Basso Aldo
Presupposti e sue condizioni
2017/12, p. 32
I religiosi sono chiamati a sperimentare e mostrare che Dio è capace di colmare il nostro cuore e di renderci felici. Ma quali sono i presupposti e quali le condizioni che anche le persone consacrate devono tenere presenti se vogliono fare l’esperienza di una gioia autentica?

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Testimoni
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La gioia nella vita consacrata (1)
PRESUPPOSTI
E sue CONDIZIONI
I religiosi sono chiamati a sperimentare e mostrare che Dio è capace di colmare il nostro cuore e di renderci felici. Ma quali sono i presupposti e quali le condizioni che anche le persone consacrate devono tenere presenti se vogliono fare l’esperienza di una gioia autentica?
L’esperienza della gioia è necessaria se vogliamo che la nostra vita sia serena e vissuta in pienezza. San Tommaso ricorda che come l’uomo non potrebbe vivere in società senza la verità, così nemmeno senza la gioia. Essa corrisponde ad un senso diffuso di pace e di piacere, che viene in noi dal possesso di quanto ragionevolmente desideriamo e nella misura in cui sono soddisfatti i nostri bisogni più profondi.
Gioia e vita
cristiana
La gioia è intimamente legata all’annuncio della Buona Novella. Il Signore Gesù ci ha annunciato la sua verità “perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”. A queste parole fanno eco le parole di Paolo VI – “la gioia è vero retaggio cristiano. E lo è con tanta ragione e con tanta pienezza da costituire l’ultimo, il supremo nostro messaggio… Il cristianesimo non è facile, ma è felice” – e quelle di Benedetto XVI – “Tutta la mia vita è stata attraversata da un filo conduttore, questo: il Cristianesimo dà gioia, allarga gli orizzonti”.
Gioia e vita
consacrata
Si tratta di un binomio richiamato abitualmente nei testi riguardanti la vita consacrata. È sufficiente a questo riguardo citare alcune espressioni di papa Francesco. «Che sia sempre vero quello che ho detto una volta: “Dove ci sono i religiosi c’è gioia”. Sono chiamati a sperimentare e mostrare che Dio è capace di colmare il nostro cuore e di renderci felici, senza bisogno di cercare altrove la nostra felicità; che l’autentica fraternità vissuta nelle nostre comunità alimenta la nostra gioia; che il nostro dono totale vissuto nel servizio della Chiesa, delle famiglie, dei giovani, degli anziani, dei poveri ci realizza come persone e dà pienezza alla nostra vita». Ancora, nel Messaggio di apertura dell’anno della vita consacrata: «Mostrate a tutti che seguire Cristo e mettere in pratica il suo Vangelo riempie il vostro cuore di felicità. Contagiate di questa gioia chi vi avvicina, e allora tante persone ve ne chiederanno la ragione e sentiranno il desiderio di condividere con voi la vostra splendida ed entusiasmante avventura evangelica». Infine, un terzo invito esplicito rivolto alle persone consacrate: «Come consacrate vivete, in primo luogo, la profezia della gioia. Questa è al primo posto. Al primo posto c’è la profezia della gioia: la gioia del Vangelo… Profeti di una gioia che nasce dal sentirci amati e, perché amati, perdonati».
Se, dunque, l’insegnamento ricorrente della Chiesa presenta la gioia come atteggiamento di fondo abituale nella vita delle persone consacrate, si deve peraltro tenere presente il fatto che assai diverse sono le storie delle persone, le condizioni concrete di vita, le esperienze vissute, per cui è naturale immaginare che anche l’esperienza della gioia debba avere sempre un carattere molto personale e particolare per ogni singola persona. Lo afferma anche papa Francesco: «Riconosco che la gioia non si vive allo stesso modo in tutte le tappe e circostanze della vita, a volte molto dure. Si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto. Capisco le persone che inclinano alla tristezza per le gravi difficoltà che devono patire, però poco alla volta bisogna permettere che la gioia della fede cominci a destarsi, come una segreta ma ferma fiducia, anche in mezzo alle peggiori angustie».
A partire da quanto finora richiamato, mi sembra opportuno far seguire due serie di considerazioni: anzitutto un breve accenno a possibili modalità non autentiche di manifestare la gioia; in secondo luogo, la sottolineatura di alcuni presupposti e condizioni che anche le persone consacrate devono tenere presenti se vogliono fare l’esperienza di una gioia autentica.
Quando la gioia
non sembra autentica
Ascoltando certi interventi di persone consacrate (sacerdoti, religiosi/e) o scorrendo riviste o bollettini di Istituti religiosi o osservando le copertine di certe pubblicazioni, a volte è difficile sfuggire all’impressione di trovarci di fronte a toni retorici, artificiosi o a forme di vaporosità sentimentali che non convincono e suscitano anzi qualche interrogativo. Veramente i giorni degli esercizi spirituali sono sempre momenti di ‘straordinaria esperienza di Dio’? Veramente le riunioni capitolari fanno avvertire ‘il passaggio dello Spirito’? Veramente il momento della professione religiosa deve essere segnato sempre e comunque da una ‘gioia profonda e ineffabile’? Veramente l’esperienza di quel particolare momento formativo è stata caratterizzata da ‘una gioia profonda che ha contagiato tutti’? Verrebbe da pensare che tutte queste ed altre esperienze debbano necessariamente essere momenti di intensa gioia… Qualcosa, però, non convince ed è difficile sfuggire alla sensazione di una gioia ostentata, una ilarità di circostanza, un’esultanza superficiale, se non a volte puerile. Suor Emanuela Ghini, in un carteggio con il card. G. Biffi, così scrive: «Trovo a volte che l’apparente gaiezza del nostro piccolo mondo monastico è allegria superficiale piuttosto che gioia evangelica. La gioia vera è fonda e quieta, non chiassosa ed epidermica».
Che cosa può spingere le persone a lasciarsi andare a queste pseudo esperienze di gioia? Verrebbe da pensare che dietro a tutto ciò vi possa essere una fede alquanto debole, scarsa assimilazione dei valori spirituali, limitata capacità di apertura e sensibilità verso il prossimo, motivazioni meno autentiche alla base di determinate scelte di vita. Ci si chiede anche, in certi casi, se non si voglia ostentare una gioia esteriore per ‘invogliare’ qualche giovane a seguire la via della consacrazione, offrendo un’immagine comunque possibile ed allettante.
Una persona consacrata può certamente dichiarare: “io mi sento una persona veramente contenta, sono veramente felice della mia vocazione”, offrendo in tal modo una straordinaria ed efficace testimonianza della bellezza di una vita consacrata, a patto però che queste parole le escano dal cuore e riflettano in modo autentico la verità che ella vive. Se non fosse così, ci si troverebbe di fronte ad una gioia ‘dichiarata’ più che ‘vissuta’. Significativo a questo riguardo è la testimonianza offerta da s. Domenico, secondo quanto riferisce il suo biografo: «V’era in lui un’ammirabile inalterabilità di carattere, che si turbava solo per solidarietà con il dolore altrui. E poiché il cuore gioioso rende sereno il volto, tradiva la placida compostezza dell’uomo interiore con la bontà esterna e la giovialità dell’aspetto».
Si deve riconoscere che per quanto riguarda la possibilità di vivere la gioia e la modalità di esprimerla nella nostra vita qualcosa non dipende da noi e qualcosa (molto) dipende da noi. Provo ad esplicitare questa affermazione.
Prime esperienze di vita e condizionamenti vari
Bisogna essere realisti e non dimenticare che il patrimonio ereditario e le prime esperienze di vita negli anni della nostra infanzia possono condizionare anche in modo molto incisivo la possibilità di amare la vita e sperimentare la gioia di esistere. «Più di tutto fa la nascita» (Hölderlin): certe persone possono, ad esempio, aver ereditato una natura malinconica che le accompagnerà sempre. La vita è un po’ come la si comincia, tenendo presente che all’inizio non c’è alcuna scelta da parte dell’essere umano, ma semplicemente si accoglie. La libertà non sta all’inizio della vita, ma è conseguenza e frutto della vita a mano a mano che essa si evolve e si sviluppa. Fondamentali rimarranno sempre per una persona le prime esperienze relazionali vissute nell’ambito della famiglia. Afferma Castellazzi: «Le radici della vera felicità hanno una base interiore, prima ancora che esterna. Secondo l’ottica psicoanalitica poggiano sulla introiezione di una buona relazione iniziale con la madre e, più in generale, con l’ambiente familiare». Per una buona “partenza” nella vita, è necessario che al bambino che si affaccia sulla scena di questo mondo si vada incontro in modo da metacomunicargli un messaggio fondamentale e decisivo per la sua felicità futura: “è una bella cosa che tu ci sia”. Gioia e amore saranno sempre legati tra loro nella vita.
È a tutti noto, inoltre, quanto le condizioni fisiologiche e meteorologiche possano influire sul nostro umore. A ciò vanno aggiunti anche i condizionamenti che derivano da esperienze faticose o a volte anche molto dure, compiti particolarmente gravosi, esperienze di abbandono e di perdita, caratteristiche delle varie età, vicinanza di persone che infondono gioia e coraggio o, al contrario, avvelenano l’aria che dobbiamo respirare.
L’educazione religiosa e il primo incontro con Gesù
Anche le prime esperienze religiose hanno un’importanza decisiva nel creare le premesse per vivere la gioia nella vita. Dato che l’incontro con il Dio biblico si sostanzia essenzialmente di atteggiamenti di amore e di fiducia, di gioia di vivere (“Dio è amore”, è il “Dio della vita”), allora la prima educazione religiosa che riceviamo da bambini deve realizzarsi a certe condizioni. «È decisivo – si afferma nel Catechismo dei bambini – che questo primo incontro col nome di Gesù avvenga sotto il segno della vita e sia associato alla gioia e all’amore. Quando ciò avviene, tutti i successivi incontri saranno più facili, perché evocano una presenza di bene. Al contrario, se questo primo incontro avviene sotto il segno della paura e della morte o rimane associato alla tristezza di una minaccia e di un ricatto affettivo, viene compromessa ogni successiva apertura fiduciosa al mistero di Gesù. Anzi i bambini possono manifestare insofferenza e rigetto per qualsiasi discorso su Gesù o gesto di preghiera a cui vengono sollecitati».
Una cattiva educazione religiosa può contribuire, anche in modo incisivo e persistente, a complicare molto la vita di una persona e renderle difficile il vivere un incontro con Dio che sia fonte di pace e serenità. Ciò potrebbe avvenire, ad esempio, se si dovesse insistere in modo ossessivo su determinate pratiche ritualistiche o se si volesse far leva in modo eccessivo su sentimenti di colpa, dimenticando che il nome di Dio è misericordia. Non va poi dimenticato che, come avviene sempre con i bambini, l’incontro con ogni aspetto della realtà è mediato dal comportamento degli adulti: ciò vale anche per l’incontro con Dio. È ancora il Catechismo dei Bambini che lo ricorda: «Dio nessuno l’ha mai visto. Come può farsi conoscere dai bambini? Dio parla di sé attraverso le persone, i fatti, le cose. Dio è Amore e tutti i gesti di amore hanno radice in lui. L’incontro dei bambini con la tenerezza che Dio ha per tutte le creature avviene attraverso i gesti di bontà degli adulti.... Poiché l’esperienza di Dio è una parola d’amore, i bambini hanno bisogno di viverla subito con le prime persone che si occupano di loro... L’immagine di Dio-Amore si offusca e si deforma se il sorriso non è incoraggiato, se il pianto non è consolato».
Aldo Basso