"Cattivi maestri"
2017/4, p. 46
L’humus culturale delle mafie
va oltre la loro dimensione militare
e di business e arriva fino alla cultura,
ai modi di fare, alle scelte di vita.
Ragazzi che non concludono le
scuole dell’obbligo, alla scuola della
mafia vengono educati e imparano
benissimo. Giovani che frequentano
il liceo e le operazioni di sequestro,
«imparano a due scuole: la prima - il
liceo - serve per apprendere saperi
tecnici e funzionali, mentre la seconda
- fatta di sequestri, omicidi, traffici
di droga, carceri e altro - fornisce i
saperi basilari della vita».
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NOVITà LIBRARIA
"Cattivi maestri"
Giacomo Panizza, prete bresciano, vive in Calabria da oltre trent’anni. A Lamezia Terme ha fondato nel 1976 la comunità «Progetto Sud», con l’intento di sfidare e capovolgere un certo tipo di mala-educazione, sfida educativa alla pedagogia mafiosa. L'humus culturale delle mafie va oltre la loro dimensione militare e di business e arriva fino alla cultura, ai modi di fare, alle scelte di vita. Ragazzi che non concludono le scuole dell'obbligo, alla scuola della mafia vengono educati e imparano benissimo. Giovani che frequentano il liceo e le operazioni di sequestro, «imparano a due scuole: la prima - il liceo - serve per apprendere saperi tecnici e funzionali, mentre la seconda - fatta di sequestri, omicidi, traffici di droga, carceri e altro - fornisce i saperi basilari della vita». Alcuni giovani cercano i boss per bisogno di una paghetta perché disperati, altri perché infatuati da ruoli e personaggi seguiti nei programmi televisivi, altri ancora perché succubi del mito del denaro facile, dell'uso delle armi e delle grosse moto o automobili quando mettono a segno i loro tipici colpi criminali. Molti adolescenti e giovani non sanno a cosa vanno incontro entrando sotto giuramento in un clan.
Maestri di vita
e di pensiero
Davanti a realtà così, stanno i «cattivi maestri»: maestri e maestre di vita e di pensiero, ancorati alla terra e allo spirito. Insegnanti, educatori innamorati dei «piccoli», che li iniziano a grandi aspirazioni. I «cattivi maestri» si espongono al rischio di disapprovazione da parte di coloro che si spacciano da cristiani contraddicendo i vangeli e la dottrina sociale della Chiesa. «Cattivo maestro» fu definito anche Oscar Romero, il vescovo di San Salvador, ucciso da un cecchino in chiesa durante la Messa a causa dei suoi insegnamenti sulla pace, la libertà e la disobbedienza civile contro il potere politico nazionale dispotico. «Cattivi maestri» sono stati don Pino Puglisi, don Peppe Diana, i giudici Falcone e Borsellino. In terre di mafia c’è bisogno di simili maestri che riconoscano le persone nella loro dimensione integrale, le educhino a crescere in umanità, indaghino insieme i pensieri, i sentimenti e le parole mettendo sotto processo le cornici mentali e le tradizioni, i costumi, i rapporti sociali ed economici.
Ai giovani di famiglia «regolare» che vanno in cerca di chi li «battezzi» nel clan, bisogna impartire l'istruzione che sono i mafiosi che li vagliano in base alle loro incapacità a ribellarsi ai capi e per le loro predisposizioni a farsi comandare da un'autorità forte. Occorre insegnare loro che li preferiscono perché sfruttabili, perché senza pensieri e parole, senza sentimenti profondi perché così non sanno il male che fanno e non hanno il potere di rivoltarsi contro colui che diventerà il loro mandante di azioni criminali anche innominabili. Li includono nel clan perché sono certi che essi sono incapaci di sostituirli al comando. I veri maestri sanno che la «parte viva», innocente, pulita dell’animo umano a volte si riaccende, irrompe nelle coscienze dei giovani, incoraggiandoli a smettere di abbruttirsi e a desiderare di cambiare vita.
Imparare e
insegnare il perdono
La pratica atavica della reazione alle offese, che trascina con sé sentimenti di vendetta, sia a causa di banali motivi fino ai macroscopici interessi di mafia, richiede educazione alla legalità e anzitutto a divenire tutti sempre più umani. È saggio imparare e insegnare il perdono, intenerire i cuori di tenebra inclinati a distruggere, altrimenti la nostra personalità si trasforma in una prigione senz'aria. È umano lasciarsi accarezzare da pensieri di perdono, affrancarsi dalle assillanti trame di vendetta del nemico da eliminare «perché ha cominciato lui, perché hanno cominciato loro!» e noi di riflesso corrispondiamo facendo le stesse cose, divenendo di riflesso «come» gli aguzzini, trasformandoci in «nemici complementari», in complici dell’illegalità.
Denunciare, sperare
agire
La parte più bella del progetto di liberazione da quelli che sono realmente cattivi maestri, è quella che riguarda «l'inaspettata capacità d'azione» che sonnecchia nella società come un fuoco coperto dalla cenere, è la scoperta delle energie possibili che possono scaturire dal lavoro con gli emarginati, ma anche insieme alle persone comuni e in situazioni comuni. Tante sono ancora le persone di buona volontà, siano esse colte o incolte, abili o disabili, tanti sono gli assetati di giustizia che si contrappongono anche ai loro vicini, contro un potere economico e politico che ha alla base un potere culturale. È sulla fiducia in queste energie, nascoste o evidenti ma che non sanno uscire ancora dall'isolamento e a volte da un certo egoismo e da una certa angustia di gruppo o corporativa, che bisogna scommettere. Don Giacomo Panizza ha saputo farlo, rischiando, ma con risultati evidenti. Non si tratta solo di denunciare e non si tratta solo di sperare, si tratta anche di agire per rafforzare l’educazione alla legalità e per non rimanere latitanti su gravi questioni di giustizia sociale.
Anna Maria Gellini