Martiri ieri e oggi
2017/3, p. 15
Nel martirio di oggi oltre all’aspetto cristologico ed
eucaristico, c’è anche un lato escatologico e apocalittico,
perché il martire anticipa la fine per il suo tempo ed è
capace con il suo sacrificio di essere giudizio non solo per
il mondo ma anche per i cristiani e la chiesa pellegrinante.
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Testimoni
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Rilettura attuale del martirio
MARTIRI
IERI E OGGI
Nel martirio di oggi oltre all’aspetto cristologico ed eucaristico, c’è anche un lato escatologico e apocalittico, perché il martire anticipa la fine per il suo tempo ed è capace con il suo sacrificio di essere giudizio non solo per il mondo ma anche per i cristiani e la chiesa pellegrinante.
23 maggio 2015: appuntamento straordinario per il piccolo El Salvador, legato alla tanto attesa beatificazione di monsignor Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo della capitale San Salvador, brutalmente assassinato nel lontano 1980. Monsignor Romero, aveva scritto papa Francesco nella lettera inviata per l’occasione all’arcivescovo di San Salvador, monsignor José Luis Escobar Alas, «ci invita al buon senso e alla riflessione, al rispetto per la vita e alla concordia», a rinunciare alla violenza e all’odio; lui che, «con cuore di padre, si è preoccupato delle maggioranze povere, chiedendo ai potenti di trasformare le armi in falci per il lavoro». Tutti, era l’esortazione del pontefice, «trovino in lui la forza e il coraggio per costruire il Regno di Dio e impegnarsi per un ordine sociale più equo e degno. È il momento favorevole per una vera e propria riconciliazione nazionale dinanzi alle sfide che si affrontano oggi».
Oltre trecentomila gli intervenuti, fra i quali un gran numero di vescovi e capi di stato latinoamericani, nella plaza de las Americas, in cui campeggia l’originale statua del Salvador del Mundo, simbolo nazionale al di là di ogni appartenenza. Un intero Paese è in festa, in realtà, come liberato da una storia dolorosa, nel nome di colui che molti, da quelle parti e da anni, chiamano già San Romero de América. Francesco, primo papa latino-americano della cattolicità, aveva infatti deciso di beatificare il vescovo-martire, superando i timori di alcuni importanti settori ecclesiastici per i quali egli era un`icona della teologia della liberazione o della lotta politica, mentre la sua figura veniva ampiamente, e strumentalmente, manipolata. Eppure, dopo l`assassinio, lo stesso Giovanni Paolo II si era inchinato su quel sangue versato: e nel 1993, in visita al Paese centramericano, nonostante l`opposizione di vescovi e governo, scelse di recarsi sulla tomba di Romero. Del quale monsignor Rivera Damas, suo successore e unico vescovo salvadoregno ad appoggiarlo apertamente, sosteneva: «Non sono d`accordo con coloro che presentano Romero come un uomo in talare passato alla rivoluzione, anche se faccio mia l`affermazione che egli incarnò pienamente, in quella realtà ingiusta di El Salvador, l`opzione preferenziale per il povero, che la Chiesa del Concilio ci chiede».
Romero cadde martire, crivellato da proiettili a frammentazione mentre celebrava l’eucaristia, il 24 marzo 1980. Nella sua azione pastorale, in un contesto estremamente violento, ogni domenica, denunciava violenza e repressione in una nazione da lui stesso giudicata esplosiva. La celebrazione annuale di una Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri, da alcuni anni fissata per il 24 marzo, prende appunto ispirazione da quell’evento, per fare memoria di quanti lungo i secoli hanno dato la propria vita proclamando il primato di Cristo e annunciando il vangelo fino alle estreme conseguenze.
I martiri: una storia
che viene da lontano
Evidentemente, la vicenda ecclesiale dei martiri viene da lontano. Già nei primi secoli i cristiani decisero di raccogliere i nomi dei martiri locali, nella consapevolezza che, come intuì Tertulliano, teologo africano del secondo secolo, “il sangue dei martiri è il seme dei cristiani”. La forma originaria del martirio, nota grazie agli Acta martyrum, forma ispirata dalla narrazione su Stefano negli Atti degli apostoli e poi da Policarpo di Smirne, Ignazio di Antiochia e i martiri vittime dell’impero romano, rende evidente che il cristiano muore per il suo Signore, condividendone la passione di fronte al potere politico e alla polis pagana, fornendo una professione di fede pubblica e, in genere, restando saldo durante l’esecuzione capitale.
Nel quarto secolo a Nicomedia, e pochi decenni più tardi nella regione di Aquileia, si avverte poi il bisogno di rafforzare il senso della comunione universale fra le chiese, congiungendo diverse liste di martiri locali, fino a produrre una raccolta globale dei testimoni: è il celebre Martirologio geronimiano. Nel tempo delle divisioni infracristiane, i martirologi inizieranno a subire un’evoluzione contraria, rispetto a quella che aveva caratterizzato oltre mille anni di storia, stabilendo di aggiungere soltanto i nomi dei martiri appartenenti alla propria chiesa.
Un’inversione di tendenza si avrà – significativamente – parecchi secoli dopo, con la diffusione sempre più convinta del movimento ecumenico, quando la contraddizione al dettato evangelico rappresentata dalle divisioni tra cristiani apparirà chiara, finalmente, agli occhi di tanti credenti. Sino a far osservare a Giovanni Paolo II, in un passaggio della lettera apostolica Tertio millennio adveniente (1994): «La Chiesa è diventata nuovamente Chiesa di martiri... La testimonianza resa a Cristo sino allo spargimento del sangue è divenuta patrimonio comune di cattolici, ortodossi, anglicani e protestanti... L’ecumenismo dei santi, dei martiri, è forse il più convincente» (n. 37).
Anche la sua successiva enciclica Ut unum sint rilancia il tema, in maniera decisa: «In una visione teocentrica, noi cristiani abbiamo già un martirologio comune... Sebbene in modo invisibile, la comunione non ancora piena della nostra comunità è in verità cementata saldamente nella piena comunione dei santi. Questi santi vengono da tutte le Chiese».
Sulla stessa linea si è posto papa Bergoglio, spiegando in una densa intervista dedicata a numerosi argomenti ad Andrea Tornielli su La Stampa, già a fine 2013, cosa si debba intendere per ecumenismo del sangue: «In alcuni paesi ammazzano i cristiani perché portano una croce o hanno una Bibbia, e prima di ammazzarli non gli domandano se sono anglicani, luterani, cattolici o ortodossi. Il sangue è mischiato. Per coloro che uccidono, siamo cristiani. Uniti nel sangue, anche se tra noi non riusciamo ancora a fare i passi necessari verso l’unità e forse non è ancora arrivato il tempo». Del resto, impossibile dimenticare i martiri cattolici del Giappone, quelli anglicani del Madagascar, quelli cattolici e anglicani dell’Uganda, l’arcivescovo ortodosso Vladimir e la monaca ortodossa mat’ Marija, i protestanti Dietrich Bonhoeffer, pastore luterano, e Paul Schneider, la carmelitana Edith Stein, il vescovo cattolico Romero, quello anglicano Janani Luwum, i sette monaci trappisti in Algeria e le migliaia di martiri ortodossi e uniati dei regimi comunisti. Mentre, in un’intervista di un anno fa al SIR il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, si esprimeva nei seguenti termini, riecheggiando l’antica massima di Tertulliano: «Il sangue dei martiri cristiani è un grande dono per la Chiesa. Siamo grati della testimonianza che danno della fede a costo della loro stessa vita. Siamo grati per la loro fedeltà».
Una rilettura radicale
del martirio
Certo, il martirio nel corso del secolo breve non ha avuto un carattere esclusivamente religioso, ma si è collocato sullo stesso piano su cui si colloca la fede cristiana: nella storia e nella prassi evangelica. Inoltre, negli ultimi decenni il martirio è diventato di frequente un fatto anonimo, un avvenimento che tocca non soltanto testimoni eloquenti, ma anche semplici cristiani feriali, “oscuri testimoni della speranza”, come frère Christian de Chergé, il priore dei sette monaci trappisti uccisi nel 1996 in Algeria a Tibhirine, aveva definito quanti li avevano preceduti nel dare la vita fino a morire per quel popolo. Eppure, a volte, la notorietà anche postuma di una vittima rappresenta un’occasione per fare memoria di tutta la schiera dei martiri anonimi: “Vorrei che la mia chiesa sapesse associare questa mia morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato” (dal Testamento di frère Christian).
Per molti motivi, poi, in parallelo alla crescita della sensibilità per una Chiesa mondiale, nella seconda metà del Novecento si verificherà un’autentica rilettura radicale del martirio nella teologia occidentale, in particolare da parte di Karl Rahner alla fine degli anni Cinquanta, di Hans Urs von Balthasar una decina d’anni dopo (nel suo famoso Cordula, ovvero il caso serio, definiva appunto il martirio come “il caso serio” della fede cristiana), del teologo evangelico Jürgen Moltmann e di Leonardo Boff nel decennio successivo: fino a far emergere la figura del martire come uomo per gli altri, e come testimone di Cristo in mezzo ai suoi fratelli (è la scritta che compare sulla lapide della tomba di Bonhoeffer).
Inoltre, come ha rilevato a più riprese il monaco di Bose Enzo Bianchi, è doveroso cogliere nel martirio di oggi non solo l’aspetto cristologico ed eucaristico, ma altresì un lato escatologico e apocalittico, perché il martire partecipa con tutto il suo essere ai dolori della fine del tempi predetti da Gesù: il martire anticipa questa fine per il suo tempo ed è capace con il suo sacrificio di essere giudizio non solo per il mondo ma anche per i cristiani e la chiesa pellegrinante. E se il martirio di ieri era per la Chiesa soprattutto un dono, oggi più che mai è anche un giudizio: proprio per questo non è un caso se la Chiesa a volte fatica ad accogliere un simile dono. Chi può negare che proprio Bonhoeffer, nella sua vita e nella sua morte violenta, sia stato un giudizio per la chiesa luterana tedesca, al tempo del nazismo? E lo stesso Romero per la chiesa cattolica in El Salvador, in una stagione assai cupa della sua storia?
La prospettiva
di papa Francesco
In questa prospettiva, mi pare, andrebbero rilette le tante riflessioni dedicate da papa Francesco al tema del martirio. Più volte egli ha sottolineato che «noi abbiamo tutto, tutto sembra facile per noi e se ci manca qualcosa ci lamentiamo», esortando a pensare «a questi fratelli e sorelle che oggi, in numero più grande dei primi secoli, soffrono il martirio». A Santa Marta, il 21 aprile 2015, ha rimarcato: «Oggi la Chiesa è Chiesa di martiri: loro soffrono, loro danno la vita e noi riceviamo la benedizione di Dio per la loro testimonianza… Ci sono anche i martiri nascosti, quegli uomini e quelle donne fedeli» alla «voce dello Spirito, che fanno strade, che cercano strade nuove per aiutare i fratelli e amare meglio Dio e vengono sospettati, calunniati, perseguitati da tanti “Sinedri moderni” che si credono padroni della verità: tanti martiri nascosti!».
Quella più recente si è verificata ancora durante un’omelia mattutina a Santa Marta, lo scorso 30 gennaio, commentando la lettura di Ebrei 11, 32-40, quando ha sostenuto: «Noi siamo soddisfatti quando vediamo un atto ecclesiale grande, che ha avuto un gran successo, e questo è bello! Questa è forza. Sì, è forza. Ma la più grande forza della Chiesa oggi è nelle piccole Chiese, piccoline, con poca gente, perseguitati, con i loro vescovi in carcere. Questa è la nostra gloria oggi, questa è la nostra gloria e la nostra forza oggi». Perché «una Chiesa senza martiri è una chiesa senza Gesù», ha concluso, invitando a pregare «per i nostri martiri che soffrono tanto» e «per quelle Chiese che non sono libere di esprimersi»: «Loro sono la nostra speranza!».
Brunetto Salvarani