Bianchi Enzo
Una liturgia viva per una Chiesa viva
2017/12, p. 38
La liturgia oggi è in stato di sofferenza: abbisogna di una parola autorevole e chiara che confermi la riforma, di un nuovo soffio che le ridia dinamica, che il rinnovamento attuale della Chiesa, voluto e propiziato da papa Francesco, sia accompagnato da un rinnovamento della vita liturgica.

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68a Settimana Liturgica Nazionale – Roma 21-24 agosto 2017
UNA LITURGIA VIVA
PER UNA CHIESA VIVA
La liturgia oggi è in stato di sofferenza: abbisogna di una parola autorevole e chiara che confermi la riforma, di un nuovo soffio che le ridia dinamica, che il rinnovamento attuale della Chiesa, voluto e propiziato da papa Francesco, sia accompagnato da un rinnovamento della vita liturgica.
Introduzione
Questa relazione, che nasce dalla mia esperienza di cristiano e di monaco in questa particolare congiuntura della vita della Chiesa qui in Italia, non può e non vuole essere una conclusione di questo convegno che coincide con i settant’anni di vita del CAL. Mi sono sentito onorato della richiesta del vescovo Claudio Maniago, presidente del CAL, ma ora mi sento tremante nel manifestarvi i pensieri da me meditati e anche sofferti, perché non è facile indicare come dovrebbe essere una liturgia viva che, di conseguenza, sappia ispirare e plasmare una Chiesa viva.
E soprattutto non è facile questa operazione oggi, in un’ora che possiamo definire “critica” per la liturgia. Lo constatiamo, anche se magari non arriviamo a esprimerlo, per diverse paure che ci abitano: viviamo un’ora di stanchezza e, ai margini della Chiesa, un’ora di contrapposizioni e polemiche proprio sulla liturgia, che negano ogni possibilità di sviluppo della dinamica dell’ecclesia sempre reformanda, tanto cara e invocata da papa Francesco; dinamica che non può essere ristretta al rinnovamento delle strutture o dell’istituzione, ma che è anche sempre dinamica di tutte le operazioni della chiesa a partire dalla liturgia.
Dopo l’entusiasmo generato dal rinnovamento liturgico conciliare, di cui il CAL è stato protagonista importante nella nostra chiesa italiana, in questi ultimi anni la liturgia sembra essere scivolata ai margini degli interessi e degli impegni principali della Chiesa. Come ho detto e scritto più volte, si ha l’impressione che la liturgia si trovi oggi in un cono d’ombra, creato da questioni e dibattiti ecclesiali ritenuti centrali e che di fatto assorbono la vita della Chiesa: mi riferisco a temi quali la famiglia, l’educazione, i poveri e, più in generale, i temi etici e sociali.
Certamente viviamo una diminutio dei cristiani, realtà sempre significativa ma numericamente più ridotta a causa della crescita di generazioni indifferenti alla fede cristiana. La celebrazione dell’eucaristia domenicale mostra a tutti, particolarmente in alcune aree del paese, la sua incapacità di attrarre e trattenere i giovani ma anche di mostrare il suo essere realtà necessaria alla vita cristiana. Il dibattito e la ricerca sulla liturgia sono sempre più spenti e ne danno prova le difficoltà nelle quali si trovano le riviste e le pubblicazioni liturgiche. Lo stesso CAL, se guarda agli anni della sua vita, deve constatare di non ricevere più, in termini di adesioni, la risposta numerosa degli anni postconciliari. Non mi attardo a descrivere questa situazione, ma credo sia necessario constatarla ed esprimerla, non per concludere – come alcuni fanno – che questo è il frutto della riforma liturgica, ma per trovare vie di ripresa di quella riforma benedetta, giunta già in ritardo rispetto ai bisogni delle chiese.
Perché, ad esempio, negli orientamenti pastorali dei vescovi italiani per il decennio 2010-2020, Educare alla vita buona del Vangelo, il ruolo riconosciuto alla liturgia nell’educazione alla fede è del tutto irrilevante, come se la liturgia e i sacramenti non fossero decisivi nel plasmare la vita cristiana? Si è già persa la memoria del concilio, secondo il quale “la liturgia è la prima e più necessaria sorgente dalla quale i fedeli possano attingere uno spirito veramente cristiano”? E se non di quello attinto dalla liturgia, di quale spirito si nutre oggi il cristianesimo? Questo purtroppo, a mio avviso, è l’esito prodotto da una chiesa che negli ultimi decenni ha privilegiato la militanza movimentista rispetto alla presenza evangelica, l’affanno pastorale rispetto al primato della Parola e al gesto sacramentale, l’ansia di contarsi e apparire agli occhi del mondo rispetto al “rifugiarsi nel Vangelo come nella carne di Gesù”, secondo le celebri parole di Ignazio di Antiochia.
Ma accanto a questa semplice diagnosi, non si può dimenticare che l’attuale “stasi” liturgica è dovuta anche alla paura di incrinare la comunione nella chiesa e di aumentare la contrapposizione tra il rito liturgico scaturito dalla riforma conciliare, e perciò ordinario, e il cosiddetto rito di Pio V liberalizzato da Benedetto XVI con il Motu proprio “Summorum pontificum” del 7 luglio 2007. Questa misericordiosa disposizione in verità ha avuto effetti contrari alle sue intenzioni, perché invece di pacificare ha autorizzato una critica e una svalutazione a volte feroci nei confronti della liturgia assunta dalla chiesa e resa ordinaria da Paolo VI. Io resto convinto – e lo dissi anche a papa Francesco – che questo indulto va assolutamente rispettato e può essere una grazia, a condizione che ci sia un uguale rispetto verso il rito ordinario e non si continui a dire che esso è illegittimo, depauperato, non più capace di sacralità, “protestantizzato”, e dunque in contrasto con la tradizione cattolica. Da segno di unità, l’eucaristia è diventata segno di divisione, contraddicendo nei fatti il fine per il quale Gesù Cristo ha spezzato il pane e condiviso il calice, istituendola come segno perenne, “donec veniat” (1Cor 11,26).
La critica alla riforma liturgica scorre oggi nella chiesa come un torrente carsico che qua e là affiora con la pretesa di essere il fiume della grande tradizione e crea anche una tensione che non potrà essere lasciata a lungo a se stessa, senza causare danni seri alla vita della chiesa. Sì, la liturgia oggi è in stato di sofferenza: abbisogna di una parola autorevole e chiara che confermi la riforma, abbisogna di un nuovo soffio che le ridia dinamica, abbisogna che il rinnovamento attuale della chiesa, voluto e propiziato da papa Francesco, sia accompagnato da un rinnovamento della vita liturgica.
- Non ci può essere una chiesa viva e una liturgia affaticata;
- non ci può essere una “chiesa in uscita” e una “liturgia in ritirata”!
La Chiesa evangelizza come celebra: la credibilità della chiesa è il riflesso della vitalità del suo celebrare. Il rinnovamento della liturgia non è esplicitamente indicato nell’Evangelii gaudium di papa Francesco, ma è urgente perché la liturgia non è solo culmen, ma anche fons, sorgente da cui scaturisce ogni riforma. Senza questa fonte di acqua viva, non si può celebrare il Vangelo, non si può operare una missione e un’evangelizzazione nella dýnamis dello Spirito santo. Per questo dobbiamo essere convinti – ed è un compito che appartiene al futuro del CAL – che l’impegno per il rinnovamento della liturgia non sta alle nostre spalle ma è il compito necessario oggi e domani.
Dopo questa introduzione, vorrei ora indicare alcune urgenze per una liturgia viva che sappia generare una chiesa viva.
Il rapporto Chiesa-liturgia
In verità non è facile esprimere a parole il rapporto tra chiesa e liturgia, perché non si può pensare alla liturgia senza pensare simultaneamente alla chiesa. C’è infatti una mutua implicazione del soggetto chiesa e della liturgia. Tutta la grande tradizione lo attesta: è la chiesa che celebra la liturgia, ma proprio nella liturgia la chiesa è edificata. Ogni volta che pensiamo la liturgia di oggi e di domani, di fatto, e non potrebbe essere altrimenti, pensiamo la chiesa di oggi e di domani. Per questo è anche insufficiente l’espressione “la liturgia al centro della vita della chiesa”. Nella Lettera apostolica Vicesimus quintus annus (4 dicembre 1988) Giovanni Paolo II attestava: «Il concilio ha voluto vedere nella liturgia un’epifania della chiesa: essa è la chiesa in preghiera. Celebrando la liturgia, la chiesa esprime ciò che è: una, santa, cattolica e apostolica. Essa si manifesta una, secondo quell’unità che le viene dalla Trinità».
Questo perché la liturgia cristiana è innanzitutto partecipazione al mistero pasquale di Gesù Cristo che è la fonte, il luogo sorgivo dell’autentica celebrazione della chiesa. Secondo Jean Corbon, “prima di essere celebrazione, la liturgia è evento. La questione non è tanto tra ‘celebrazione e vita’, ma tra ‘liturgia e vita’. L’evento totale di Cristo è di un’altra ampiezza e di un’altra profondità: è il ‘mistero’”. Proprio per questo la verità della liturgia risulta la verità della chiesa, popolo di Dio in cammino verso il Regno. Propriamente, risulta la verità della chiesa locale, là dove viene celebrato il battesimo con la conseguente eucaristia. È facile constatarlo: la liturgia delle comunità del tempo apostolico narra la chiesa generata dalla predicazione apostolica e la chiesa della generazione apostolica celebra la liturgia ricevuta dagli apostoli. Allo stesso modo, la chiesa tridentina ha la sua epifania nella liturgia tridentina e la liturgia tridentina narra la chiesa tridentina. Non ci può essere riforma della chiesa senza riforma della liturgia, e quando si pensa a una chiesa viva occorre contemporaneamente pensare a una liturgia viva.
Ora, la chiesa che vive nel tempo e celebra il mistero cristiano al cuore dell’umanità, nella diaspora del mondo, si dà come assemblea liturgica. È soprattutto a proposito dell’assemblea liturgica che voglio dunque delineare le urgenze in vista di un nuovo soffio liturgico-ecclesiale. Infatti l’ecclesia, l’assemblea, è “il “soggetto integrale dell’azione liturgica”, come affermava Yves Congar, ed è manifestazione della chiesa perché i credenti sono chiamati a essere un solo corpo, innestati nel mistero pasquale celebrato e reso evento. Io credo che oggi, prima di ogni altra necessaria riforma (quella dei testi e dei segni, dunque dei riti, è stata in gran parte fatta dalla riforma conciliare), occorra ripensare quella realtà dalla quale molti cristiani si allontanano o restano assenti: l’assemblea liturgica, specialmente quella eucaristica.
Viviamo oggi una situazione segnata dalla disseminazione, dalla frammentazione delle appartenenze, dall’allentamento dei legami. Regna l’immagine dell’homo ab-solutus, senza legami, chiuso nel suo individualismo narcisistico che contraddice ogni possibilità di comunione. E il moltiplicarsi dei non-luoghi rende gli esseri umani sempre più smarriti, “liquidi”. Ma proprio in questa situazione, l’assemblea cristiana appare come un segno profetico, una chiamata controcorrente al legame, alla relazione, alla comunione. Si dia consapevolezza ai cristiani della profezia che compiono ogni domenica diventando assemblea in quanto chiamati dal Signore! E soprattutto si restituisca all’adunanza liturgica, già eloquente di per sé, la qualità di autentica assemblea, assemblea viva.
È questa assemblea che deve essere ecclesia, soggetto integrale dell’azione liturgica.
È questa assemblea che deve mostrare la sinfonia delle pluralità e differenze che compongono il popolo di Dio.
È questa assemblea che deve far corrispondere al “noi” con cui si esprime una vera soggettività comunitaria, in cui ecclesiologia e liturgia sempre si compiano e si esprimano con un noi davanti al Padre nostro.
Dobbiamo chiederci: la nostra assemblea liturgica sa narrare il servizio sacerdotale di tutto il popolo cristiano? Sa manifestarsi come profetica, capace di narrare la salvezza operata da Dio? Sa indicare le esigenze concrete, di vita tra gli uomini, proprie di un’assemblea regale? A mio avviso queste sono domande decisive, perché se l’assemblea smentisce la sua verità, la sua vocazione, come possiamo pensare che essa possa attirare coloro che il Signore chiama a essere suoi discepoli? Queste domande vanno poste specialmente nell’attuale ora di grande mutamento della presenza della chiesa del mondo, un’ora in cui si registrano alcune tentazioni forti: clericalizzare il laicato, laicizzare i presbiteri, estendere l’ordine a nuovi soggetti…
Un’assemblea liturgica umana
L’assemblea liturgica è il luogo dell’Altro e dell’altro, il luogo dell’esperienza dell’alterità, nell’incontro con il mistero di Dio e con il mistero dell’uomo, nella concretezza di quanti si sentono ek-kletoí, chiamati fuori da, ma chiamati l’uno accanto all’altro. Un’assemblea umana è una realtà capace di vivere la fraternità, la dimensione del sýn (con, insieme), e dell’allélon, della reciprocità. L’assemblea cristiana raduna perciò uomini e donne, bambini, giovani, persone mature e anziane, provenienti da situazioni e appartenenze sociali diverse, un’assemblea plurale e multiforme che confida in un solo principio di unità e comunione: Gesù Cristo. Per questo l’assemblea eucaristica deve disdegnare celebrazioni per categorie di persone, gruppi di appartenenza ecclesiale o di appartenenza etnica, dovendo al contrario essere sempre aperta a tutti. Se un’assemblea liturgica non è capace di esprimere la fraternità e la sororità di quanti vi prendono parte e non è capace di plasmare il vissuto comunitario secondo la dimensione evangelica dei figli di Dio e fratelli e sorelle di Gesù Cristo, allora non è abilitata a essere assemblea cristiana. Di conseguenza, la liturgia che essa celebra non è quella che il Signore vuole e gradisce ma solo un insieme di riti religiosi e perciò un’autocelebrazione sovente intimistica e neppure collettiva.
Nell’assemblea domenicale va dunque cercato innanzitutto lo stile della fraternità e della comunione. La giustapposizione in assemblea di uomini e donne che non si riconoscono reciprocamente (non dico che debbano conoscersi) causa lo svuotamento dei gesti che si vorrebbero di accoglienza reciproca, di riconciliazione, di assunzione della responsabilità fraterna, sono ferite inferte all’assemblea eucaristica. Proprio la liturgia eucaristica deve permettere “il costituirsi della fraternità e sororità ecclesiale nelle sue linee portanti”. Andare nello stesso luogo, essere insieme, ascoltare insieme, pregare insieme, compiere gesti insieme deve essere esercizio di fraternità, nel riconoscimento dell’umanità dei gesti.
Diamo troppo per scontato che un’assemblea sia cristiana anche quando manca lo spessore dell’umanità nel viverla! Osiamo dire la verità: alcune volte si celebrano eucaristie nelle quali la fraternità umana non emerge da alcun atteggiamento. Si vede gente che entra solitaria in chiesa, che si dispone sparpagliata nei banchi, che assiste a un’azione fatta all’altare da un celebrante e che, terminata la liturgia, come dopo un consumo privato, esce di chiesa e se ne va… Confessiamo che la liturgia è opus Dei, ma se essa non si incarna nel vissuto dei partecipanti, cosa significa questo concretamente? Purtroppo siamo stati educati a preoccuparci di assicurare alla liturgia posture ieratiche, gesti solenni, tratti spettacolari da corte imperiale, più che di fare della liturgia un’azione umanissima, come fece Gesù nella sua vita terrena.
La qualità cristiana di un’assemblea, e quindi della liturgia che essa celebra, è data dalla sua conformità all’umanità di Gesù, umanità con cui egli ha glorificato Dio e ha reso l’uomo capace di essere più umano. Così la liturgia saprà parlare all’uomo, alla donna contemporanea che la celebra e vi si accosta. E per giungere a tale eloquenza, una liturgia viva dovrà essere capace di interrogarsi anche sulla sfida dell’imprescindibile mediazione del linguaggio e dei linguaggi: perché si riscontrano difficoltà crescenti nell’elaborazione di traduzioni dei testi liturgici e nella loro ricezione da parte delle chiese locali? Va detto con franchezza: il non riuscire a imboccare una via verso una liturgia che si esprima nella lingua viva di oggi, è mortificante!
Un’assemblea liturgica sinodale
Papa Francesco chiama tutti all’opera di riforma della chiesa, avviando lui stesso il processo e cercando di attuare la sinodalità. Sappiamo che la sinodalità come egli la intende non è semplicemente un assetto istituzionale della chiesa, da attuarsi in determinati organi della chiesa locale o universale, bensì un modo di vivere la chiesa: sinodalità come sýn-odós, come camminare insieme di tutto il popolo di Dio con i suoi pastori. Tale compito è realizzabile a lungo termine e richiede molta fatica, pazienza, ma soprattutto una conversione profonda nel vivere la chiesa.
Ecco allora la domanda: è possibile pensare a una chiesa sinodale senza vivere una liturgia quale assemblea “sinodale”? Nel passato recente storici e teologi hanno cercato di investigare il rapporto tra sinodo e liturgia, leggendo nella celebrazione del sinodo della chiesa antica un’estensione dell’assemblea eucaristica e affermando quindi uno stretto legame tra sinodo e liturgia. I sinodi celebrati dalla chiesa durante i secoli e ripresi in particolare dopo il Vaticano II nelle chiese locali hanno perciò sempre previsto assemblee liturgiche come assolutamente necessarie, perché, secondo le parole dell’allora teologo Joseph Ratzinger, “il concilio serve alla stessa direzione di movimento dell’eucaristia, tende cioè all’unità che viene dalla parola di Dio. Esso non ha lo stesso grado di realtà dell’eucaristia, ma le si pone accanto, la prende come sua misura e sfocia in essa”. Il sinodo è dunque sempre riferito all’eucaristia, nella quale sono dati la parola di Dio e il corpo del Signore che generano la chiesa.
Ma questo dovrebbe anche farci comprendere che a un popolo di Dio che cammina sinodalmente deve corrispondere un’assemblea liturgica sinodale. L’assemblea eucaristica ha generato il sinodo, ma il sinodo come forma dell’assemblea deve ispirare l’assemblea eucaristica. La liturgia eucaristica deve avere come soggetto l’assemblea celebrante. Così ne parlava Giuseppe Dossetti:
Non soltanto comunità, ma comunità assembleare, comunità tutta gravitante verso il suo porsi in atto e manifestarsi nell’assemblea, in un atto assembleare organico. Ciò significa che vi è una distribuzione di compiti e di ruoli che devono tendere, sempre più, a essere quello che ciascuno, secondo verità, esprime nella funzione e nella sostanza della chiesa. In questo modo la stessa struttura della chiesa deve essere ricavata dalle funzioni quali si esprimono nella loro massima attualità e pienezza nel momento assembleare dell’assemblea santa.
Per questo le liturgie eucaristiche dovranno assumere il vero e proprio carattere assembleare, che normi la chiesa nella sua sinfonica comunione plurale. L’ekklesía e la koinonía, vissute sinodalmente, dovranno avere una manifestazione sinodale eucaristica. Questo significa innanzitutto un’assemblea capace di esprimere il sensus fidei, di attuare un ascolto sinodale, una non separazione tra ecclesia docens ed ecclesia discens, insomma di partecipazione dell’assemblea soprattutto alla funzione profetica di Cristo. Assemblee fervorose, devote, ma lontane dall’“actuosa participatio” (Sacrosantum concilium 14) e sovente attente ma passive, non possono restare a lungo assemblee vive e vivaci, come ha chiesto papa Francesco. Ci vorranno creatività e audacia, ma il cammino è ineludibile.
Vorrei inoltre esprimere un’altra urgenza affinché si inveri la sinodalità nella liturgia: pur salvaguardando le istanze della non-clericalizzazione dei laici e del riconoscimento dei diversi ministeri liturgici, e ferma restando un’unica presidenza eucaristica nella liturgia della Parola e del Pane e del Vino, sia prevista la possibilità regolata o normata dal vescovo, a chi è riconosciuto portatore del dono della parola, di esprimere la qualità profetica del popolo di Dio con interventi partecipativi all’omelia. In futuro si farà un’esperienza sempre più ordinaria di assemblea in cui vi sarà un uomo o una donna che, sotto la presidenza del presbitero, possa intervenire con una parola di annuncio, testimonianza, esortazione, consolazione. È ciò che già avviene in molti movimenti e comunità, ma che andrà ordinato e valorizzato contro ogni abuso. Così si costruirà con chiarezza una liturgia sinodale.
Un’assemblea liturgica ospitale
Vi è infine l’urgenza di un’assemblea liturgica ospitale. Tutti siamo convinti che l’assemblea eucaristica sta alla tavola del Signore (trápeza Kyríou: 1Cor 10,21) e la forma dell’eucaristia è data dalla commensalità di fratelli e sorelle a questa tavola. Sappiamo anche che i credenti nati dalla Pentecoste “ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore” (At 2,46). E tutti crediamo che l’eucaristia resta nella sua essenza un sedersi alla tavola per mangiare insieme “la cena del Signore” (1Cor 11,20). Tutti i cristiani battezzati, senza alcuna distinzione di sesso, di etnia, di appartenenza sociale e livello culturale, siedono alla tavola del Signore, sebbene nella bimillenaria storia del cristianesimo si siano elaborati riti complessi che talvolta hanno velato questa dimensione comunionale.
Proprio la dimensione della condivisione del pane e del vino tra commensali è stata vissuta fin dall’epoca del Nuovo Testamento
- come segno della convivialità che tende alla comunione,
- come celebrazione dell’alleanza del Signore con la sua chiesa,
- come partecipazione a un unico corpo, quello del Kýrios risorto.
Una tavola, quella del Signore, che spesso è stata, prima di diventare il mistero celebrato, la tavola dell’incontro tra Gesù e tutti gli umani: peccatori e peccatrici, malati, poveri, emarginati… Gesù ha voluto sedere alla tavola dei peccatori, facendosi commensale dei poveri, degli affamati, dei pubblicami degli impuri: ha condiviso la tavola con tutti coloro che erano esclusi dalla legge e dalle regole religiose.
“Tavola del Signore” significa dunque tavola dell’ospitalità gratuita, tavola dei peccatori, tavola della misericordia. Questo non possiamo dimenticarlo, altrimenti finiamo per metterci insieme a quelli che, scandalizzati, protestavano e contestavano il comportamento di Gesù: “Perché mangia e beve insieme ai pubblicani e ai peccatori?” (Mc 2,16; cf. Mt 9,12). E Gesù si difendeva ribattendo a questi uomini religiosi: “Andate a imparare che cosa vuol dire: ‘Misericordia io voglio e non sacrifici’ (Os 6,6). Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9,13).
E potremmo anche chiederci se le nostre liturgie sono capaci di accogliere cristiani battezzati di confessione diversa dalla nostra, in un’ospitalità ecumenica che permetta almeno di poter pregare insieme e, in alcuni casi, di praticare l’accoglienza di quanti desiderano ricevere il corpo del Signore perché, attraverso il battesimo, formano con lui un solo corpo. E ancora, potremmo interrogarci sulla capacità delle nostre liturgie di attuare ciò che si legge nella “Preghiera di dedicazione della chiesa”:
- Qui il povero trovi misericordia,
- l’oppresso ottenga libertà vera
- e ogni uomo goda della dignità dei tuoi figli,
- finché tutti giungano alla gioia piena nella santa Gerusalemme del cielo.
Insomma, la nostra assemblea eucaristica è tavola ospitale? Vorrei tentare una risposta soffermandomi brevemente su due ambiti.
a) Tavola ospitale verso i poveri
Affermò p. Pedro Arrupe, il santo preposito generale dei gesuiti, al Congresso eucaristico internazionale di Filadelfia, nell’agosto del 1976:
«Se in qualche parte del mondo esiste la fame, la nostra celebrazione eucaristica in tutte le parti del mondo è in qualche modo incompleta … Nell’eucaristia riceviamo il Cristo che ha fame nel mondo. Egli ci viene incontro non da solo ma assieme ai poveri, agli oppressi, agli affamati della terra».
Certo, permane una differenza tra un’assemblea eucaristica e un mensa della Caritas, ma dobbiamo chiederci se nell’assemblea eucaristica c’è ospitalità per i poveri e in che modo l’eucaristia è forza e ispirazione per una partecipazione di tutti alla tavola della terra, la cui condivisione è affermata dalla tavola eucaristica. Non vorrei che si giungesse a una contrapposizione tra una “chiesa in uscita” e un’assemblea eucaristica sentita come momento di una “chiesa introversa”, dunque sospettata. No, l’assemblea eucaristica deve affermare l’ospitalità e la condivisione con i poveri della terra, a cominciare da quelli che stanno in mezzo a noi.
b) Tavola ospitale verso i peccatori
Scriveva Cromazio di Aquileia (fine IV-inizio V secolo):
«Nella casa di Matteo possiamo vedere ben raffigurata la chiesa, che è il risultato della convocazione di pubblicani e peccatori. In essa Matteo in persona imbandisce a tutti i credenti il banchetto della fede e della predicazione, e in essa il Signore si siede a tavola con i suoi discepoli».
Proprio nella tavola del Signore, Gesù mostra la sua santità contagiosa: accoglie i peccatori e mangia con loro non perché non veda il loro peccato, ma perché sa che l’amore di Dio misericordioso che egli offre è più contagioso del peccato in quanto, incontrando il peccatore, lo perdona, lo purifica e lo salva. Anche la tavola dell’ultima cena era una tavola a cui sedevano un traditore, uno che avrebbe rinnegato e gli altri vili e paurosi fio ad abbandonare Gesù (cf. Mc 14,50; Mt 26,56)! Non era venuto a chiamare i giusti ma i peccatori, per questo li accoglieva alla sua tavola.
E anche qui sorge una domanda: la nostra assemblea eucaristica è capace di esprimere l’accoglienza dei peccatori? La nostra liturgia è luogo di accoglienza di uomini e donne che vivono situazioni non sempre conformi al Vangelo ma con un vivo desiderio di ricevere da Dio misericordia e salvezza? Scriveva Joseph Ratzinger:
«La comunione eucaristica non è un premio per chi è particolarmente virtuoso (in questo caso, chi potrebbe riceverla senza sentirsi un fariseo?) ma è il pane dei viandanti che Dio ci porge in questo mondo, che ci porge nella nostra stessa debolezza».
Questa convinzione è stata ripresa più volte da papa Francesco, non solo nell’Evangelii gaudium, dove scrive: “L’eucaristia … non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli”. Un’assemblea eucaristica deve essere capace di narrare questo a chi le si avvicina o vi partecipa, nelle parole che risuonano, nei gesti che si vivono, nell’atmosfera che in essa si crea.
Conclusione
Ho indicato alcune urgenze e l’ho fatto, ne sono consapevole, con parrhésia, ma anche grazie a una lunga meditazione sul doveroso e continuo rinnovamento della liturgia. Il culto autentico abbisogna sempre della corrispondenza tra liturgia e vita, che per il cristiano non sono due ambiti separati. Non c’è un “cristiano in uscita” e un “cristiano nel tempio”, perché è la vita del cristiano che deve essere loghikè latreía, “culto secondo la Parola”, nel quale avviene un “sacrificio della vita” (thysía zôsa: cf. Rm 12,1). Come si vedeva all’inizio, la costituzione Sacrosantum concilium definisce la liturgia come “la prima e più necessaria sorgente dalla quale i fedeli possano attingere uno spirito veramente cristiano”. Questo significa riaffermare il legame tra la vita del cristiano e il culto liturgico, che non è in primo luogo un insieme di riti, una dottrina da comprendere ma, per l’appunto, è sorgente di vita! È dunque necessaria una reale sintonia tra la celebrazione e ciò che viene vissuto dal cristiano: si tratta di esprimere con la vita quanto è celebrato in modo vitale.
Certamente, in me come in voi, vi è la convinzione che la continua riforma liturgica che deve accompagnare la riforma della chiesa dovrà mostrarsi capace di rendere eloquenti ed efficaci hic et nunc, qui e ora, ciò che la liturgia dice e i segni che essa compie; ma a mio avviso è anche necessario percorrere le vie che indicato, per giungere a un’assemblea viva, conforme al Vangelo di Gesù Cristo. Solo così la liturgia potrà uscire dal cono d’ombra in cui attualmente è collocata, in un’asthenía che non vivifica adeguatamente la vita del cristiano e la vita ecclesiale. Oggi più di ieri il CAL può aiutare il compiersi di questo processo urgente affinché Chiesa e liturgia siano realtà vive, a servizio dell’uomo e della donna di oggi.
Enzo Bianchi
Fondatore di Bose