Dall'Osto Antonio
Brevi dal mondo
2017/5, p. 37
India, Afghanistan, Laos

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Testimoni
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INDIA
Sr. Rosa e la rivoluzione della gomma
Può sembrare strano che a una suora sia stata assegnata una scorta. Ma è quanto è avvenuto in India a sr. Rosa Kayathinkara, per le minacce che continuamente riceve da chi non ha gradito né gradisce l’opera di promozione compiuta e che compie tra le popolazioni povere che vivono nella zona delle colline orientali del Garo, nel distretto di Meghalaya, nell’estremo nord est dell’India, e la sua difesa anche dagli usurai e dagli sfruttatori.
Sr. Rosa è nativa dello stato meridionale del Kerala e appartiene alla congregazione delle Suore medico missionarie, fondate a Washington dal medico austriaco Anna Dengel (1892-1980), con l'aiuto del sacerdote Michael Mathis, per l'assistenza sanitaria ai poveri nei paesi sottosviluppati.
Al suo arrivo nel Garo, nel 1972, la gente viveva in una grande povertà. C’erano più di 500 famiglie alloggiate in capanne di bambù, che faticavano per riuscire a procurarsi anche un solo pasto al giorno.
Sr. Rosa era giunta dopo aver ottenuto un diploma in attività sociali. Viveva in una piccola capanna appollaiata su una pianta. Impressionata dalla estrema povertà della gente, aveva cercato inizialmente di aiutarla con l’allevamento del bestiame e la coltivazione degli ortaggi. Ma siccome la gente non aveva alcun senso del risparmio, ebbe allora l’idea di proporre la coltivazione dell’albero della gomma, di cui aveva avuto l’esperienza nel Kerala. Ma ci volle del tempo per convincere gli abitanti, che inizialmente accolsero la proposta con molto scetticismo. Un testimone del luogo, Jengsang Marak, ricorda ancora la prima visita che sr. Rosa compì al suo villaggio: «Ci parlò di questa possibilità di guadagno e dei suoi vantaggi. Ma all’inizio non abbiamo creduto alle sue parole». Allora tornò accompagnata da alcuni dirigenti della Rubber Board del Kerala, regione dove da oltre cento anni la gente aveva fatto della coltivazione della gomma un affare molto lucrativo. A questo punto, racconta Jengsang «dopo che se ne fu andata, ci incontrammo con il nostro capo-villaggio e decidemmo di provare». E Jengsang diede l’esempio piantando il primo alberello nel suo villaggio.
Da allora sono trascorsi 29 anni e oggi sulle colline si vedono dappertutto alberi della gomma con le coppe appese per la raccolta del lattice.
Sr. Rosa dopo 12 anni di permanenza aveva avviato anche una cooperativa per la vendita di provviste per la vita quotidiana, a un prezzo minimo. Oggi raccoglie anche la gomma e altri prodotti agricoli degli abitanti dei villaggi e li vende direttamente sul mercato, facendo infuriare i mediatori.
Attualmente migliaia di residenti in altri 20 villaggi, sparsi su una superficie di 2950 miglia quadrate nelle colline Garo di Meghalaya hanno raggiunto un certo benessere e vivono non più in capanne ma in case in muratura.
Ma questo sviluppo le suscitò le ire sia degli affaristi sia dei secessionisti, di coloro cioè che combattono per l’indipendenza del territorio. Gli affaristi praticavano una pesante usura e i secessionisti imponevano delle tasse per la loro lotta armata. Si giunse presto alle minacce e alle intimidazioni, ma sr. Rosa, attualmente settantatreenne, è una donna molto coraggiosa e non ha paura di niente.
Ne dà testimonianza il vescovo Andrew Marak della diocesi di Tura il quale ha dichiarato che le minacce ricevute l’hanno resa ancora più forte: «Il suo cuore e la sua anima sono tutti per la gente». E ha testimoniato di aver visto «i radicali cambiamenti avvenuti tra le gente» dopo che lei li ha spinti a prendere la vita più sul serio. E ciò è avvenuto soprattutto attraverso la sua rivoluzione della gomma».
Il governo locale ha insignito sr. Rosa di vari premi. Ma ciò che maggiormente impressiona, dice un sacerdote del Garo, è il fatto che le gente è stata rafforzata nella sua fede. Mentre «prima viveva una fede superficiale, ora partecipano alle celebrazioni, amano i sacerdoti e le suore e contribuiscono anche generosamente ai bisogni della chiesa».
AFGHANISTAN
Partite le due ultime Piccole Sorelle di Gesù
Lo scorso mese di febbraio le ultime due Piccole Sorelle di Gesù, Marianne e Catherine, dopo 40 anni di permanenza, hanno lasciato l’Afghanistan, per l’età ormai avanzata e la mancanza di nuove vocazioni.
L’Istituto, fondato da Magdeleine Hutin e ispirato al messaggio di Charles de Foucauld, era presente nel Paese da 60 anni. Le prime sorelle erano arrivate infatti nel 1956.
Padre Giuseppe Moretti, cappellano all’ambasciata italiana e responsabile della missio sui iuris dell’Afghanistan fino al 2015, come riferisce l’agenzia AsiaNews , racconta: «Per tutti questi anni, le suore non hanno mai lasciato Kabul: non durante l’occupazione sovietica, non sotto i talebani e neanche durante i bombardamenti... Parlavano la lingua farsi, vivevano come afghane, dormendo su un tappeto per terra e indossando gli abiti tradizionali.». Per questo, erano amate e stimate dalla comunità, tanto che negli ultimi anni avevano ottenuto la cittadinanza afghana: «Scherzavano dicendo che non è vero che nel Paese non esiste più un afghano cristiano».
Erano rispettate anche dai talebani. «Nel 1993 – riferisce ancora p. Moretti – andavano tutti i venerdì nella cappella dell’ambasciata a pregare, nonostante fosse chiusa a causa della guerra civile. I talebani sapevano chi erano, e le hanno sempre lasciate entrare. Sulla facciata della cappella c’è una croce ben visibile. La sede centrale della polizia religiosa era proprio lì vicino. Avrebbero potuto distruggere la cappella, ma non l’hanno fatto».
«Nei primi anni del 2000, la polizia era andata a cercarle a casa. A quel tempo, abitavano in un casermone costruito dai sovietici. Il responsabile dell’edificio, un mullah, fermò la polizia dicendo: «Le suore non si toccano. Queste donne vanno rispettate». I talebani si limitarono allora ad entrare nell’appartamento per poi andare via, lasciandole in pace».
Secondo p. Moretti, ciò che colpiva era il loro modo di stare vicine ai bisognosi, “nel silenzio”: «Anche con l’arrivo della Nato nel 2002, hanno sempre rifiutato con gentilezza tutte le interviste. Non solo per non essere prese di mira o considerate spie, ma proprio per via della loro dedizione e del loro riserbo. Tante donne si sono rivolte a loro, in cerca di appoggio, consolazione e forza, e hanno sempre tenuto riservate le loro storie».
«Le Piccole sorelle di Gesù erano afghane fra gli afghani» – conclude p. Moretti. «Chi le vedeva non poteva che ammirarle. La loro è una storia a cui dobbiamo guardare».
Adesso in Afghanistan rimangono le suore di Madre Teresa di Calcutta e un gruppo formato da più congregazioni che si occupa, insieme a delle maestre afghane, di bambini con disabilità. Secondo p. Moretti, la storia delle Piccole sorelle ha facilitato queste nuove esperienze.
LAOS
Beatificazione di 17 martiri
L’11 dicembre 2016 nella capitale del Laos, Vientiane, sono stati beatificati 17 martiri, uccisi in odium fidei dai guerriglieri comunisti del Pathet Lao tra il 1954 e il 1970. Fra questi anche il religioso italiano, p. Mario Borzaga (nella foto). Ha presieduto la cerimonia il cardinale, arc. di Cotabato (Filippine), Orlando Quevedo, in qualità di inviato speciale del papa Francesco. La Messa è stata celebrata nella cattedrale del Sacro Cuore. Per la circostanza erano venuti cardinali, vescovi, sacerdoti, suore e laici dai paesi vicini, specialmente dal Vietnam, ma anche dall’Europa (Francia e Italia). Inoltre anche vescovi che avevano sofferto in prigione e nei campi di rieducazione, oltre a missionari sopravvissuti alla persecuzione e alla espulsione del 1975, e un migliaio di fedeli – un numero elevato se si pensa che la comunità cattolica nel paese conta solo l’1% su una popolazione di circa 7 milioni di abitanti. Sono intervenuti anche alcuni parenti dei martiri e abitanti delle zone dove operavano i missionari dell’OMI prima di essere cacciati dal governo nel 1975. In prima fila figuravano anche le autorità che avevano autorizzato la celebrazione, a condizione che non uscisse dal perimetro della chiesa.
Dei 17 martiri, 6 sono di nazionalità laotiana, 10 fanno parte dell’Istituto Missioni Estere di Parigi e della Congregazione dei Missionari Oblati dell’Immacolata (OMI). Tra questi anche p. Mario Borzaga, OMI, originario di Trento. Era giunto in Laos lo stesso anno della sua ordinazione sacerdotale, nel 1957. Era molto giovane ma già preparato a questa difficile missione. «Ho bisogno di fede e di amore – aveva scritto – altrimenti non posso diventare martire». Si occupava della formazione dei catechisti, della visita alle famiglie, della cura dei malati. Il 25 aprile 1960 era partito per un viaggio di due settimane assieme al catechista Paul Thoj per visitare alcuni villaggi dell’etnia Hmong nella foresta. Fu un viaggio senza ritorno. Alcuni testimoni hanno confermato che la morte dei due missionari avvenne ad opera dei comunisti del Pathet Lao e hanno riportato anche le ultime parole del catechista Paul il quale disse: «Io rimango qui. Se uccidete lui, uccidete anche me». P. Borzaga aveva 28 anni e il suo catechista Paul 19.
Nell’omelia di beatificazione, il card. Quevedo ha esortato i presenti: «Siate forti, siate fermi! ... Questo è un giorno di amore dei 17 martiri, un giorno di gioia per tutti gli abitanti del Laos, un giorno di benedizione per una pacifica e armoniosa relazione fra tutti i cittadini laotiani».
Il cardinale ha quindi invitato il “piccolo gregge” a essere fedele a Cristo e al Vangelo e ad essere “luce e sale” in seno alla società del Laos.
La Chiesa del Laos celebrerà ogni anno la festa di questi martiri il 16 dicembre.
a cura di Antonio Dall’Osto