Un Papa per questo tempo
2017/5, p. 15
A quattro anni dalla sua elezione ancora non ci si è
rimessi del tutto dalla sorpresa che hanno suscitato e
continuano a suscitare le sue parole, il suo stile, i suoi
gesti. Si fatica, in molti, a capacitarsi di quanto sta
accadendo. E, di conseguenza, a comprendere ciò che lo
Spirito sta dicendo oggi alla Chiesa.
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I quattro anni di servizio come vescovo di Roma
UN PAPA
PER QUESTO TEMPO
A quattro anni dalla sua elezione ancora non ci si è rimessi del tutto dalla sorpresa che hanno suscitato e continuano a suscitare le sue parole, il suo stile, i suoi gesti. Si fatica, in molti, a capacitarsi di quanto sta accadendo. E, di conseguenza, a comprendere ciò che lo Spirito sta dicendo oggi alla Chiesa.
«Questa non è l’opinione di un papa né un’opzione pastorale tra altre possibili; sono indicazioni della parola di Dio così chiare, dirette ed evidenti che non hanno bisogno di interpretazioni che toglierebbero ad esse forza interpellante. Viviamole “sine glossa”, senza commenti. In tal modo sperimenteremo la gioia missionaria di condividere la vita con il popolo fedele a Dio cercando di accendere il fuoco nel cuore del mondo». Così papa Francesco nella Evangelii gaudium (n. 271), il suo messaggio programmatico.
Sintonizzare
mente e cuore
A quattro anni dalla sua elezione – è d’obbligo rimarcarlo – ancora non ci si è rimessi del tutto dalla sorpresa che hanno suscitato e continuano a suscitare le sue parole, il suo stile, i suoi gesti. Si fatica, in molti, a capacitarsi di quanto sta accadendo. E, di conseguenza, a prendere posizione. Reinterpretandosi là dov’è necessario. Con coerenza e pertinenza, certo, ma soprattutto – diciamolo pure, perché è la cosa essenziale per un discepolo di Gesù – con schietto e aperto senso ecclesiale: con quel desiderio e quell’istinto cioè, suscitati e nutriti dalla fede, per cui ci si sintonizza col cuore e con la mente su ciò che «lo Spirito dice oggi alla Chiesa», per partecipare responsabilmente e con slancio alla sua missione nel servire lo sviluppo integrale della persona e della società.
Perché questo, in definitiva, è il punto. Al di là dei gusti, delle esperienze e dei desideri personali, che pure son cose di cui tener conto: ma che non debbono smorzare o addirittura zittire la voce di Dio. La quale se, da una parte, si fa sentire nell’intimo della coscienza (che, beninteso, sempre di nuovo va sottoposta al lavorio di purificazione che in ciascuno opera lo Spirito Santo), dall’altra, c’interpella comunitariamente in quanto ekklesía: l’assemblea del popolo convocato da Dio tra le genti, che pellegrina nella storia in un itinerario di compagnia universale puntando alla meta che supera ogni attesa. Come appunto si verifica, oggi, attraverso l’appello a intraprendere una tappa nuova di questo cammino che ci viene additata con singolare energia, nel solco tracciato dal Vaticano II, da papa Francesco.
Egli infatti – lo attesta la citazione da cui ho preso le mosse – mostra d’ispirare con radicale nitidezza il suo ministero a un criterio che, in verità, vale sempre e in tutti i casi per ogni discepolo di Gesù nell’esercizio di ciò che è chiamato ad essere e a fare: vivere il Vangelo “sine glossa” – senza commenti e senza compromessi.
La formula, lo sappiamo, è di Francesco d’Assisi, di cui non per nulla Jorge Maria Bergoglio ha interiormente sentito da Dio – lo ha condiviso lui stesso – di dover assumere il nome in quest’ora della storia del mondo: per dichiarare lo spirito di cui vuole animato il suo servizio come vescovo di Roma. È una formula che dice l’istanza prioritaria, anzi l’imperativo, a non misurare il Vangelo sulla misura nostra ma ad aprire cuore e mente alla misura a cui senza posa li dilata il Vangelo.
Il che diventa realistico – ecco l’invito di papa Francesco – solo mettendo in atto quella conversione e quella riforma della vita e della missione, dei metodi e delle strutture, nell’esperienza d’essere oggi la Chiesa di Cristo, che sono frutto dell’ascolto dello Spirito e della nostra fedele e creativa risposta. Nell’apertura disarmata alla grazia di Dio.
Dentro
la storia
Ma non è questo – si dirà – ciò cui la Chiesa d’ogni tempo è chiamata? Certo, è proprio così. Che c’è dunque di nuovo?
Sorprende – ma solo fino a un certo punto, perché il copione è quello di sempre, anche se ancora una volta addolora il prenderne atto – che taluni, in definitiva con ben poca contezza della bimillenaria storia della Chiesa, vedano nelle linee pastorali proposte da questo papa una deviazione dalla retta via sinora percorsa. Perché, in verità, la conversione e la riforma assumono in ogni tempo un tono e intraprendono una via che, essendo quelli di sempre, sono però quelli e solo quelli che rispondono alle domande e alle ferite del tempo che si è chiamati a vivere. E non di un altro che più non c’è.
Così che il Vangelo di Gesù, passo dopo passo, visita e trasforma nel soffio dello Spirito la coscienza dell’umanità lievitandone la storia. Sempre più profondamente. Benché l’esito del cammino resti tutto, alla fine, nelle mani di Dio. Il quale non si stanca di agire secondo la strategia che è la sua più propria: non far mai nulla senza la libera corrispondenza nostra.
Perciò, se la conversione chiesta ieri è, per un verso, quella stessa che è chiesta oggi – perché investe il cuore –, è però oggi anche un’altra rispetto a quella di ieri sotto il profilo del suo esprimersi e concretarsi storico: perché è chiamata a rispondere alla voce di Dio che ci richiama giusto giusto a quelle parole di Gesù che lo Spirito vuol mettere in luce e farci incarnare ora qui per tutti. In risposta alle sfide e alle piaghe del presente. Non ha promesso Gesù, nel vangelo di Giovanni: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà» (16,12-15)?
È quello che sperimentiamo oggi: lo Spirito Santo che “prende” da ciò che Gesù ha ricevuto dal Padre per “annunciarlo” ora qui: per noi e per tutti. Con le specifiche implicazioni del caso. Che non sono né poche né piccole. Del resto, col Vaticano II si è prodotta una situazione del tutto peculiare nella storia della Chiesa. Che è poi tutt’una – se un tantino approfondiamo e allarghiamo lo sguardo, com’è sempre necessario fare – con la storia dell’avvento sempre nuovo e drammatico e liberante del regno di Dio per l’intero della famiglia umana e della creazione. Si tratta della presa di coscienza, progressiva e combattuta, secondo cui lo stile (e cioè il contenuto e la forma insieme) della presenza della Chiesa al mondo e della sua missione ha appunto da essere da cima a fondo misurato sullo stile di Gesù.
Non si possono fare né sconti né compromessi. Lo esige il Vangelo. E oggi lo esige la maturità della coscienza umana. Che pure – e forse proprio per questo – è contraddetta da fenomeni che francamente credevamo archiviati. Ma le cose vanno sempre così: quanto più le esigenze della verità e della giustizia vengono a galla, tanto più cresce la resistenza a confrontarsi con esse, dicendo pane al pane e vino al vino. E tirandone le conseguenze. Lo scriveva papale papale, anni fa, Olivier Clément: come, nel nostro tempo, con l’affermarsi dello spirito critico e della libertà, ci si può affidare a un Dio che appare talvolta ai nostri contemporanei – da come viene presentato – peggiore di loro stessi, o almeno inferiore alle più elevate esigenze della loro coscienza, segretamente fecondata dal Vangelo?
Per questo, Paolo VI con spirito profetico ardiva paragonare il peso storico del concilio Vaticano II, in prospettiva, con quello del concilio di Nicea: quando si definì per i secoli il cuore della fede cristiana professando la divinità filiale dell’uomo Gesù di Nazareth, in lui riconoscendo il centro e la chiave di volta della storia: fede che ora, col Vaticano II, ha da farsi storia in tutte le espressioni dell’umano.
Altri, come Luigi Sartori, si son spinti ancora più in là per sottolineare la svolta rappresentata dall’ultimo concilio, mettendola in parallelo con quella sancita dal cosiddetto concilio degli apostoli o di Gerusalemme. Senza del quale la Chiesa, così come oggi la conosciamo, non sarebbe mai nata.
Cambiamento
d’epoca
Penso che entrambi abbiamo fatto centro. Ciò che lo Spirito di Dio ha voluto dire alla Chiesa e al mondo col Vaticano II ha una portata di questo calibro. Lo scopriamo poco alla volta, ma sempre più chiaramente. Papa Francesco lo ha richiamato nel suo intervento magistrale (ma quanto davvero recepito?) al Convengo della Chiesa in Italia a Firenze, nel novembre del 2015: non ci troviamo semplicemente in un’epoca di cambiamento, ma in un cambiamento d’epoca.
Mi son restate impresse nel cuore, in sintonia con questi pensieri, le parole che Romana Guarneri, con l’acuto senso della storia che la contraddistingueva, mi diceva con un filo di voce poco prima di morire: «Il cristianesimo ha ancora da fiorire». Penso si possa intendere quest’affermazione almeno nel senso che è venuto il tempo in cui, dalla radice della fede in Cristo, può e deve sbocciare un fiore inedito, capace di stupirci tutti ancora una volta con la sua rara bellezza. E di darci nuova vita. Non si stanca forse Francesco di sottolineare, a parole e coi fatti, che i segni distintivi della sequela di Cristo sono lo stupore, lo scandalo, la rivoluzione?
E in fondo, che cosa sono poi 2000 anni di storia? Non s’è finora espresso, il cristianesimo, in fin dei conti solo nelle categorie d’esistenza e di pensiero dell’Europa e dell’Occidente? Provvidenziali e preziose, senz’altro, ma tutt’altro che definitive e assolute. Tanto che si potrebbe paragonare la parabola dello sviluppo storico del cristianesimo a quella di un bambino che ha definito la sua identità nell’infanzia e ha cominciato a sperimentarla attraversando la crisi dall’adolescenza, per affacciarsi – ora – sul mondo inesplorato che si promette alla sua giovinezza in vista della maturità che deve conquistare.
Certi modi d’interpretare la forma d’esistenza della Chiesa e nella Chiesa, di presentare la morale personale e sociale, di esprimere la portata liberatrice e umanizzante della fede a livello sociale e politico, non corrispondono a stadi di sviluppo della coscienza cristiana che siamo chiamati a lasciarci alle spalle in ciò che hanno di culturalmente determinato e caduco, senza dimettere l’essenziale che hanno incarnato?
È per questo che la posta in gioco attorno a ciò che papa Francesco ha messo in moto nella Chiesa è grossa. Forse persino decisiva per la Chiesa, nella stagione del tutto inedita che l’attende. Il Vaticano II non è stato solo un punto d’arrivo, ma più un punto di nuova partenza. Niente è perso dello straordinario lascito della Tradizione, ma tutto – tutto – va rigiocato nell’ascolto disarmato del soffio dello Spirito oggi e nella cura tenera e ricca di misericordia della carne di coloro dei quali oggi ci è chiesto di farci prossimi. In loro – c’insegna Francesco – è la carne di Cristo quella che tocchiamo e ci trasforma.
Mai come oggi il cuore della Chiesa di Cristo torna collettivamente a vibrare, ricco della misericordia riversatavi dall’Abbà, nella cura di chi soffre, di chi è scartato, di chi cerca, di chi invoca, di chi migra in cerca di libertà, di giustizia, di luce, di ospitalità, di pace… l’esodo delle folle dei migranti è «il vero nodo politico globale dei nostri giorni», sottolinea papa Francesco. Quando, nel cuore della Chiesa, pulsa il cuore di Cristo, in esso trova casa il cuore dell’umanità.
Camminare
insieme
È impossibile – ed è evangelicamente improprio – decidere a priori le direzioni di marcia di questo esodo della Chiesa verso Cristo “fuori dell’accampamento”. Papa Francesco stesso ha dichiarato d’aver accolto da Dio la chiamata al ministero che gli è confidato senza prefiggersi un programma prestabilito. L’istanza della riforma – con le sue concrete vie di attuazione – non è sua, è esigita dal corpo della Chiesa che è il corpo vivo di Cristo. Ed è pilotata dallo Spirito Santo.
L’essenziale è non spegnere il soffio potente che c’investe e ci chiede conversione. Mettendosi risolutamente in cammino per «fare insieme – come ha detto Francesco nell’intervista a El País – ciò che chiede il Vangelo». Ciò che Dio si aspetta dalla Chiesa oggi – ha detto non a caso nel 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi – è racchiuso in una parola: sinodo. Camminare insieme. Donne e uomini. Giovani, adulti, anziani. Le diverse vocazioni e i diversi carismi nella Chiesa. Le diverse Chiese. Le diverse culture e religioni e visioni del mondo. Tutti tutti, nessuno escluso. A cominciare da chi in qualunque modo è scartato.
È uno stile di Chiesa, quello sinodale, che se ha da plasmare i cuori e le menti, deve anche necessariamente individuare i luoghi, gli strumenti, le forme della sua espressione. A tutti i livelli nella missione della Chiesa. Poiché quello sinodale non è tanto o solo un metodo: è l’essere stesso che definisce la Chiesa come popolo di Dio pellegrino nella storia in quanto traduce in atto e rende sperimentabile e incisiva la “mistica del noi” che è il suo stile più proprio di vita, quello che corrisponde al Dio che Gesù ha fatto presente al mondo – il Dio in essenza “sinodale”: il Dio-con-noi, la Trinità.
La “mistica del noi” è il profumo, la verità e la misura di giustizia di una Chiesa in uscita. E il lievito, in definitiva, di quel nuovo paradigma culturale che il cambiamento d’epoca, di cui siamo chiamati a essere non spettatori ma protagonisti, con urgenza postula e invoca. Pena il collasso o la disintegrazione dell’avventura umana.
L’eco, in ampi strati della popolazione mondiale e a tutte le latitudini, che il magistero delle parole e dei gesti di papa Francesco suscita – e persino le reazioni di rigetto che provoca, in una stagione di rigurgiti identitari e nazionalistici e di capitalismo rampante e sfacciato come quella che attraversiamo, sintomo evidente della vera posta in gioco – lo attesta a chiare lettere. La profezia della pace e del dialogo, dell’inclusione sociale e della lotta contro il moloch del potere e del denaro, dell’armonizzazione delle diversità e della custodia del creato dichiara l’ora segnata sul quadrante della storia.
A quattro anni dalla sua elezione lo diciamo con semplicità, convinzione e gratitudine: è un dono – e di quelli grossi – per tutti noi, non solo per i cattolici, papa Francesco. Perché ci scuote a diventare uomini e donne che come popolo di Dio eleggono a stella polare del cammino e a codice esigente e liberante di vita nient’altro che la bella, buona e gioiosa notizia del Vangelo. Per accenderne il fuoco – oggi come 2000 anni fa – nel cuore del mondo.
Piero Coda