Gellini Anna Maria
Verso la piena maturità di Cristo
2017/5, p. 10
Formare per la vita e perché la vita prenda forma secondo la misura della piena maturità di Cristo, chiede di ripensare percorsi a carattere trasformativo che durino tutta la vita e coinvolgano la totalità della persona, nel concreto dell’esistenza quotidiana e relazionale.

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Testimoni
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64° Assemblea dell’USMI
verso la pienamaturità di cristo
Formare per la vita e perché la vita prenda forma secondo la misura della piena maturità di Cristo, chiede di ripensare percorsi a carattere trasformativo che durino tutta la vita e coinvolgano la totalità della persona, nel concreto dell'esistenza quotidiana e relazionale.
“L’arte del passaggio: la formazione nella vita religiosa”: questo il tema della 64a Assemblea nazionale dell’USMI, svoltasi dal 19 al 21 aprile a Roma, presso il SGM Conference Center con una partecipazione di oltre 300 superiore maggiori, madri generali e provinciali.
Dopo l’introduzione della Presidente USMI, madre Regina Cesarato che invita ad accogliere l’augurio di pace del Risorto, e della moderatrice Patrizia Morgante della UISG Communication Office, fratel Luciano Manicardi, priore della comunità monastica di Bose, offre all’assemblea la prima relazione delle tre giornate, arricchite e confermate anche dalle parole dell’omelia del card. Braz de Aviz, prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, e di p. Aldegani, superiore generale dei Giuseppini del Murialdo.
Dall’individuo
alla persona
«Il fine della formazione è aiutare l’individuo a giungere a quel livello di libertà e di amore che lo rende persona» integrata e unificata: così Luciano Manicardi avvia la sua riflessione, puntando sul fatto che “formazione” è trasformazione della persona verso la piena maturità di Cristo. Attingendo ad esempi della letteratura monastica, era la vita stessa che formava il monaco, era la vita quotidiana dei fratelli della comunità che plasmava gradualmente la vita di chi chiedeva di farne parte. È fondamentale parlare di “comunità formativa” e interrogarci su «quale promessa di vita le nostre comunità esprimono e possono mantenere». Parlare di formazione alla vita religiosa pone prima di tutto a noi domande a cui non possiamo sfuggire. «Le nostre comunità formano o deformano, guariscono o producono sofferenza?» Guardiamo alla capacità relazionale delle nostre comunità. «Siamo un ´corpo´ capace di accogliersi nelle proprie povertà e di lasciare lo spazio perché ogni persona sia riconosciuta per quella che è? E la giovane che entra riuscirà a fare il passaggio dall’io al noi? Dall’essere al centro della comunità all’essere “accanto” alle altre?» Verifichiamo anche la qualità della comunicazione: «le nostre parole sanano o fanno ammalare?»
In armonia con la “comunità formativa”, c’è poi la persona della formatrice che Manicardi qualifica come «madre sufficientemente buona, non perfetta, ma che sa ascoltare, dare fiducia e responsabilità, sa equilibrare i “sì” e i “no”, apre gli orizzonti, fa emergere gli interessi, parla con franchezza della sessualità e dell’affettività», aiuta a nominare le proprie fragilità, a riconoscerle e ad accoglierle. Poiché alla radice di ogni vocazione c’è il desiderio di vivere la vita in pienezza, è importante far emergere il desiderio della persona e aiutarla a camminare nel senso del desiderio, perchè maturi la consapevolezza dei propri sentimenti ed emozioni: solo arrivando a conoscere se stessi si può giungere ad accettarsi e a «pagare il prezzo della vita» e delle scelte.
In sintesi, gli obiettivi per un itinerario formativo sono definiti su tre piste complementari: autoformazione, riflessività, incontro della persona con se stessa. Vale a dire che ogni persona è chiamata a «fare della pratica di vita il luogo permanente della propria crescita, indipendentemente dai modelli preconfezionati». Riflessività vuole dire essere capaci di leggere, interpretare, narrare la propria storia, leggere criticamente ciò che si vive per essere formatori di se stessi, per misurarsi con la realtà, per trovare nella Parola di Dio uno specchio che «mi riflette, mi fa vedere i limiti e me li riorienta e mi trasmette l’immagine trasformante di Cristo».
Verso la piena maturità
di Cristo
Marinella Perroni, docente di NT al Pontificio Ateneo S.Anselmo, affronta il tema della formazione partendo dalla presentazione delle linee teologiche, cristologiche ed ecclesiologiche della lettera ai cristiani di Efeso. «Il vivere cristiano comporta adesione a uno stile di vita che ha nel Cristo, l’uomo nuovo, il suo modello». A questo deve tendere la formazione per giungere alla pienezza della maturità di Cristo (Ef 4,13) non come fatto morale del singolo credente ma come rigenerazione della comunità nella diaconia e nella santità. Con nuove domande, l’assemblea è stimolata al confronto: «Quanto le nostre comunità hanno la consapevolezza di essere corpo di Cristo e quanto ci si spende per raggiungere comunitariamente la pienezza di Cristo?» Quanto il ruolo di guide aiuta a essere santi? Consapevoli che «santi significa responsabili della Chiesa nel quotidiano» e che la santità è anche inculturazione e come tale comporta la «rielaborazione della propria fede in relazione alle esigenze del tempo». Essere “cristiani-santi” vuol dire «saper esercitare la diaconia in modo responsabile, cioè in funzione dell’edificazione del corpo di Cristo e a questo devono mirare gli sforzi di coloro che edificano la comunità con la Parola». Su questo sfondo dobbiamo individuare il significato che ha l’esortazione paolina di arrivare tutti “all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo”.
Formazione
o probazione?
La seconda giornata incomincia con la relazione di Maria Campatelli, direttrice della Editrice Lipa e dell’Atelier di teologia Cardinal Špidlík. Partendo dalla domanda: «qual è il tipo di vita a cui bisogna formare?» e dall’affermazione che «non è tempo di ricette ma di ispirazioni», la Campatelli fa notare come la parola “formazione” abbia una storia recente. «La parola “forma” indicava originariamente l’immagine integrale completa di un essere giunto alla sua perfezione e alla sua maturità “secondo la propria specie”. Ma la “forma del cristiano” è una coscienza dell’io comunionale». La nostra “forma” è un modo di esistere, di essere in relazione che deriva da una partecipazione, da una circolazione di vita. La “forma” del cristiano è Cristo, è essere figlio. Nella teologia di questi ultimi secoli il concetto di formazione era diventato sinonimo di una sorta di educazione all’umano “perfetto” in vista di una società “perfetta”. La formazione quindi «ha cercato di esplicitarsi in un insieme di dati oggettivi e coerenti in sé dimenticando la precedenza alla relazione, e senza domandarsi se gli esseri umani vivevano sul registro della persona o dell’individuo», secondo «un cristianesimo costruito sull’uomo naturale, non sull’uomo redento». La differenza è se io realizzo un ideale, una verità esterna, in base alla quale lavorare su di me per corrispondervi, oppure se «sono animato da una vita che mi pervade, di cui ho esperienza e a cui semplicemente acconsento e che lascio scorrere dentro di me. L’inizio della vita cristiana è qui, in questo lasciar scorrere in me la vita nuova assunta nel battesimo». Possiamo dire che la formazione comincia dalla domanda: “di quale vita vivo?” «Sono consapevole che la mia possibilità di vita non dipende dalla mia bravura, ma dall’amore di Dio che è capace di risuscitare i morti, che mi chiede solo di svegliarmi dal torpore di una vita centrata su di me e di accorgermi di questo suo amore?». Le nostre dinamiche relazionali sono ancora troppo incentrate su di noi. Per questo motivo possiamo parlare in modo più appropriato di “probazione” e non di “formazione”. Infatti, si tratta di provare per vedere di che vita vivono le persone che ci sono affidate. La formazione è una probazione, è un discernimento, ma non bisogna inventare delle prove artificiali. È assai pericoloso mettere le persone «in luoghi artificiali, dove si consegna la persona all’istituzione e non a un processo di trasfigurazione». È il Padre che pota e pota nel concreto della vita quotidiana. «Si tratta allora di mettere le persone nelle reali situazioni di vita perché lì viene fuori la verità; è la vita che prova, la vita normale». Nel monachesimo antico si diventava monaci accanto ad una persona provata, che ti faceva entrare nella sua relazione con Cristo e diventava garante per i suoi figli. Proprio per questo la formazione «diventa generatrice di libertà. Dà la possibilità all'altro di tornare a casa in libertà, di trovarla, la casa, di sentirla, di far sì che diventi sua». Una volta provato di che vita si vive, c’è poi il tempo della custodia e dell’allargamento di questa vita a tutto ciò che siamo, che ci costituisce. È il cammino verso l’integrità: perché tale cammino si compia «è necessario assumersi la responsabilità di essere adulti e di vivere in un processo di conversione continuo», consapevoli che il percorso dall’immagine alla somiglianza è lungo, ma è la gioia di saperci incamminati verso “la piena maturità di Cristo”.
Itinerario liturgico
come cammino formativo
Anche la liturgia contribuisce a questo cammino così come conferma sr. Cristina Cruciani, liturgista delle Pie Discepole del Divin Maestro: davvero «la liturgia forma!». Il Concilio ha ridato in mano ai fedeli la Scrittura e ha rinnovato la Liturgia.
La vita nuova ci viene dal battesimo, ma è necessario che comprendiamo la Scrittura, che continuamente la meditiamo. E i sacramenti sono realtà concreta e trasformante. La cresima conferma che siamo figli, ma ci dà un supplemento di Spirito Santo per agire come figli.
L’eucaristia ci abilita a fare della nostra vita un dono, come ha fatto Gesù. Il sacramento della penitenza ci aiuta a diventare vere perché Gesù è la verità.
Evangelizzare è un atto di culto e come madri, partecipiamo alla maternità della Chiesa. L’anno liturgico in se stesso è formativo. I tempi forti e il tempo ordinario ci insegnano ad andare dietro al Maestro e da Lui impariamo a vivere ogni evento come evento di salvezza. Possiamo considerare il lezionario come il “vaso di manna” di ogni giorno, ma non dimentichiamo che è necessario anche fare la lettura continuata della Bibbia. «Il Signore ci ha scritto una lettera e non possiamo presentarci a lui nell’ultimo giorno senza averla letta!»
Longevità di massa
e formazione
Avventurandosi nel complesso campo della suddivisione delle fasce d’età con la ridefinizione socio-cronologica delle categorie di ‘giovane’, ‘adulto’, ‘anziano’, don Armando Matteo, docente di Teologia fondamentale alla Pontificia Università Urbaniana, apre la terza giornata dell’assemblea. È in atto una vera «rivoluzione della longevità di massa» che influisce in modo determinante sulle «esigenze della formazione». La longevità non è solo un elemento di tipo quantitativo. L’allungamento della vita produce un mutamento qualitativo sul senso della vita umana; «si ritiene infatti di avere a disposizione più vite, più esistenze, più possibilità, più occasioni, in cui ricominciare sempre daccapo e grazie alle quali potersi sentire sempre giovani e disponibili a nuovi cambiamenti e progetti». Giovani si è fino a 35 anni, poi si dovrebbe diventare “adulti” ma – qui in effetti è il problema, sostiene don Matteo – chi ha più di 35 anni non vuol saperne di diventare adulto perché si tratta di essere capaci di dimenticarsi di sé per donarsi agli altri! Chi non è adulto non è in condizione di far diventare altri adulti. E la crisi dell’adultità è anche crisi della cultura vocazionale.
Il mito del giovanilismo ridefinisce il rapporto con gli adulti, con l’esperienza della vecchiaia, della malattia, della morte e con le nuove generazioni. Gli adulti di oggi non fanno crescere i figli e la mancata crescita di questi ultimi li protegge dalla presa di coscienza del loro diventare vecchi.
Venendo al discorso delle esigenze della formazione con i giovani di oggi, don Matteo mette l’accento sulla necessità che i formatori devono essere “adulti” per aiutare i formandi a crescere nel vero senso della parola e perché la «vocazione sia testimonianza ultima di adultità».
«Essere sorelle di questa umanità vuol dire essere sorelle di adulti che non vogliono crescere e di figli che faticano a crescere» e di conseguenza «predisporre al lavoro pastorale significa tener conto dei dinamismi inceppati nel processo dell’adultità».
Media digitali
e aspetti formativi
Mons. Dario Viganò, prefetto della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede, conclude l’assemblea con una lettura delle dinamiche e degli strumenti della comunicazione nel mondo di oggi. «Dobbiamo assumere prospettive nuove perché media e società sono ormai un unicum, e capire come la società multimediale possa ancora esprimersi in piena umanità». Le strade della rete servono anche per evangelizzare, ma richiedono inedite tecniche narrative. «Sta alla persona scegliere l’uso dei media, accostandosi al complesso mondo digitale con consapevolezza e prudenza, sganciando le competenze dalla tecnologia, per continuare ad alimentare l’arte del dono, il gusto della libertà e l’intelligenza della saggezza». Formare vuol dire «porsi domande serie sulla propria vita». Quindi «perché uso la rete, perché c’è voglia compulsiva di connessione…?» La logica dell’incarnazione ci chiede «attenzione al contesto storico-culturale e quindi anche al tessuto mediale» ma anche capacità di discernimento per riconoscere e governare i rischi che la cultura digitale può creare: isolamento, diminuzione di umanità, superficialità, «orfanezza spirituale, per cui nessuno ci appartiene e noi non apparteniamo a nessuno». Nella formazione dei giovani di oggi occorre prima di tutto sapere a chi ci rivolgiamo: i nativi digitali hanno un altro modo di ragionare, dialogare, pensare, ma ciò che è comune a noi e a loro è la vita spirituale e «le relazioni vanno educate secondo il tessuto nuovo» attingendo pur sempre alla novità dello Spirito. È necessario custodire e curare le relazioni, perché «non nella rete ma nell’incontro personale troviamo la forza testimoniale» e siamo chiamati a far trasparire che siamo abitati da Dio, per un processo dinamico e creativo «fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo».
Anna Maria Gellini