Single non per scelta, celibi per caso
2017/12, p. 19
Che ne è del vissuto di fede di molti uomini e donne che
non si sposano né si consacrano? La loro voce non ha
corso nella pastorale ecclesiale. Domande e suggestioni
anche per la vita consacrata.
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Testimoni
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Un dibattito che non accenna a diminuire
SINGLE non per SCELTa
CELIBI PER CASO
Che ne è del vissuto di fede di molti uomini e donne che non si sposano né si consacrano? La loro voce non ha corso nella pastorale ecclesiale. Domande e suggestioni anche per la vita consacrata.
La Chiesa si sta impegnando a fondo sul tema familiare: due sinodi (2014 – 2015), una esortazione post-sinodale (Amoris laetitia) e un dibattito che non accenna a diminuire. Divorziati, divorziati risposati, coppie di fatto, omosessuali ecc.: ciascuno ha trovato un riferimento nel magistero recente. Di rilievo anche l’attenzione alla vita consacrata: dal sinodo (con la post-sinodale Vita consecrata) all’anno della vita religiosa (2014-2016), fino ai numerosi testi ed eventi della Congregazione per i religiosi. Sui celibi che sono tali non per scelta, non c’è parola. Anche solo per questo merita attenzione una pubblicazione del segretariato generale dell’episcopato francese: Celibati, celibatari. Quali prospettive nella Chiesa? La sorpresa ulteriore è che si tratta di una riedizione aggiornata. Pubblicato una prima volta in Documents Episcopat (n. 3, 2010; traduzione italiana in Regno-doc. 17,2010,579), viene ora riproposto e ampliato in Documents Episcopat n. 8, 2017. A testimonianza sia della qualità del testo originale (a firma di Claire Lesegretain, giornalista a La Croix e autrice di diverse opere nel merito), sia dell’urgenza del problema pastorale.
Appetiti dal mercato,
ignorati dalla Chiesa
I celibi non per scelta «hanno il dolore di vedere i loro amici sposarsi o consacrarsi, mentre essi restano sulla banchina aspettando un treno che non arriva e vivendo uno stato di vita che non hanno voluto». «È necessario riconoscere che le parole ecclesiali che li concernono sono povere, al limite inesistenti perché costantemente riferite alla preparazione di una vocazione più “positiva”».
Non tutto è rimasto fermo. Dal 2010 in Francia ci sono mediamente cinque o sei sessioni all’anno che diocesi, religiosi, nuove comunità o santuari dedicano loro, raccogliendo circa duemila celibi. Nel frattempo è profondamente cambiato il contesto sociale. All’anagrafe in Francia sono 16,8 milioni; 8,9 uomini, 7,9 donne. Erano 36,5% nel 2006. Dieci anni dopo sono 41,2%. Ma dal numero complessivo vanno tolti i preti, le religiose, le unioni di fatto, le unioni libere riconosciute, i divorziati con figli ecc. Allora il numero si riduce a 6 milioni.
Sono soggetti appetibili da parte del mercato (viaggi, incontri, prodotti), ma non vivono un senso di appartenenza. Essere single indica più incertezza che stabilità. Sono «visti» come consumatori, non come persone realizzate. Le attitudini che sembrano più direttamente connotarli sono: risentimenti dolorosi, bisogni di speranza, ricerca di fecondità.
In un contesto sociale fortemente erotizzato l’assenza di un partner o di figli favorisce l’avvilimento e la domanda circa la propria normalità. Vi sono nei loro confronti molte discriminazioni: dai pranzi a cui non sono invitati per mancanza di partner alla minor considerazione da parte dei genitori, dalla “normalità” del servizio di cura agli anziani alla domanda di ferie non per i periodi “canonici”. Per le donne, verso i 32-34 anni, l’orologio biologico allarma rispetto alla maternità. Per i maschi il tema della mancanza di figli diventa evidente verso i 40 anni. Assistiamo ad un paradosso: da un lato la scomparsa dei grandi modelli di riferimento di identità familiari e personali del passato, dall’altro la persistenza del matrimonio (quale che sia la forma che prende o la durata che implica) come «vita riuscita».
Storia sacra
per ognuno
Si sentono sottovalutati anche nella Chiesa e non capiscono come il loro stato si combini con l’insistenza sulla vocazione. Solo «relativizzando» l’immagine conduttrice e onnipresente dei due stati di vita (religioso e familiare) si può incominciare a «vedere» la loro presenza nelle assemblee cristiane. E scoprire, attraverso di loro, la liberazione del discepolo e discepola cristiani «dalla chiusura nella propria condizione, nel proprio stato o nel proprio modo di posizionarsi nella vita. Il che vale anche, diciamolo en passant, per le persone omosessuali (la cui condizione contingente è anch’essa liberata dal carattere di destino che può rivestire per qualcuno o qualcuna).
Condizione, stato e modo trovano allora la loro autentica consistenza umana, che disegna il configurarsi di una vocazione particolare, persino unica in ogni singolo caso. Di fatto per noi cristiani ogni essere umano è una storia sacra» (C. Theobald).1 Gli stati di vita più ampiamente riconosciuti nella Chiesa (matrimonio e vita consacrata) si fondano tutti sull’uguaglianza dei credenti nel comune battesimo. È il titolo battesimale il vero punto di riferimento per tutti.
Una prima risposta è quella di parlare positivamente del corpo, non come un nemico da piegare, ma come un dono da sviluppare. I gesti della tenerezza non si sovrappongono e non coincidono con le pulsioni sessuali. Se un tempo non lontano si predicava un esplicito disprezzo del corpo, ora risuona solo un assordante silenzio sui corpi, mentre la cultura ambientale ne enfatizza le dimensioni seduttive, atletiche ed estetiche. Manca ancora nella Chiesa un linguaggio tranquillo e benevolo sulla condizione corporea dell’essere umano. Non è necessario avere relazioni sessuali per vivere appieno la propria mascolinità o femminilità. La vocazione vale per tutti gli stati di vita, compreso il celibato non scelto: essa richiede la risposta all’appello verso la santità. I single cristiani aspettano dalla Chiesa un aiuto a vivere la loro condizione e la riconoscenza e l’amore non solo per i loro servizi, ma per quello che rappresentano. La difficoltà consiste nel proporre loro un cammino di vita «che non sembri essere un premio di consolazione, ma invece davvero un modo di condurre un’esistenza cristiana piena e felice» (J. M. Gueullette)
L’amicizia
è piena
La seconda attitudine è il sentimento di vivere nell’attesa, con una certa incapacità di prendere in mano la propria vita. Diventa più difficile per loro acquistare un appartamento, cambiare lavoro, trasferirsi altrove. Il futuro non è scandibile dall’attesa dei figli e da una vecchiaia accudita. La prospettiva di un incontro decisivo li espone ad errori e a diventare vittime di un mercato effimero. Soprattutto le donne sono non disponibili a una rapporto di amicizia che resti tale e che ha in sé la sua ragione. In positivo va sottolineato la loro ricerca di senso di vita e la loro domanda, spesso implicita, di speranza. Essi possono anche mostrare che il presente è comunque prezioso e può essere vissuto con e per Dio. «Sarà bene incoraggiarli a vivere delle sane relazioni di amicizia, senza seduzioni né gelosia, senza possesso né ricerca di esclusività». I «celibi di fatto» mostrano l’inconsistenza di collocare l’amicizia come semplice preambolo alla relazione amorosa. «La fiducia tranquilla, la reciprocità nell’asimmetria, lo svilupparsi di una relazione fra due persone che non formano mai un’unità come fa una coppia, un coinvolgimento dei corpi motivato dalla tenerezza e non dal desiderio, queste sono caratteristiche dell’amicizia. Il desiderio di unione dei corpi e delle vite, la ricerca inquieta dell’unità, che mal sopporta la separazione, la differenza, il costituirsi di una coppia, entità socialmente identificabile, sono caratteristiche della condizione amorosa». «L’amicizia può essere una relazione di grande profondità e di grande importanza nella vita di una persona, può rappresentare un elemento essenziale del suo sviluppo affettivo e perfino della sua vita spirituale. Dispiace molto che venga presentata assai di frequente come una semplice tappa dello sviluppo, propria dell’adolescenza e destinata a lasciare il posto alla sola relazione che sarebbe valida per un adulto, cioè la vita coniugale» (J.-M. Gueullette).
Battesimo
e dono di sé
Un terzo atteggiamento è la ricerca di fecondità. Il contesto sociale apprezza molto i valori infantili e giovanili come la creatività, la spontaneità, l’assenza di progetti e meno quelli adulti come l’autorità, la trasmissione del potere, il rispetto della parola data. L’avere figli sembra necessario per il passaggio dei valori. Per il celibe, che non conosce la sfida del figlio, diventa grande la tentazione di sostituire il preteso fallimento affettivo con il successo professionale. Esso non sarà comunque mai sufficiente per dare completezza a una persona. Sono inoltre pochi gli esempio di dominio pubblico e di ampia conoscenza ecclesiale che valorizzano i single (si può pensare a Frassati, a La Pira, a Schuman). In positivo va rimarcato che il dono di sé vale per il matrimonio, per la consacrazione e per il celibe allo stesso titolo e che la fecondità non si misura soltanto con il numero di figli, facendo piuttosto parte di una disponibilità interiore e dell’obbedienza a Dio. Non è necessario per i celibi una specifica pastorale, ma semmai qualche momento di approccio più calibrato (condivisione, preghiera, accompagnamento spirituale ecc.).
Vi sono anche tentativi di vita in comune, una sorta di beghinaggio maschile moderno. «Nel momento in cui i celibi si riconoscono come “poveri in spirito”, “perché di essi è il Regno dei cieli”, come bene indica la prima beatitudine, una delle due declinate al presente (Mt 5,3). I celibi possono quindi permettersi di chiedere molto al Padre, per loro e per gli altri. Da questa potente intercessione i celibi potranno essere invitati più audacemente a vivere nella compassione e a pregare con il mondo, in particolare con tutti coloro che soffrono di isolamento e di solitudine».
Il testo si conclude con tre verbi: accettare, prendersi cura, invitare. «Accettare di non avere l’ultima parola sul celibato significa uscire da categorie sposato-celibe, laico-consacrato. È aiutare i celibi non semplicemente a uscire dal loro celibato, ma a riconoscervi una grazia per il proprio presente, per entrare nel mistero del tempo attuale». «Il mondo e la Chiesa devono farsi interrogare dal crescente numero di celibi, che mostrano l’insuccesso del fantasma di una gestione della propria vita in quello che essa ha di più intimo. I numerosi celibi, esclusi dal “trovare l’amore” non potrebbero richiamare il fatto che l’uomo dipende fondamentalmente da Dio e che l’amore, come il resto, gli è stato donato?». «Prendersi cura dei celibi perché essi sono una ricchezza per la Chiesa. Prendersi cura è incoraggiare le parrocchie ad occuparsi di loro, ad accoglierli senza sospetti, a proporre loro più luoghi di condivisione, più occasioni forti». «Invitare a riflettere e lavorare sul senso del celibato non consacrato come figura per la Chiesa di oggi … Celibi consacrati e non consacrati hanno molto da dirsi».
Lorenzo Prezzi
1 Le citazioni di C. Theobald e J.-M. Gueullette sono tratte da un capitolo sui celibi del volume collettaneo, La famiglia tra sfide e prospettive, ed. Qiqajon, 2015.