Crea Giuseppe
Crisi e abbandoni nella VC
2017/11, p. 33
Dinanzi a tale entità occorre porsi degli interrogativi di senso: com’è possibile che quanti hanno accolto l’invito del Signore a consacrarsi ad un amore perfetto, abbandonino la loro vocazione? Quale prevenzione e quale orientamento?

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
L’emorragia delle vocazioni
CRISI E ABBANDONI
NELLA VC
Dinanzi a tale entità occorre porsi degli interrogativi di senso: com’è possibile che quanti hanno accolto l’invito del Signore a consacrarsi ad un amore perfetto, abbandonino la loro vocazione? Quale prevenzione e quale orientamento?
Il 1 febbraio di quest’anno mons. Carballo, segretario del dicastero vaticano, aveva rilanciato con preoccupazione l’allarme del Papa sull’emorragia delle vocazioni dalla chiesa. «Se il Papa parla di “emorragia” vuol dire che il problema è preoccupante – spiega Carballo –, non soltanto per il numero ma anche per l’età in cui si verificano, la grande parte tra i 30 e 50 anni. Le cifre degli abbandoni negli ultimi anni restano costanti».
Quello degli abbandoni nella vita consacrata è un fenomeno che sta acquisendo proporzioni non soltanto vistose ma soprattutto costanti, se ci riferiamo a come i numeri di quelli che lasciano siano progressivamente aumentati con il passare del tempo.
Se da un lato è vero che si tratta di una crescente realtà dalle molte sfaccettature, dall’altra è anche vero che tali decisioni suscitano domande di senso che possono essere motivo di riflessione e di cambiamento all’interno della chiesa: ma perché arrivano a tanto? Ma abbiamo fatto veramente abbastanza per loro? Domande alle quali non è certamente facile rispondere, ma dalle quali è urgente partire con sincerità e coraggio.
Quando i numeri
servono a capire
A volte i numeri di tale fenomeno sono davvero impietosi, perché mostrano una realtà che, nonostante i tentativi fatti per arginarla, continua ad avere un carattere vistoso. Basti pensare che negli ultimi tempi, e più specificamente nel 2015 e nel 2016, si sono avuti più di 2.300 abbandoni annui. Un numero enorme, che ha riguardato religiosi e religiose di vari paesi e di diverse età. Una emorragia che riguarda non solo le congregazioni di più antica tradizione ma anche gli istituti di vita attiva, o le fiorenti realtà ecclesiali nel sud del mondo, o i nuovi movimenti religiosi che avevano suscitato così tante attese.
Anche se, guardando ai numeri forniti dall’agenzia FIDES, la controtendenza riguarda soprattutto i sacerdoti e i religiosi/e che hanno lasciato nei contesti dell’America (-362), dell’Europa (-653) e dell’Oceania (-76). Il numero più considerevole di abbandoni lo si ritrova tra le religiose, dove c’è una tendenza alla diminuzione globale superiore rispetto all’anno precedente.
Dinanzi a tale entità è adeguato porsi degli interrogativi di senso: com’è possibile che quanti hanno accolto l’invito del Signore a consacrarsi ad un amore perfetto, abbandonino la loro vocazione? Non solo, ma poi come possiamo accettare l’idea che anche preti e suore arrivino a lasciare tutto per fare “altro” nella loro vita?
Eppure, se da una parte ci stiamo un po’ abituando all’idea che quella sacerdotale o di speciale consacrazione non sia una vocazione immune da fragilità e debolezze, dall’altra è difficile accettare che anche preti e suore possano essere “infedeli” alla loro chiamata, e che anche loro devono fare i conti con i dubbi e le incertezze dell’esistenza umana.
A sfatare il mito di una scelta vocazionale esente dal rischio di infedeltà e abbandoni concorrono anche gli studi empirici che già da tempo avevano messo in guardia contro un atteggiamento di “attesa speranzosa” dinanzi alle difficoltà che emergevano, evidenziando che non si tratta più di un fenomeno episodico o di qualche caso sporadico, ma bensì di una realtà che sottende un bisogno di rinnovamento profondo nel modo di intendere e di prospettare la vita consacrata.
Inoltre, molte storie di abbandono oggi riguardano non solo quanti hanno vissuto condizioni di crisi o di vera e propria patologia, ma anche persone che lasciano perché non hanno più un motivo per restare… Sono persone che non sanno più “come” e soprattutto “perché” vivere la radicalità della missione sacerdotale o di consacrazione religiosa, poiché hanno perso il significato esistenziale della loro scelta vocazionale. In questi casi l’emorragia di cui parla il papa assume un carattere ancor più pregnante se non drammatico.
Il vangelo ci insegna che se il sale perde il suo sapore, non serve più a nulla. Così per la vocazione: se la persona perde di vista il motivo fondante la sue scelte rischia non tanto di lasciare la vita consacrata e /o sacerdotale ma soprattutto di lasciarsi andare, che è ancora peggio. In termini psicologici può essere ancora più drammatico, poiché vorrebbe dire andare avanti senza più essere in grado di fare delle scelte, neanche quella di lasciare tutto e andar via per un’altra strada!
Tipologie
di abbandono
Ritornando alla questione dei numeri impietosi, occorre distinguere tre tipologie di abbandoni, che corrispondono a diverse angolature da cui osservare la stessa problematica. Seguendo gli studi empirici che da anni hanno esaminato le dinamiche sottostanti gli abbandoni nell’ambito del ministero sacerdotale e della vita consacrata nella chiesa cattolica e non solo, ci sono alcuni aspetti che sembrano ripresentarsi in lavori di indagine più recenti, e che presentano alcune caratteristiche comuni.
La prima tipologia riguarda la condizione di coloro che lasciano la vita consacrata e/o sacerdotale, e sono quelli che hanno deciso di andare via o sono stati sollecitati a farlo. Sono quelli per i quali è stato inoltrato un processo canonico di riduzione alla stato laicale, o che «per cause molto gravi ponderate davanti a Dio» chiedono periodi più o meno lunghi di esclaustrazione, per poi maturare la scelta di andare definitivamente via. In questo caso si tratta spesso di persone che nonostante i gravi motivi (e nel caso dei presbiteri, si tratta di “cause gravissime”), arrivano a fare delle scelte da cui non recedono.
La seconda tipologia è quella che riguarda le condizioni particolari di quanti continuano a vivere il sacerdozio o la loro consacrazione all’interno della propria congregazione, ma sono disorientati rispetto alle motivazioni della loro perseveranza all’interno dell’Istituto di appartenenza. Sono persone che in fondo perseverano… pur vivendo in modo precario o problematico alcuni aspetti di valore della loro scelta vocazionale: per esempio la preghiera, la vita fraterna, i sacramenti, ecc. Per cui si tratta di una perseveranza disseminata di molteplici infedeltà, che alla lunga compromettono le convinzioni (sulla fede, sull’affettività, sul carisma, sulla visione pastorale…) che inizialmente avevano animato il loro “sì” vocazionale.
Sono quelli che con il loro malessere fisico o psichico vivono una sorta di “esilio psicologico”, un «auto-esilio dalla comunità, dalla società, quelli che preferiscono essere popolo sradicato, senza radici». Una condizione di vita sempre più frequente anche tra le mura dei conventi o nei corridoi dei seminari, una vera e propria “malattia vocazionale” che «fa tanto male, toglie le radici, ci toglie l’appartenenza». Sono insomma quei religiosi e religiose fisicamente presenti, ma che hanno abbandonato da tempo l’istituto o il presbiterio perché si sentono “minacciati” nelle loro convinzioni vocazionali.
Infine, occorre ricordare anche quegli individui che sembrano essere di perenne conflitto e tensione: sono quanti rimangono prigionieri del disagio che essi stessi creano, e che «proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile». Sono quelli che non abbandonano mai, perché senza la loro “lotta ad oltranza” non saprebbero cosa fare nella vita! Sono talmente abituati ai “problemi di relazione interpersonale, incomprensioni, mancanza di dialogo e di autentica comunicazione, incapacità psichica a vivere le esigenze della vita fraterna in comunità, incapacità di risolvere i conflitti...”, che probabilmente non sono mai entrati effettivamente nell’ottica di una risposta vocazionale che richiede continua conversione. Quindi per loro non avrebbe senso uscire.
Processi di crescita
e abbandoni nella VC
Quale lezione trarre da tali osservazioni empiriche? Ogni tentativo di esaminare i fallimenti e gli abbandoni per trarne una lezione ci porta in una vicolo cieco, quando si enfatizza la dicotomia tra “noi” che restiamo e “loro” che se ne vanno. Infatti la separazione tra “noi” e “loro” non permette di essere reciprocamente influenzati né tantomeno di essere arricchiti da un processo di discernimento che comunque anima la chiesa ogniqualvolta deve prendere delle decisioni per i suoi membri. Al massimo si resta impotenti o frustrati, due condizioni psichiche che non attivano alcun cambiamento.
Pertanto c’è una responsabilità sociale che interpella tutti ad essere co-protagonisti nel cammino di discernimento, senza false giustificazioni ma prendendo sul serio le dinamiche disadattive che a volte si insinuano nel singolo individuo come nella vita comune, e che possono portare alcuni a decidere di andare via ed altri a continuare, pur restando nel dubbio di non aver fatto abbastanza per evitare certe partenze dolorose.
Gli interventi del magistero su questa responsabilità interpersonale sono fin troppo chiari nel sottolineare l’importanza di una formazione permanente che sappia educare il cuore anche dinanzi a decisioni difficili da prendere, come ricordava il pontefice ai superiori generali nel corso della loro assemblea generale: «Certamente, se nulla cambia, bisognerà trovare altre soluzioni, come il cambiare comunità o abbandonare la congregazione, ma tutto deve essere fatto con tenerezza».
Per questo occorre recuperare la valenza pedagogica dei tempi di difficoltà e di crisi, anche quando si prendono decisioni estreme, ritrovando il filo conduttore che unisce noi e loro in un comune cammino di purificazione e di discernimento che aiuti noi e loro a procedere nel cammino della vita, dove ciascuno è chiamato a dare delle risposte di senso congruenti con «il senso dell'alleanza che Dio per primo ha stabilito e non intende smentire». Tale cammino ci porta a considerare i fallimenti e gli abbandoni non solo come uno strappo insanabile o come una ferita lacerante, ma come una opportunità per integrare quelle scelte – pur se incomprensibili – in un comune processo di crescita.
“Ma in che modo? Come conciliare la misericordia, la comprensione e la fermezza?”, si chiedevano i Superiori Maggiori dell’USG alla presenza del papa, nel novembre 2013. Quando succede l’irreparabile degli abbandoni ma anche e soprattutto quando la fedeltà si fa più difficile, è allora che «bisogna offrire alla persona il sostegno di una maggior fiducia e di un più intenso amore, sia a livello personale che comunitario».
“Anche quando se ne va sbattendo la porta?”, si chiedeva un anziano padre maestro. Purtroppo sì, perché quando si è a contatto con queste condizioni di disagio e sofferenza, fare tutto con tenerezza ha una valenza profondamente pedagogica e trasformativa, in quanto permette di rivalutare quel compito educativo che accomuna l’intera comunità dei credenti nel cammino di conversione alla fedeltà all’azione di Dio, anche nelle situazioni più difficili.
Questo cambio di prospettiva obbligherebbe a ripensare continuamente alla vita religiosa, perché metterebbe in primo piano gli aspetti motivazionali presenti anche nelle condizioni di discernimento estremo. Ma soprattutto aiuta a prendere sul serio la sofferenza psichica non solo quando succede l’«irreparabile» ma anche nelle tante situazioni di disagio quotidiano, perché diventino delle preziose opportunità di formazione permanente e di discernimento comune.
Giuseppe Crea, mccj
Psicologo, psicoterapeuta