Cozza Rino
Ripartire dalle domande
2017/2, p. 33
Veniamo da un tempo in cui si pensava che fossero le risposte a meritare un inchino. Invece, è solo connettendosi con le domande della storia che si mette il nostro agire sui sentieri di senso.

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Testimoni
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La difficile libertà di cambiare
RIPARTIRE
DALLE DOMANDE
Veniamo da un tempo in cui si pensava che fossero le risposte a meritare un inchino. Invece, è solo connettendosi con le domande della storia che si mette il nostro agire sui sentieri di senso.
«Perché la vita religiosa non ha la libertà di cambiare?».
È questa la domanda posta da un gruppo di giovani religiose durante una esperienza di riflessione.
L’interrogativo partiva da una preoccupazione che è di molti religiosi e religiose, così traducibile: che cosa fare o meglio come “essere” perché nell’immaginario, in particolare dei giovani, il quadro estetico della consacrazione non sia impresso come un catalogo di schemi dottrinali ed etici, produttori di una spiritualità spesso molto rigida e vincolata a paradigmi e regole fisse, proprie di un’epoca che non c’è più?
Lo stato di coscienza oggi dominante nella società, appartiene solo limitatamente a una porzione della vita religiosa, per cui questa non si sente sufficientemente sfidata ad essere parte viva delle grandi trasformazioni che il nostro continente sta vivendo. Si ritrova meglio nel pensare il mondo costruito su codici immutabili, essendosi creata un tipo di pensiero che fatica a imparare qualcosa di nuovo.
«In tempo di cambiamento sono le domande che lavorano a costruire una via».
Scriveva il noto filosofo Martin Heidegger: «le vere riforme nascono dalle domande»: tagliarle è come impedire all’aria di arricchirsi di ossigeno».
Non incuriosiscono le tante risposte di quei documenti che rispondono a tutto, accontentandosi, di quando in quando, di fare entrare qualcosa perché il tutto stia in piedi. Veniamo dal tempo in cui si pensava fossero le risposte a meritare un inchino, invece è solo connettendosi con le domande della storia che si mette il nostro agire sui sentieri di senso.
Allora non basta la presunzione di avere un “sapere” da cui trarre le risposte, se queste sono sganciate dalla capacità di porsi le domande, a partire dal chiedersi che cosa si è eclissato come elemento vivo. Sono le domande che aprono gli occhi. Dunque il male maggiore che ci potrebbe capitare è di non avere più domande: quando vengono meno queste, hanno il sopravvento gli adattamenti di acquiescenza e negligenza, con la conseguenza di trovarsi forestieri, quando non addirittura dei corpi estranei, all’interno di questa cultura che noi abbiamo contribuito a creare.
Ma in questo nostro tempo la vita religiosa sa coltivare le domande?
Ad esempio queste:
• È consapevole d’essere entrata, irreversibilmente, in un tempo in cui le immagini tradizionali della vita consacrata, con il suo pensare ancora tanto egocentrico, non tengono più?
• Si è accorta che sono sempre meno coloro che le chiedono di essere utile (servizi) e che i nuovi cammini discepolari sono attrattivi non per ciò che portano a fare (opere) ma per ciò che portano ad essere: sollecitazioni rivolte ai cristiani a vivere il Vangelo facendolo trasparire come aspirazione al bello?
• Si è resa conto che oggi la sua forza, con il perdere alcuni dei propri originari riferimenti, non è più riposta nell’esperienza di Dio, avendo fatto del carisma un mestiere?
• Cos’è che spesso fa delle comunità un assemblaggio umano, facendo loro perdere le dimensioni più armoniche della vita, da far dire a molti, «questa non è più la nostra casa»?
È questo il momento favorevole per la vita religiosa di rispolverare la domanda essenziale: che cosa significa essere consacrati?
Oggi sono in crisi tutte le forme di vita associata in cui è prevalente l’istituzionale.
«Alla vita religiosa manca la capacità di accorgersi che in essa c’è un tipo di istituzionalità che non le serve più, che è già morta: può avere belle strutture, grandi organizzazioni però essere già morta. Ma rimanere fedeli alle cose morte fa perdere tempo e il gusto. Rende schizofrenici – va dicendo con forza la teologa A.Potente – perché vivere con grandi ideali in istituzioni morte ci rompe dentro».
C’è un grido di dignità a cui l’istituzione non è più in grado di dare una risposta pari al bisogno, perché non è più capace di raccogliere le sofferenze, le lacrime, le attese. Molti incontri istituzionali, più che per accogliere le domande che fanno gridare l’anima, sembrano fatti per difendersi da chi chiede, e l’aria che tira in consulte o assemblee sembra essere quella del fastidio di fronte all’interrogare autentico. Solo per innocue domande si lascia volentieri qualche spazio, mentre questo sembra negato a ciò che metterebbe in luce quello in cui la vita si sente soffocata. Tutto l’impegno che un Istituto sembra proporre è quello di «assicurare un passato che sempre ritorna alla memoria quasi con malinconia», ma l’identità cristiana è migrazione, nomadismo, piuttosto che riproporre quelle soluzioni che se rispondono al presente con il cercare di portare avanti l’attuale situazione con un numero esiguo di religiosi/e, certamente però non preparano il futuro essendo lontane dalla vita. Scelte compiute in nome della paura di perdere le uniche cose che ci rimangono, le Opere, che se un tempo erano forza oggi in molti casi sono debolezza. Dietro a certe opzioni, solo in apparenza risolutive, non c’è tanto la forza di un’idea quanto la debolezza di chi è spaesato.
In ogni caso non aspettiamoci da queste scelte quello che alla vita evangelica non apportano niente, e che certamente non liberano la speranza. In un tempo in cui la disaffezione verso l’elemento istituzionale è forte, paradossalmente lo si rafforza con ulteriori elementi istituzionali quali quelli sottesi alle logiche di “impresa” tendenzialmente invadenti specie in campo religioso, tali da prendere il sopravvento sull’elemento più vivo, spirituale, relazionale, umano, storico. Ma la vita religiosa non è riconducibile a un cammino verso queste logiche quanto piuttosto a un percorso che porti ad un incontro dentro la realtà di un Volto e di tanti altri volti che ti facciano camminare. Coniugare l’identità con un «grigio pragmatismo … nel quale tutto apparentemente procede nella normalità – scrive il papa nella Evangelii gaudium – sviluppa la psicologia della tomba, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo».
Perché vari inviti di papa Francesco in riferimento alle organizzazioni dei religiosi sono raramente riportati nelle programmazioni dei religiosi/e?
Non sarà perché sono espressioni che disturbano le orecchie di coloro che dirigono l’Istituto come fosse un’impresa di lavoro, per la quale – sembrano dire vari abili calcolatori, – il Vangelo non è detto che sia poi proprio necessario?
Una di queste espressioni di papa Francesco, dice: «Non è profezia per la vita consacrata essere omologa ad una organizzazione non governativa». E ne dà ragione ai seminaristi e religiosi in formazione affermando: «Voi non vi state preparando a fare un mestiere, a diventare funzionari di un’azienda o di un organismo burocratico. Abbiamo tanti a metà cammino […] Un dolore perché non sono riusciti ad arrivare al cammino completo: hanno qualcosa dei funzionari, qualche dimensione burocratica e questo non fa bene alla Chiesa. Mi raccomando, state attenti a non cadere in questo».
Con queste espressioni il Papa ha inteso dire che la missione dei religiosi sta nell’essere sentinelle del «regno di Dio», e che non è profezia l’essere percepita prevalentemente in base alle prestazioni di utilità sociale, essendo queste conseguibili anche fuori di essa.
Tutta presa dai propri problemi non si impensierisce del «problema».
Sintetizzo in un interrogativo le molte domande che vengono poste in questi termini: «Come far fronte alla crescente disaffezione verso l’elemento istituzionale, sentito tanto invadente da prendere il sopravvento sull’elemento più vivo, relazionale, umano, identitario la cui carenza porta alla rassegnazione di un umano declinato malamente?».
Sono molti oggi gli Istituti che sembrano preferire dare risposte che rassicurino l’istituzione piuttosto che stare sulle domande di senso. Una di queste potrebbe dirsi così: che cosa significa “essere” e operare da religiosi/e partendo dal fatto che al cuore della “consacrazione” non si pone – non dovrebbe porsi – una ideologia o una funzione, ma un “evento”, un “incontro” ricco di stupore e di fascino, tali da cambiare la vita? In tempo di desertificazione spirituale, ci si deve interrogare su quali siano le scelte in grado di dire Dio con la vita all’uomo moderno; quali siano traduttrici della fede oggi; quali siano cariche di significatività (indicatrici di senso) per esprimere il patrimonio spirituale che ci è stato affidato. La vita religiosa che sopravanzerà sarà quella la cui bellezza non sarà data dagli atti religiosi e neppure dai suoi servizi, sia perché oggi non sono di “frontiera” e sia perché non ne ha più le forze, ma dalla fede, quella capace di testimoniare il vero volto di Dio manifestatosi in Gesù Cristo, offrendo ragioni per credere e motivi di luce. Quando non si ha più la capacità di evidenziare e rendere appetibile questa primaria identità, dietro l’angolo c’è il pericolo che l’attenzione di un Istituto si riversi su ciò che gli rimane. Cioè su impegni dai risvolti sempre più funzionalisti. Se questi poi con il passare del tempo, quasi senza avvedersene, assurgono al rango di identità carismatica, è naturale che l’Istituto porti maggiormente l’attenzione a logiche di sopravvivenza di questi prima che a logiche di qualità della vita delle persone. Questo è l’esito di un processo istituzionale malato in quanto religioso le cui scelte hanno la parvenza di essere colpi di coda di una realtà che sembra non farcela più?
Non stupisce allora che qualche consacrato o consacrata scriva così: «Se accetto di continuare a vivere la realtà della vita religiosa per come si presenta oggi, finirei per alienarmi totalmente, con tanta frustrazione e malcontento». Sono espressioni che per qualche assonanza riportano a Francesco di Assisi in quel momento in cui alla sofferenza fisica si associa quella spirituale per aver ormai compreso che il suo ideale evangelico si trovava in serio pericolo o forse era già fallito, come mostra la sua decisione, presa quattro anni prima della morte, di lasciare la guida dell’Ordine per ritirarsi in disparte con pochi fidati compagni.
Sulla linea del «fare» che cosa rimane ai religiosi e religiose?
Risposte adeguate oggi vengono anche dal prendere di peso le evidenze messe in luce dalla Congregazione per la vita consacrata (Civcsva), la quale così si esprime: ci si sta purificando «dalle identità ripiegate sul primato dei servizi ecclesiali e sociali». «Gli obiettivi di promozione sociale vanno inseriti nell’orizzonte che evidenzi e custodisca la testimonianza del Regno e la verità dell’umano».
Con il dire: che cosa rimane ai religiosi e religiose non si intende fare riferimento alle rimanenze, ma piuttosto a ciò che le è essenziale in ordine alla sua identità, oggi maggiormente riconoscibile nel «mettere a dimora uno stile di opere e di presenze piccole e umili come l’evangelico granello di senapa in cui brilli senza frontiere l’intensità del “segno”, la parola coraggiosa, la fraternità lieta, l’ascolto della voce debole, la memoria della casa di Dio fra gli uomini».
Già nel 1990 il convegno ecclesiale di Aquileia, «Comunità Cristiana e il suo futuro», invitava i religiosi/e a investire nella “significazione” passando dall’offrire quei «servizi» che tutti possono e vogliono fare, all’avviare iniziative-segno che avessero carattere di indicatrici di senso. Con il dire “segno” si intendeva oltre alla funzione di «indicare», anche l’eventuale produzione di quei «servizi» che se promossi da religiosi/e, dovevano anche avere alcune istanze evangeliche ed evidenti forme di condivisione della vita; servizi portati avanti in quanto e fino a quando fossero in funzione di cambiamento.
Rino Cozza csj