere la fonte della propria felicità, la verginità introduce per tutti una nuova qualità degli affetti, proprio a cominciare dal rapporto tra l’uomo e la donna: la gratuità come ideale per ogni relazione».
Il distacco richiesto nei rapporti dalla scelta di verginità, lungi dallo sminuire l’importanza della relazione, vuole affermare il suo fondamento più profondo e radicale, riconosciuto nella modalità libera e amorosa con cui Cristo stesso è in rapporto col mondo. Il dono eucaristico che Cristo fa di se stesso è modello del matrimonio come della vita consacrata. Il primo afferma che Cristo risorto sta a fondamento dell’amore-comunione degli sposi e della nascita dei figli, generati per la vita di risorti. La seconda, non generando nella carne, afferma la gratuità della relazione, testimonianza utile anche per chi è sposato.
Entrambe le vocazioni, in forme diverse, sono chiamate a esprimere la paternità e maternità di Dio: affermazione gratuita dell’altro in un’accoglienza che lo “ospita” come colui/colei che non può mancare per una reale celebrazione della vita e dell’amore trinitario.
Enzo Brena