Faro di fedeltà e di fede
2017/4, p. 33
Pastore e maestro spirituale, saldo nella fede,
misericordioso e clemente, difensore mite della verità e
della giustizia, fu esempio luminoso di amore appassionato
per Dio, per la Chiesa e per il suo popolo fino alla morte
avvenuta in prigionia.
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Testimoni
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Card. Hossu martire del XX secolo in Romania
faro di fedeltà
e di fede
Pastore e maestro spirituale, saldo nella fede, misericordioso e clemente, difensore mite della verità e della giustizia, fu esempio luminoso di amore appassionato per Dio, per la Chiesa e per il suo popolo fino alla morte avvenuta in prigionia.
Il testamento spirituale, la confessione di fede durante 22 anni di prigionia e un luminoso profilo del card. Iuliu Hossu (è in corso la causa di beatificazione), emergono come preziosa eredità dal libro “La nostra fede è la nostra vita”, versione italiana desiderata e incoraggiata da mons. Florentin Crihălmeanu, suo attuale successore nella diocesi di Cluj-Gherla. In Romania il testo fu pubblicato nel 2003, 150° anniversario della fondazione dell'eparchia di Cluj-Gherla. Con linguaggio semplice, immediato, colloquiale, e con estremo realismo, mons. Hossu parla dei suoi anni di prigionia rivelando le condizioni drammatiche di vita, specialmente nel carcere di sterminio di Sighet, dove la solitudine non lo portò alla disperazione, ma ne ravvivò la fede e con la fede la speranza, senza mai nessuna espressione di odio verso i persecutori. Nel 1961 Iuliu Hossu riuscì a scrivere queste memorie, dopo che il fratello Traian gli aveva fatto pervenire tre quaderni e alcune boccette di inchiostro; la penna stilografica non gli era stata sequestrata.
“Nel primo quaderno, il cardinale riferisce del tempo compreso tra il 1947 e il 29 ottobre 1948, data dell'arresto suo e dell'intero episcopato greco-cattolico; poi la permanenza nella villa patriarcale di Dragoslavele trasformata in lager. Segue poi il racconto della permanenza nel monastero ortodosso di Căldăruani. Qui furono «ospitati» tutti i vescovi greco-cattolici e 25 sacerdoti tra i più eminenti di tutte le eparchie, in condizioni estremamente precarie, in una struttura ormai abbandonata e fatiscente.
Il secondo quaderno, dal 25 maggio 1950 al 4 gennaio 1955, è dedicato al periodo trascorso da tutto il gruppo nella prigione di sterminio di Sighet.
Nel terzo quaderno è racchiusa la prima parte dei suoi anni di «domicilio obbligatorio» in diversi monasteri, fino al 29 novembre 1961, quando il cardinale affidò i tre quaderni a suo fratello Traian perché li custodisse in un rifugio sicuro, e potessero a suo tempo venire alla luce. L'esilio a Căldăruani continuò anche dopo, fino alla morte che avvenne il 28 maggio 1970.
Dall’alta Transilvania
fino al martirio
Iuliu Hossu nacque in un villaggio dell’alta Transilvania il 31 gennaio 1885. Ordinato sacerdote nel 1910 e dottore in teologia e filosofia a Roma presso il collegio De propaganda Fide, allo scoppio della Prima guerra mondiale fu cappellano militare; nel 1917 fu nominato vescovo dell’eparchia greco-cattolica di Gherla in Transilvania. Il 1° dicembre 1918 spettò a lui proclamare la Dichiarazione di Unità della Romania, con la quale si sanciva la separazione della Transilvania dall’impero austro-ungarico e l’unificazione con la Moldavia e la Valacchia nel nascente stato romeno. Hossu era stato senatore di diritto, aveva partecipato alle discussioni in Senato sulla legge dell’istruzione, la Costituzione, la legge dei culti, il Concordato con la Santa Sede. Nel 1930 l’eparchia di Gherla mutò la sua denominazione in Cluj-Gherla, spostando il suo centro nella città di Cluj Napoca. Negli anni 1940-44 la regione venne sottoposta all’occupazione ungherese e, di conseguenza, al regime filonazista del maresciallo Horthy. In questo periodo Hossu, già vescovo della diocesi di Cluj-Gherla, divenne punto di riferimento spirituale per i romeni di Transilvania senza alcuna differenza confessionale, levando alta la voce per difendere i civili dai soprusi degli occupanti e adoperandosi personalmente per dare rifugio e scampo a numerosi ebrei. Con l’occupazione sovietica della Romania, nell’agosto del ’44, cominciarono le persecuzioni contro la Chiesa cattolica di rito orientale giudicata anticomunista e antinazionale in quanto “emissaria diretta del Vaticano”. Nel 1948 su 1700 preti, 700 furono imprigionati. Il 28 ottobre 1948 anche Hossu, con altri vescovi greco-cattolici, fu arrestato e portato a Dragoslavele. Più tardi fu trasferito al monastero ortodosso Căldărusani e nel 1950 nel carcere di sterminio di Sighetul Marmaţiei, dopo che il Patriarcato ortodosso si era dichiarato “impossibilitato a proteggere” lui e gli altri vescovi rimasti insensibili alle pressioni di passaggio all’ortodossia. Spogliato dei paramenti, rinchiuso in una cella senza riscaldamento, legato con ferri ai polsi e ai piedi e sottoposto ad un regime alimentare che puntava esplicitamente allo sterminio per agonia, Hossu rifiutò ancora le opportunità prospettate dai suoi aguzzini di sottrarsi alla croce perché «al prezzo della fede no, non è possibile. Credința noastră este viața noastră - ´la nostra fede è la nostra vita´». Numerosi furono gli inviti alla defezione per poter riacquistare la libertà, ma Hossu non accettò mai, ripetendo il suo motto. Anche quando nel 1969 l’inviato papale lo informò che il governo romeno era disposto ad accettare la sua nomina a cardinale, a patto ch’egli lasciasse per sempre la Romania, il vescovo rifiutò di abbandonare i suoi fedeli per condividere il destino del suo popolo.
Paolo VI rese pubblica la nomina nel 1973, tre anni dopo la morte e definì il card. Iuliu Hossu “simbolo e faro di fedeltà, modello di fede”.
Tutto posso in Colui
che mi dà la forza
Durante la prigionia, l’anima di mons. Hossu è stata una cittadella inespugnabile, fortificata dalla presenza del suo Signore. La preghiera era di sostegno in tutti i giorni e nel lavoro, da essa attingeva la forza per quella vita. Se il corpo si andava sempre più indebolendo, il Signore fortificava ed elevava lo spirito. In prigionia non esistevano né domeniche né tanto meno feste. «Durante le ore in cui si celebravano le sante liturgie, volavo in spirito di chiesa in chiesa e mi univo spiritualmente ai sacrifici che si compivano sul santo altare e chiedevo con insistenza, insieme ai cari fratelli e ai fedeli tutti, la misericordia e l'aiuto del Signore nella lotta che conducevo assieme a loro contro il maligno. Fin dai primi giorni e sempre, fonte di grande consolazione è stato il quotidiano peregrinare interiore attraverso le parrocchie della mia eparchia, lungo strade tante volte percorse in lungo e in largo durante le visite canoniche; rivivevo gli anni trascorsi, la gioia sperimentata tra i fedeli. Recitando il Rosario, ripercorrevo in preghiera tutta l'eparchia; il giorno riprendevo l'amato giro, iniziando dalla cattedrale di Cluj. Questa è stata la consolazione del mio animo, fresca oggi come allora, quando per la prima volta avevo abbracciato tutti con tanto affetto, dai bambini ai vecchi di ogni villaggio».
Nell’agosto 1961, mons. Hossu così scriveva, mentre si trovava forzatamente rinchiuso: «Il tuo amore, Signore, non sono riusciti a togliermelo via; esso mi basta». E ancora riscrive l’esperienza spirituale delle sue visite canoniche: «Da tredici anni mi reco spiritualmente di villaggio in villaggio, di rettoria in rettoria, sulle strade e i sentieri che sono rimasti cari e nitidi nel mio animo. Iniziando dalla cattedrale, attraversando, paese per paese così come dirò, l’intera eparchia, per tornare nuovamente alla mia cara cattedrale, in cui vi detti di persona, nell’autunno 1948, l’ultimo abbraccio d’amore. E poi ancora e ancora, anno dopo anno fino ad ora, percorrendo tutta l’eparchia, entrando nei vostri villaggi cari al mio cuore, nelle vostre chiese, lasciando la benedizione del Signore per i vivi e per i morti, e poi accorrendo spiritualmente nel villaggio vicino; e così fino a terminare la visita di tutta la diocesi, rivivendo con gioia i giorni in cui, libero, ho vissuto con voi. Questo amore vi lascio, nel nome del Signore: il suo amore, tesoro prezioso del suo Cuore santissimo insieme all’amore della Madre immacolata sua e nostra».
Quelle sue visite canoniche sono state un nutrimento spirituale che lo hanno protetto dalla tentazione dell’odio e della vendetta. La sua intera vita è diventata così una preghiera e una liturgia. Tanto più il corpo era legato, tanto più l’anima era libera senza limiti di tempo e di spazio. Quella sua intensità di amore è stata la sua salvezza. Anche se purtroppo l’esperienza della prigionia, specialmente a Sighet, divenne per altri (erano là circa 168 detenuti, di cui 36 tra vescovi e sacerdoti) una tortura pesantissima, che «portò a perdere la ragione e, nella disperazione, a cercare il suicidio».
Segni di amore
in mezzo alla tribolazione
Nel periodo di prigionia a Căldăruşani, mons. Hossu racconta che ogni giorno ricevevano undici pezzi di legna per la stufa, pretendendo che durassero per ventiquattro ore. Era motivo di grande gioia quando un soldato comprensivo passava loro della legna riservata al corpo di guardia: mentre i prigionieri passeggiavano, lui fingeva di perderne un pezzo che loro si affrettavano a raccogliere: un vero tesoro! Tutto era vissuto come accompagnato dalle consolazioni spirituali con cui il Signore rivestiva ogni avvenimento. «Tutto quello che vivevamo e come lo vivevamo rivestiva di luce le nostre catene, il filo spinato della recinzione che imprigionava uomini solo perché credevano in Dio».
La prima Pasqua a Căldăruşani fu festeggiata in modo luminoso e con grande consolazione spirituale. A ogni prigioniero fu dato mezzo tuorlo d'uovo, e quella piccola cosa fu una consolazione che emozionò e aiutò a pensare a quanti, in tutto il mondo, mancano di ogni cosa e in particolare di consolazione, perché «sempre più nel mondo manca l'amore».
Nel primo Natale, si udiva in cella qualche “colinda” (canti natalizi), poi sempre più raramente per il terrore del controllo. Era di turno una guardia molto umana, padre di diversi bambini; chiese a mons. Hossu e agli altri vescovi che cantassero anche a lui delle “colinde”, promettendo un supplemento di cibo se lo avessero esaudito; commosse profondamente la bontà che sgorgava dal profondo del suo cuore. I confratelli lo accontentarono, non per il supplemento promesso ma per il suo animo buono, desideroso di consolazione; in tutto il suo comportamento trasparivano l'amore e la pietà cristiana. C'era anche un altro animo buono: un uomo piccolo di statura, di confessione ortodossa, che i fratelli chiamarono appunto «Piccolo», ma con un grande cuore, profondamente umano.
A Sighet, oltre la fame, il freddo, i maltrattamenti di ogni tipo, le passeggiate di 10 minuti una o due volte alla settimana, andavano fatte con le «mani dietro la schiena e a testa bassa». I soldati armati vigilavano dalle torrette perché nessuno guardasse in su, verso le finestre, perché non si incontrasse lo sguardo dei fratelli di sofferenza, che cercavano di vedere «chi fosse ancora tra noi». C’era l’ordine di sparare o di punire con la «nera»: era una cella senza finestre totalmente vuota, dove il condannato era tenuto in piedi per ore, rivestito solo di una camicia, senza nemmeno potersi appoggiare alle pareti. Una volta vi fu condannato mons. Rusu senza alcuna colpa, solo perché voleva guardare le stelle. Anche in questi casi, tuttavia, qualche soldato dimostrava un po’ di umanità, evitando controlli così spietati e insensati.
“Non temete
Io sono con voi”
Il 25 maggio 1950, nel carcere di Sighet, per i carcerieri, spogliati «dell’umanità e della razionalità», erano arrivati i «bufali» che dichiaratamente per loro non erano più vescovi, né sacerdoti, né cristiani, né romeni, ma schiavi dei comunisti senza Dio e senza patria. «Queste parole di accoglienza ci avevano mostrato cosa ci saremmo dovuti attendere nelle loro mani, sotto di loro», a parte la prima accoglienza con una tazza di thè caldo dove galleggiavano dei vermi. «Ma nel nostro animo il Signore Gesù diceva con chiarezza divina: «Non temete, io sono con voi» (Mt 28,20). Così l'avevo sempre percepito in questa nostra strada per Emmaus e così lo sentivo adesso, all'inizio della detenzione nel penitenziario distrettuale di Sighetul Marmaţiei, quando sentivamo che il giorno volgeva davvero al declino (cf. Lc 24,29). Qui il maligno ha creduto di seppellirci vivi, ma il Signore ha reso felici noi tutti, restando sempre con noi. Ho sentito che teneva stretta la mia mano e che pronunciava quella bellissima frase: «Non temere, soltanto abbi fede!» (Mc 5,36). Così, seguendo la nostra sorte, ho sempre cercato, giorno dopo giorno, di tenermi stretto a quella mano e ho sperimentato la pace che nessuno può dare, se non Dio solo, il Signore nostro Gesù Cristo. Lungo quella strada abbiamo incontrato il maligno, abbiamo visto la morte con i nostri occhi, e non l'abbiamo temuta. Non la nostra debolezza e impotenza, ma Dio ha compiuto questo in noi». Mons. Hossu non si stancava di riconoscere nella prova e nella sofferenza l’amore del Signore e pregava: «Resta con noi Signore, anche su questa nuova strada: il giorno sempre tramonta e ricomincia in te».
Nella grande ora della tribolazione per la Chiesa, in un Paese asservito, in mezzo al popolo reso schiavo, flagellato dalle potenze scatenate delle tenebre, l'episcopato della Chiesa romena ha percorso questa via illuminata dal Signore, con passi rafforzati dalla sua grazia, sulla via della sua Croce, rendendogli gloria sino alla fine, vivendo il martirio «prima di tutto come un’esperienza spirituale che nasce da un cuore che ama il Signore come verità suprema e massimo bene, a cui non si può rinunciare». (Giovanni Paolo II)
Una grande
e preziosa eredità
A conclusione del suo terzo quaderno di memorie, mons. Hossu lasciò al suo successore una grande e preziosa eredità: «Ricevi questo pegno del mio amore, per l'amata eparchia di Cluj-Gherla, che ho amato e, con l'aiuto del Signore, conserverò nell'amore del mio cuore fino all'ultima ora della mia vita: lo lascio in eredità ai cari fratelli sacerdoti e agli amatissimi figli fedeli, che ho abbracciato con l'amore del mio cuore nel tempo in cui mi sono trovato in mezzo a loro e poi, spiritualmente, per tutti questi anni. Lascio l'eredità del mio amore ai loro successori, clero e popolo, affinché sia per loro consolazione ed esortazione alla crescita, attraverso tutto quello che il Signore ha operato, nella sua misericordia, tramite i suoi servi indegni, fino alla morte.
Che la semente gettata nel solco profondo possa dare frutto per la glorificazione di Dio, il Padre buonissimo, e per la fioritura della Chiesa rinata dalle pene della grande tribolazione».
Anna Maria Gellini