Salvarani Brunetto
Il ruolo delle donne
2017/12, p. 6
La grande sfida che ci sta davanti è, una volta di più, quella di evitare una lettura delle differenze esistenti, anche profonde, come uno scontro tra il bene e il male, e di rifiutare la demonizzazione dell’altro.

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Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico
IL RUOLO
DELLE DONNE
La grande sfida che ci sta davanti è, una volta di più, quella di evitare una lettura delle differenze esistenti, anche profonde, come uno scontro tra il bene e il male, e di rifiutare la demonizzazione dell’altro.
Una considerazione, buttata lì, che ovviamente mi ha colpito. Quando, oltre quindici anni fa, ancora vivo negli occhi di tutti l’assalto terrorista di Al Qaeda alle Twin Towers l’11 settembre 2001, a un gruppetto di amici di cui faccio parte che già allora era impegnato sul versante del dialogo cristiano-islamico venne in mente che bisognava fare qualcosa, prevedendo facilmente i contraccolpi che ne sarebbero venuti alle relazioni fra mondo cristiano e mondo musulmano, sarebbe stato difficile immaginare che quella semplice trovata avrebbe ben presto preso piede, su scala nazionale. Tanto più che le giornate a tema, dedicate nel corso dell’anno a questo o quell’argomento specifico, sono ormai tantissime, e rischiano di diventare un appuntamento scontato, a forte rischio di deriva retorica (gli esempi in tal senso potrebbero essere parecchi).
Il ruolo delle donne
nel dialogo
Non è stato così, invece, per la Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico del 27 ottobre, oggi ancora in buona salute, per molti motivi. Che è stata dedicata quest’anno a una questione delicata e strategica, il ruolo delle donne nel dialogo interculturale e interreligioso. L’appello era stato lanciato il 21 luglio scorso, nel cuore di un’estate rovente, resa ancora più calda dai fatti di cronaca e dalle notizie che assecondano la psicosi dell’invasione e dell’islamizzazione del Paese. A sedici anni di distanza, vi si leggeva, la Giornata intende “continuare a essere un punto di riferimento per quanti vogliono farsi costruttori di pace e impegnarsi attivamente per fermare quella che papa Francesco ha definito la terza guerra mondiale a pezzi che si sta radicalizzando sempre di più”. Se essa ha saputo attraversare indenne questi anni bui, densi di paure e solitudini, di islamofobia e di chiusure mentali, non è soltanto per l’impegno di quanti ne hanno colto la portata cruciale, ma perché, in realtà, al dialogo non esiste alternativa. Il problema, piuttosto, riguarda cosa stia dietro questo termine e la sua praticabilità concreta, in un orizzonte di penose strumentalizzazioni politico-mediatiche e di ben scarso ascolto reciproco. La globalizzazione in atto, del resto, contrariamente a quanto ci si poteva ingenuamente aspettare, più che a un indebolimento delle identità (reali o immaginarie, o addirittura costruite ad arte), sta conducendo a un loro irrigidimento, che non coglie a sufficienza le potenzialità positive pur presenti nell’inedito incontro quotidiano di uomini e culture che sta avvenendo nelle nostre città e paesini, e tende invece ad enfatizzare diffidenze e timori. Beninteso, reciproci.
Per un primo bilancio (molte iniziative sono ancora in corso, o previste nei prossimi giorni), sul tema prescelto si è riflettuto e dibattuto con serietà, in diverse città, grandi e piccole: nella consapevolezza che sulla donna e sull’auspicio di poter rendere pubblico il suo originale pensiero sul mondo e sulla vita si giocherà una buona fetta del futuro di questo pianeta; ma altresì, nello specifico, una porzione imponente del domani di chiese, religioni e comunità di fede, e della loro spinta al dialogo.
Colpisce, in particolare, nei momenti di incontro organizzati da organismi diversi, il fatto che, più che parlare di donne e dialogo, siano state donne – spesso giovani e giovanissime – a parlare di dialogo, rendendo trasparente un protagonismo di cui poco si dice e a cui poco si dà voce. Eppure, già da anni leader di realtà consolidate quali i Giovani Musulmani Italiani (GMI), in genere sono ragazze.
Una ricorrenza
simbolica e reale
Questo appuntamento di dialogo, avviatosi in sordina ma pian piano radicatosi a macchia di leopardo in tutto il Paese, s’ispira al fatto che il 14 dicembre 2001, ultimo venerdì del mese di Ramadan del 1422 dall’Egira, Giovanni Paolo II chiese a tutti, donne e uomini di buona volontà, nel cuore della guerra in Afghanistan, di condividere con i fratelli e le sorelle dell’islam il digiuno di Ramadan. Messaggio coraggioso e di alta portata, inviato ad appena un trimestre da quel terribile 11 settembre che da tante parti fu letto come l’avvio di un autentico e irrimediabile scontro fra civiltà. Da allora quell’ultimo venerdì è divenuto, per molti cristiani di diverse confessioni e per parecchi musulmani in Italia, la ricorrenza simbolica in cui ritrovarsi, guardarsi in faccia e rilanciare così l’urgenza di provare a camminare assieme. Nonostante tutto! Un’iniziativa, fra l’altro, unica del genere in tutto il vecchio continente…
Dal 2008, invece di svolgersi l’ultimo venerdì di Ramadan, la Giornata è stata celebrata il 27 ottobre, in memoria dell’evento che nel 1986 vide riunirsi ad Assisi, convocati coraggiosamente da Giovanni Paolo II, numerosi rappresentanti delle religioni mondiali a pregare per la pace, dono di Dio. Da allora, per ragioni pratiche (la ricorrenza era mobile come il calendario islamico, e presto si sarebbe giunti in piena estate) la data rimane fissa, permettendoci di segnare in anticipo la ricorrenza nelle nostre agende.
Nel corso delle varie edizioni, con slogan appositamente ideati da un comitato promotore che ha non solo un cuore virtuale nel sito www.ildialogo.org, ma anche parecchie gambe locali, gli appuntamenti si sono via via moltiplicati. Con svariati protagonisti che, con semplicità, hanno deciso di salire sul carro impervio del dialogo: da amministrazioni locali a comunità parrocchiali, da chiese evangeliche a movimenti ecclesiali, da realtà carcerarie fino a tanti centri islamici e cani sciolti di buona volontà. Indizio, questo, una volta di più, che la differenza può farla solo l’iniziativa dal basso, quando è capace di rompere gli schemi delle persone rinserrate nelle rispettive appartenenze e di mettere a contatto donne e uomini (religiosi o non religiosi) che si ritrovano assieme per dire che non ne possono più di odio, dei piccoli razzismi quotidiani cui ci stiamo purtroppo abituando, e di religioni strumentalizzate al servizio dei potenti di turno. Tanto più rilevante in una stagione in cui i fondamentalismi continuano a impazzare, con gli appelli fanatici di cristiani a bruciare il Corano e di terroristi di marca jihadista a colpire (anche) le chiese cristiane…
Le cose stanno
cambiando
In questo scenario, è importante oggi, a fronte della propaganda diffusa e potente dei predicatori dello scontro di civiltà, di ambo le parti (tornati a soffiare le loro trombe in coincidenza dei ripetuti attacchi terroristici citati), sottolineare la molteplicità delle interrelazioni che la presenza islamica in Europa crea, produce e potenzia. Ci invitano a farlo, da tempo, autori – penso, un nome per tutti, a Stefano Allievi, sociologo dell’Università di Padova, che ne ha discusso in un corposo saggio dal titolo La presenza dell’islam nello spazio pubblico italiano: a che punto siamo? – (in P. NASO – B. SALVARANI, a cura, I ponti di Babele, EDB 2015) – i cui interventi sono preziosi per capire dove ci situiamo oggi. Al di là delle retoriche e delle banalizzazioni imperanti.
Gli effetti di feedback, in particolare, hanno un notevole effetto collaterale, che nasce come secondario ma si avvia a diventare di primaria importanza, anche e soprattutto dal punto di vista dell’Europa non musulmana: il fatto che, venendo messi in questione gli attuali equilibri centro/periferia all’interno della umma islamica, e facendo della periferia europea un nuovo centro, attraverso un significativo slittamento progressivo delle frontiere culturali, si può prevedere che l’Europa diventerà progressivamente una posta in gioco sempre più importante della geopolitica musulmana.
Nello stesso tempo la presenza di popolazioni islamiche in Europa, intrecciando nuovi legami tra i paesi in cui vivono (che rappresentano il loro orizzonte di insediamento) e i loro paesi d’origine (che non rappresentano solo il loro passato, ma anche un orizzonte di significato con una valenza attuale), può avere effetti benefici di lungo periodo anche per i vari paesi europei e per l’entità-Europa in quanto tale, che cominciano del resto a far vedere i loro effetti negli ambiti più diversi: nelle relazioni commerciali, economiche e finanziarie, ovviamente, ma anche in ambiti di interesse strategico come gli approvvigionamenti di energia, la cooperazione nel controllo delle migrazioni e la stessa difesa dal terrorismo islamico transnazionale.
Più in generale, questa nuova situazione, se pensata, accompagnata e guidata, può avere effetti di rilievo anche nello stabilire un sistema di relazioni internazionali più efficace e giusto, dare un contributo originale allo sviluppo stesso del dialogo interreligioso, e in definitiva contribuire al processo di costruzione della pace almeno in quest’area del mondo. Certo: se pensata, accompagnata e guidata. Ciò che oggi non si fa ancora; o perlomeno, si fa ancora troppo poco e male. Purtroppo.
I problemi ci sono, e vanno affrontati, senza pudori politically correct. E nominandoli esplicitamente: dai delitti d’onore ai matrimoni forzati, dai collateralismi rispetto all’antioccidentalismo (e, nei casi peggiori, al radicalismo e al terrorismo) a forme anche gravi di chiusura intracomunitaria, più grave per i soggetti più deboli (donne e minori), fino alla formazione delle leadership. Ma andrebbero affrontati costruttivamente e in collaborazione con le comunità. Non in opposizione e come frutto di una demonizzazione generalizzata che rischia di ottenere il risultato opposto a quello che si prefigge.
In punta di piedi
Ecco allora, tornando alla Giornata: la grande sfida che essa ci mette davanti è, una volta di più, quella di evitare una lettura delle differenze esistenti, anche profonde, come uno scontro tra il bene e il male, e di rifiutare la demonizzazione dell’altro. Nella consapevolezza che il rischio di farsi prendere dalla sfiducia, dalla stanchezza, dalle delusioni, è decisamente alto! Ovviamente, si tratta di dare corpo, nella quotidianità, alla pratica del dialogo, caso serio di questa stagione: soprattutto al dialogo di vita, realisticamente, più che a quello teologico, ancora quanto mai fragile. Educandoci, e educando le nostre comunità, le nostre città, quel che resta della vita sociale, al dialogo, attività che possiede una valenza certo spirituale, ma non solo. In una società pluralista come quella italiana di oggi, che sta rischiando – stando a non pochi indicatori – una deriva identitaria e/o apertamente razzista, un simile percorso ha infatti una valenza esplicitamente sociale, e può servire a costruire convivenza, solidarietà civile e senso di appartenenza.
Anche perché, dopo anni in cui è apparsa quasi impronunciabile, la parola dialogo sta finalmente tornando a risuonare con una certa frequenza nel dibattito pubblico e nella pubblicistica. Archiviato il ricorrente mantra sui pericoli del relativismo, è stato papa Francesco ad aver fornito un contributo essenziale a tale svolta, con una serie di gesti e di discorsi che fanno presagire l’inizio di una nuova stagione. Un passaggio notevole è stato il suo discorso in occasione dei cinquant’anni del Pontificio Istituto di Studi Arabi e Islamici (PISAI), prestigiosa struttura accademica che nel corso dei decenni ha formato decine di preti, laici e missionari preparati, in primo luogo, al dialogo con l’islam. Che “esige pazienza e umiltà – ha detto il papa, era il 24 gennaio 2015 – che accompagnano uno studio approfondito, poiché l'approssimazione e l'improvvisazione possono essere controproducenti o, addirittura, causa di disagio e imbarazzo… Forse mai come ora si avverte tale bisogno, perché l’antidoto più efficace contro ogni forma di violenza è l’educazione alla scoperta e all’accettazione della differenza come ricchezza e fecondità”. Nel frangente, Bergoglio è ricorso a un’immagine simbolicamente eloquente, che è legittimo applicare a quanto accaduto lo scorso 27 ottobre: “Al principio del dialogo c'è l’incontro, e ci si avvicina all’altro in punta di piedi, senza alzare la polvere che annebbia la vista”.
Brunetto Salvarani