Olivero Ernesto
I poveri miei maestri
2017/10, p. 34
Ernesto Olivero ci racconta qui la sua straordinaria esperienza: come da un rudere è nato un sogno: l’Arsenale della Pace quale segno di speranza per la gente smarrita, la gente povera di tutto il mondo e come luogo per le donne e gli uomini di buona volontà, credenti e non credenti.

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
L’Arsenale della pace, un segno di speranza
I POVERI
MIEI MAESTRI
Ernesto Olivero ci racconta qui la sua straordinaria esperienza: come da un rudere è nato un sogno: l’Arsenale della Pace quale segno di speranza per la gente smarrita, la gente povera di tutto il mondo e come luogo per le donne e gli uomini di buona volontà, credenti e non credenti.
Quando nel 1983 siamo entrati nel vecchio arsenale militare di Torino, in quel rudere vedevo già l’Arsenale della Pace come un segno di speranza per la gente smarrita, la gente povera di tutto il mondo. Non lo vedevo come un luogo fatto solo per me, per i miei amici, per chi professava la mia stessa fede, un luogo chiuso, ma un luogo-segno per le donne e gli uomini di buona volontà, credenti e non credenti. Sentivo che in quel rudere sarei dovuto entrare sicuramente come Chiesa, ma anche a nome di tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Entrai così, a nome di tutti, con un sogno nel cuore: quell’Arsenale di Pace che vedevo già fatto sarebbe stato una casa sempre aperta, una casa accogliente, con qualcuno sempre pronto ad ascoltare, a fasciare, a consolare, a dare una carezza. A distanza di tanti anni posso dire con sincerità che mai avrei immaginato di vivere una storia così, mai avrei immaginato di incontrare la bellezza della vita, insieme a tragedie infinite.
Dal portone spalancato sulla piazza – quando ancora non avevamo iniziato a sistemare gli spazi – insieme ai carichi di mattoni, cemento e tegole, entravano donne e uomini dalle storie impossibili, invisibili agli occhi della gente, senza speranza.
Il primo è stato un detenuto. Scriveva dal carcere speciale di Palmi ed era un ex brigatista cresciuto a Torino. La sua lettera non andò smarrita perché avevamo un appuntamento pensato da Dio, ma rimase due giorni sepolta sotto la polvere del cortile prima che qualcuno la notasse e la raccogliesse. Non c’era buca delle lettere e la busta gialla aveva un indirizzo copiato dal giornale: Arsenale della Pace-Balôn-Torino. Nella lettera ci raccontava la sua storia e ci chiedeva, anche a nome dei suoi compagni, di poter dialogare con noi: “Nel 1971 ho fatto le mie scelte definitive, tutt’oggi valide per me quanto lo sono le complesse ragioni umane e sociali che le determinarono. Per capirci, non sono né un “pentito” né un “dissociato”, e anzi sono in uno dei carceri speciali pieni di cosiddetti “irriducibili”. Viene dunque spontaneo chiedersi: cos’è che mi spinge a cercare un dialogo con te e più in generale con ben determinate parti del mondo cattolico? Mi spingono, anche qui, molte e complesse ragioni, e non solo ragioni, che sono per me ovviamente più forti delle eventuali reciproche diffidenze. La prima è questa: non credo che nessuna fede, religione, o credo politico, abbia il monopolio della verità sui modi, i luoghi, i tempi e i percorsi della promozione dell’amore fra le persone umane. Credo invece che se questa pratica esiste con intensità (nel quotidiano esistere di chi dà ad essa valore) essa si fa riconoscere malgrado le differenze, spesso razionalmente incolmabili, dei rispettivi linguaggi”.
Quella lettera e l'incontro che ne è seguito ci hanno cambiato la vita. Prima di aprire la porta agli uomini del terrorismo che chiedevano di riconciliarsi con la società, abbiamo preso la decisione di fondo di non giudicare mai l’altro per il suo essere diverso, per l’aver sbagliato.
È stata la mia, la nostra palestra quotidiana per imparare il cuore misericordioso e compassionevole di Dio.
Anni dopo, nell’inverno del 1997, una sera ad uno dei nostri incontri di formazione si presentò tra gli altri un ragazzo che al termine di una mia riflessione prese la parola, puntò letteralmente il suo dito verso di me e disse: “Tu, Olivero, questa notte dove dormi?”. Raccontò di una Torino che non conoscevamo, di centinaia di magrebini che dormivano sulle auto alla periferia della città. Anche quello fu un incontro con Dio che ci cambiò la vita: aprimmo le nostre porte all’accoglienza prima di uomini, poi anche di donne, di mamme con bambini sfrattati, di un popolo di invisibili che vive ai margini della nostra società, nelle “periferie” che Papa Francesco ci ha dato come priorità.
Ma nell’aprire le porte di casa, ci accorgevamo che l’apertura più importante era quella del nostro cuore. Quando ti lasci toccare dal dolore dell’altro, quando non ti difendi da lui, ricevi la grazia della compassione e tu stesso sei toccato dalla misericordia che è dono di Dio. Mentre soccorri il povero fai esperienza di uscire da te stesso, dal tuo egoismo, prendere il largo dal proprio io, entrare in una formazione permanente, umana e spirituale che investe l’intera persona, la apre a nuove esperienze, attiva risorse che non sapeva di avere.
Quando si impara ad uscire da se stessi i confini della nostra vita si dilatano improvvisamente. Si è toccati dal singolo uomo ferito al bordo della strada, da soccorrere, da aiutare, da accompagnare, ma ci si lascia attraversare anche dai grandi problemi dell’umanità: fame, sottosviluppo, guerre, terrorismo, masse di profughi respinti, parcheggiati, annegati, dalle dipendenze, dalla disoccupazione, dallo sfruttamento. Tutto ci interpella, a 360 gradi. Non potremo fare tutto, ma essere partecipi di tutto sì. Soprattutto possiamo capire l’interdipendenza dei problemi, le connessioni e come al centro di ogni scelta ci sia sempre una persona che può decidere per il bene o per il male.
Il povero
ideale
Lo scorso inverno un signore distinto ci ha raccontato di un uomo che da anni vive sulla panchina, sotto il suo ufficio. Un soldino per la colazione, una coperta calda, una parola, l’invito sempre rifiutato di accompagnarlo in qualche centro di accoglienza e poi pian piano il racconto di quell’anima. Un uomo che aveva avuto una vita normale ma che non era più riuscito a tenere il passo con le difficoltà: perdita degli affetti, perdita del lavoro, perdita della casa… fino a decidere di non voler più dare disturbo a nessuno, e scendere nel limbo degli invisibili, come dimora la panchina di un viale alberato del centro di Torino.
Anno dopo anno, coperta dopo coperta, nel signore distinto cresceva la preoccupazione di un altro inverno al freddo e il timore di trovare un mattino quell’uomo morto sulla panchina. Dialoghi discreti e poi la comprensione di dover lasciare da parte la mentalità efficientista del tutto e subito per entrare nella mentalità di quell’uomo: “nei dormitori non ci vado perché ti rubano tutto, e poi di giorno mi occupano la panchina, poi ti obbligano all’igiene e tante altre cose. Io sto bene da solo!”. Alla fine un dialogo decisivo: “ma se trovassimo una stanzetta?”. A quel punto il signore distinto ci ha chiesto consiglio e insieme abbiamo trovato una stanzetta. Il signore distinto l’ha affittata e l’uomo della panchina ci ha passato l’inverno, contribuendo all’affitto con piccoli servizi di giardinaggio all’Arsenale. Fino alla decisione di restare in quella piccola casa e di prendere la residenza. A distanza di tempo il suo volontariato continua qui da noi come pure l’amicizia con il distinto signore che non si è mai girato dall’altra parte per non vedere ma ha accolto la diversità di una persona ferita e ha saputo aspettare tutto il tempo necessario a che tornasse a fidarsi del genere umano.
A volte, chi ha bisogno è insopportabile, nella stessa misura in cui può esserlo chi sta bene e non ha problemi. Ho capito da subito che se vogliamo essere autentici dobbiamo smetterla di idealizzare le persone. Ammettiamolo: nella nostra fantasia, il povero è un “giocattolo” da accudire di tanto in tanto; in qualche momento emotivo diciamo di voler spendere la vita per lui, perché pensiamo che non è giusto essere poveri. Ma quando tu lo conosci nella realtà, ti accorgi che a volte il povero ti disturba, è scostante, puzza, è maleducato; ti accorgi che, anche lui come te, pretende di mangiare ogni giorno, di dormire la notte in un letto, di vestire come te, di mandare i suoi figli a scuola. Vuole essere proprio una persona come te, come noi… E questo povero è diverso da quello dei nostri sogni!
Questo come tanti altri incontri mi ha insegnato che la chiave per incontrare le persone è vivere una regoletta molto semplice: “Se laltro sono io…”. Significa sentirsi interpellati continuamente dal volto che abbiamo davanti per rimanere attaccati al bene e costruire così un mondo davvero più giusto, più fraterno. “Se laltro sono io”, lo amerò, non lo giudicherò, lo avvolgerò di tutta la comprensione e la speranza che vorrei per me. Se fossi uno straniero, un carcerato, un uomo in fuga saprei bene che cosa vorrei. Vorrei calore, vorrei cure e scuola per i miei figli, vorrei la libertà di credere o di non credere, vorrei un lavoro onesto. Se fossi un uomo o una donna che hanno vissuto per il proprio corpo fino a cadere molto in basso, quasi perdendosi, saprei bene cosa vorrei. Vorrei solo risorgere e non incontrare il giudizio, ma uno sguardo che ama soltanto. Se fossi un giovane schiacciato da dipendenze infami, saprei benissimo che cosa vorrei. Vorrei una mano amica, un abbraccio sincero, una possibilità di riscatto. E gli esempi potrebbero continuare…
Padre Nostro
Per un cristiano la bussola può essere la preghiera del “Padre Nostro”. Un giorno recitandola andai davvero in crisi. L’avevo già pregata migliaia di volte, eppure mi bloccai proprio sulle prime due parole: Padre nostro. Mi sono sentito ipocrita, perché mi sono detto che noi uomini e donne, in realtà, non siamo fratelli e sorelle fra di noi. Recitavo il Padre Nostro con un grande conflitto con la mia coscienza fino a che, per bontà di Dio, ho capito che ogni parola del Vangelo è come un seme e ognuno di noi è la terra che lo accoglie. Se non accogli quella Parola, proprio come la terra il seme, non ci sarà frutto.
Dio mi stava dicendo: “Gli uomini e le donne non vivono come fratelli? Comincia tu. Accogli quel seme e lascialo crescere in te!”. Ho compreso così, in questa prospettiva, che tutte le parole sull’amore, sulla preghiera, lo stesso Padre Nostro, diventano per me come un sipario aperto sulle cose da vivere subito per renderle vere. Ho ricominciato a pregare con convinzione: “Padre nostro che sei nei Cieli”. E ogni volta mi domando: come posso vivere questa Parola? E così, poco a poco, capisco che posso pregare in modo coerente e testimoniare agli altri la paternità di Dio solo condividendo e restituendo il mio tempo, i miei soldi, la mia creatività, per metterli a servizio degli altri. Imparo sempre di più a sentirmi responsabile di un’umanità in cui, nonostante si continui a parlare di amore e di giustizia, i poveri sono sempre più poveri.
Ho capito che devo proporre continuamente a me e al mondo intero questa rivoluzione: ogni volta che parliamo di Dio come un Padre pieno di amore per i suoi figli, dobbiamo farci guardare in faccia, senza paura di essere smentiti, da quei figli – nostri fratelli e sorelle – che questo amore non lo conoscono. Non lo conoscono perché ancora non sono stati raggiunti dalla concretezza del mio amore, che è semplicemente risposta all’Amore di Dio.
Mi sono chiesto: come posso parlare di Dio, di amore per il prossimo, di contemplazione se non condivido il mio con chi non ha niente? Da qui è iniziata la mia vera rivoluzione, il mio cambiamento.
Padre nostro è: mi converto e amo gli altri come vorrei essere amato io.
Padre nostro è: ascolto come vorrei essere ascoltato io.
Padre nostro è: non giudico come non vorrei essere giudicato io.
Padre nostro è: vivere da fratelli e sorelle capaci di aprire il cuore e condividere ciò che siamo e ciò che abbiamo.
Ernesto Olivero