Arrighini Angelo
Fecondità della profezia
2017/1, p. 1
I superiori generali si sono confrontati sulla “fecondità della profezia” non solo “ad intra”, ma anche “ad extra” dei propri istituti, riservando una particolare attenzione al “pianeta giovani” del mondo di oggi. Un grande spazio lasciato alle esperienze.

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
Assemblea semestrale dei Superiori Generali
FECONDITÀ
DELLA PROFEZIA
I superiori generali si sono confrontati sulla “fecondità della profezia” non solo “ad intra”, ma anche “ad extra” dei propri istituti, riservando una particolare attenzione al “pianeta giovani” del mondo di oggi. Un grande spazio lasciato alle esperienze.
Erano circa 140 i superiori generali che si sono ritrovati per la loro assemblea semestrale di novembre, aperta il 23 al Salesianum e conclusa, nella mattinata del 25, nell’aula del Sinodo, con una nuova speciale udienza di papa Francesco. Molti tra i presenti ricordavano ancora il precedente incontro del 29 novembre 2013 quando il Papa aveva dato loro una speciale consegna: «Svegliate il mondo! Siate testimoni di un modo diverso di fare, di agire, di vivere! È possibile vivere diversamente in questo mondo».
Camminare a contatto
con la realtà
Aiutati dal Maestro generale dei domenicani, Bruno Cadoré, proprio ripartendo da questa consegna, i superiori generali si sono confrontati sulla “fecondità della profezia” non solo “ad intra”, ma anche “ad extra” dei propri istituti, riservando una particolare attenzione al “pianeta giovani” del mondo di oggi.
Una delle principali preoccupazioni di Cadoré è stata quella di portare i suoi interlocutori a camminare con i piedi per terra, a stretto contatto, cioè, con la realtà del mondo che li circonda. «Le nostre comunità sono attraversate e animate dalle stesse tensioni che segnano i mondi contemporanei». I mondi della gioventù sono sicuramente “paradigmatici” dei grandi mutamenti che stanno avvenendo nella realtà di oggi. È un fatto che le nuove generazioni che varcano le soglie di un istituto religioso o che orbitano in una delle tante realtà pastorali legate ai religiosi, «portano con sé le culture che tessono i loro mondi d’appartenenza». Di tanto in tanto ci si dovrebbe chiedere come avviene l’inserimento delle nuove generazioni nei vari istituti religiosi. Sarebbe facile accorgersi che «le possibilità e i rischi, i successi e i fallimenti, fanno probabilmente da eco a ciò che avviene nel mondo e nella Chiesa». Cadoré ha in qualche modo sintetizzato il senso del suo lungo intervento chiedendosi come gli istituti di vita consacrata, nella loro diversità, potrebbero mettere la loro esperienza specifica della vita cristiana al servizio di un rinnovo della missione evangelizzatrice della Chiesa. In altre parole, invece di parlare tanto della vita consacrata in sé (delle sue preoccupazioni, dei suoi dubbi riguardanti la sua identità o il suo riconoscimento, del suo attaccamento alla sua specificità), ci si dovrebbe più convintamente interrogare sulla «chiamata missionaria alla quale la Chiesa deve oggi rispondere». Solo in questo modo la Chiesa (tutta la Chiesa, dunque anche la vita consacrata stessa) potrebbe diventare ancora di più «quel testimone che è chiamata ad essere».
Tre testimonianze
dirette
Sulla “fecondità della profezia” ad intra sono state portate in aula tre testimonianze dirette, la prima del superiore generale dell’ordine carmelitano, Fernando Millán Romeral, la seconda del ministro generale dell’ordine dei frati minori, Michael Perry, la terza di Emili Turù, superiore generale dei fratelli maristi.
«Quando sono entrato nella vita religiosa, verso gli anni ’80, ha affermato Millán, la formazione permanente era un elemento fondamentale della nostra vita», un “vero boom”. E adesso? È sempre più difficile “liberare” persone che possano dedicare un tempo adeguato alla propria formazione. E se ne vedono facilmente tutte le conseguenze negative, come «la perdita di qualità nella nostra offerta pastorale, la mancanza di riflessione interna sulla vita dell’istituto, la routine, cioè il fare le cose semplicemente perché si sono fatte sempre così, senza la capacità di discernere e di valutare le nostre presenze con criteri seri», rischiando «l’atrofia di certe facoltà intellettuali, spirituali e carismatiche».
È un’esperienza sempre più diffusa, ha aggiunto Millán, quella degli ordini religiosi che hanno cercato di creare attorno a sé famiglie “armoniche e sensate”, «condividendo un carisma, una spiritualità e anche una missione, vissuti in modo diverso secondo la vocazione concreta di ciascuno: religioso, monaca, religiosa di vita attiva, laico».
Non sono mancate, per la verità, «occasioni in cui è stato necessario vincere resistenze clericali, incomprensioni e difficoltà». Ad alcuni è stato difficile accettare che «non siamo proprietari del carisma, che questo è un dono che si condivide e non una proprietà privata, che non si tratta tanto di formare “i laici”, ma di formarci e crescere con i laici». Non si tratta di stabilire “limiti canonici”, ma di «mantenere questa specificità e, quindi, la forza profetica delle diverse vocazioni o, volendo usare un linguaggio più classico, i diversi stati di vita». In altre parole, «il laico deve essere laico e non un imitatore di frati, deve vivere la gioia della laicità. Il religioso deve essere religioso e vivere radicalmente la sua vocazione concreta».
Un obiettivo del genere oggi deve inevitabilmente destreggiarsi tra due tendenze contrapposte: quella dell’eurocentrismo, da una parte, e quella dell’inculturazione del carisma dall’altra. Perché negare l’evidenza? «La demografia delle nostre congregazioni sta cambiando e, in non pochi casi, tra qualche anno, l’Europa non sarà la parte più numerosa dei nostri ordini e delle nostre congregazioni». Quando una famiglia religiosa «è incapace di “tradurre” il suo carisma e il suo vissuto in altre lingue, quando è incapace di “pensarsi” con stampi diversi, quando l’inculturazione si limita ad aspetti esterni (portare una stola corale o tradurre qualche canzone), allora qualcosa non va». Rischi e difficoltà non mancheranno di sicuro. Si tratta solo di muoversi «con prudenza, con intelligente assennatezza», consapevoli del fatto che questo è un compito sempre più “ineludibile”.
I frati minori
e lo scandalo economico
Introducendo la sua riflessione “tutt’altro che scontata” sulla fecondità della profezia ad intra, fr. Michael Perry, ministro generale dei frati minori, ha declinato, in breve, le generalità della sua famiglia religiosa: una tradizione lunga più di 800 anni alle spalle, con circa 13.000 membri, presenti in 116 Paesi. Entrando subito in medias res, una delle maggiori sfide che la leadership della Chiesa, compresa la leadership degli ordini e istituti religiosi, deve affrontare oggi, ha detto, è quella di venire a patti con un possibile “fallimento istituzionale”. Personalmente, ha confessato candidamente, poco tempo dopo la sua elezione a ministro generale, si è venuto a trovare di fronte a gravi scorrettezze nella gestione economica, con venti milioni di euro impiegati in strategie speculative fuori controllo. La tentazione del “protezionismo istituzionale” con la copertura delle malefatte, sacrificando «la propria dignità, identità e autenticità, come pure la chiamata ad essere una voce profetica di fronte al mondo», era forte. Ma da subito, alla logica del protezionismo è stata contrapposta un’altra logica, convinti che «la verità racchiude un potere intrinseco, forse nascosto», e che solo ricercando sinceramente la verità sarebbe stato possibile rivendicare la natura “autenticamente carismatica e profetica” della propria vocazione. Dopo lunga preghiera e dopo ampie riflessioni in consiglio (definitorio) generale, si è giunti alla decisione di rivolgersi direttamente alle competenti autorità italiane per avviare un’indagine accurata.
Due le preoccupazioni emerse da questa vicenda. Anzitutto, quali effetti potenzialmente negativi avrebbe potuto avere sulla vita dei frati questo scandalo economico? E poi, quale possibile calo, se non addirittura la perdita di rispetto e stima da parte dei fedeli, si sarebbero potuti verificare in Italia, in Europa e nel resto del mondo? «Il fatto di aver reso pubblico lo scandalo, ha detto Perry, in realtà, ci ha resi ancora più cari ai nostri benefattori e alle persone in generale». Mentre da una parte è stato intrapreso un processo canonico per verificare la condotta dei membri dell’ordine, dall’altra è stata messa in atto una serie di misure per assicurare una maggiore e più completa vigilanza economica.
Dal punto di vista dell’animazione, la crisi economica ha offerto l’occasione di verificare i valori fondamentali del carisma. La semplicità di vita e la vicinanza ai poveri e agli emarginati, sono ritornati ad essere i temi essenziali dell’identità carismatica francescana. La rilevanza delle difficoltà economiche dell’ordine, «ci ha costretti a venire a patti con il fatto che possiamo vivere con meno e possiamo anche vivere meglio e di più quando ci atteniamo alla nostra professione religiosa». Non è un caso, ha concluso Perry, se «dappertutto stanno cominciando a germogliare segni promettenti della logica della semplicità profetica di vita e dell’impegno verso i poveri e gli emarginati».
Le iniziative
dei maristi
Tra le iniziative messe in campo recentemente dai fratelli maristi, ha affermato il loro superiore generale, p. Turù al primo posto c’è il progetto LaValla200, dal luogo dove nacque la prima comunità marista (La Valla, Francia) duecento anni fa ed esattamente il 2 gennaio del 1817. Con questo nuovo progetto si vorrebbe imprimere una nuova accelerazione ad alcuni punti fermi già messi in cantiere da tempo. È il caso, ad esempio, della creazione di un minimo di 2 comunità internazionali (composte da almeno 4 membri, di cui almeno 3 fratelli) in ciascuna delle 6 regioni dell'istituto. La cornice di riferimento nell’elaborazione di queste nuove comunità è concretizzata nello slogan: “Mistici e profeti: un nuovo inizio”. Più che un piano strategico sviluppato dai maristi per il futuro, l'iniziativa LaValla200 vuol essere «una risposta profetica all'inatteso, un'azione dinamica dello Spirito che è portatrice di speranza, di riconciliazione e di pienezza». I maristi credono fermamente che lo Spirito li stia chiamando ad una nuova forma di vita cristiana nella Chiesa, vivendo la comunione «senza distinzioni rigide tra laici e religiosi, nel rispetto mutuo verso le diverse vocazioni, in un arricchimento reciproco, tutti corresponsabili della vita in comunità, chiamati ad una missione condivisa espressa dallo stesso carisma in modo rinnovato». Creare questa nuova forma di vita cristiana nella Chiesa, non sarà facile sicuramente. Ma proprio in vista di questo obiettivo i maristi sentono particolarmente rivolto a loro l’invito di papa Francesco a porre in atto «tutti i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno» (EG 25). «Credo, ha concluso Turù, che abbiamo bisogno di più coraggio e di una maggiore audacia per muoverci tra provvisorietà, sperimentazione e autenticità». Don Ciotti non si stanca di ripetere che si può morire “per eccesso di prudenza” e che perciò “bisogna rischiare”. Senza volerlo, forse, stava parlando anche ai maristi impegnati nel progetto LaValla200.
Il tema
dei giovani
In un’assemblea incentrata sulla “fecondità della profezia”, non si poteva non affrontare direttamente il tema dei giovani. Ne hanno direttamente parlato due ex superiori generali, ben noti un po’ a tutti i presenti: il salesiano don Pascual Chávez e il verbita p. Antonio Pernia.
«Il dato più evidente agli occhi di tutti, ha esordito Chávez, è che il cammino della scelta per la vita consacrata è sempre più in salita». Dopo aver tracciato il quadro generale del nuovo umanesimo, del rapporto tra giovani e religione nel mondo d’oggi, della visione che hanno oggi i giovani della vita consacrata (da una recente ricerca in Spagna, sarebbe all’ultimo posto delle loro preferenze come scelta di vita), si è soffermato su alcuni grandi “ambienti vitali” che hanno una forte incidenza sulla identità e la crescita dei giovani religiosi soprattutto dell’Europa occidentale: la società, la congregazione, la propria generazione. Anche se la scelta di entrare nella vita religiosa viene di solito rispettata, difficilmente è considerata oggi una scelta “preziosa e stimata”. Ben raramente suscita “invidia o ammirazione”. L’appoggio dei famigliari non è più garantito, quando non si trasforma addirittura in “aperta ostilità”. Come conciliare, allora, queste due realtà: da una parte l’incomprensione e l’opposizione sociale e dall’altra la gioia e il fascino della chiamata?
Una volta iniziato il cammino di vita consacrata, sempre più frequentemente un giovane oggi si trova di fronte al peso delle strutture e delle opere. «Senza un nuovo modo di gestire le opere, ha detto Chávez, senza il ridisegno delle presenze, senza il ridimensionamento dei fronti di impegno non c’è prospettiva di futuro, non c’è spazio per il nuovo, non c’è possibilità di assumere responsabilmente la missione, non c’è speranza per i giovani religiosi». I giovani sono sempre di meno, e su questi pochi si tende a caricare il peso dell’istituzione. Si tende a sottovalutare la loro fragilità che può sfociare «nelle uscite, non di rado inaspettate e clamorose, e nella necessità sempre crescente di ricorrere a terapie psicologiche». Altre volte, senza conoscere i giovani religiosi, «si mette in loro tutta la fiducia, ignorando la loro preparazione, identità, storia, capacità di tenuta, o viceversa non si crede affatto in loro». E dire che non mancano sicuramente giovani religiosi che «vogliono imparare la sequela di Cristo nella congregazione, con l’accompagnamento dei più anziani, e desiderano essere presi in considerazione quando si prendono decisioni che hanno a che vedere con il loro futuro».
Ma nel contesto dell’Europa occidentale, si è chiesto Chávez, esiste veramente nelle diverse congregazioni una “generazione” di giovani religiosi? La domanda ha una sua ragion d’essere quando si pensa che il quadro di valori di riferimento offerti dalla società è quello di una società consumistica, concentrata sulla propria realizzazione, sul trovarsi emozionalmente soddisfatti, sull’essere felici, sul successo immediato, sulla realizzazione dei propri desideri e progetti. Per questi giovani è difficile un cambiamento sostanziale di vita e una identificazione con i valori ultimi, quelli riguardanti il Signore Gesù e il suo vangelo. Da qui la difficoltà di accettare la croce, da qui «la svalutazione e il rifiuto, quasi viscerale, di tutto quanto possa far riferimento alla rinuncia e alla mortificazione».
Bastano anche solo questi pochi elementi per comprendere quanto sia importante, ben sapendo di “remare controcorrente”, la formazione alla rinuncia. Il giorno in cui ci si sentisse pienamente soddisfatti della propria vita nella convinzione personale che «non è vero quello in cui si crede», allora si potrebbe correre il rischio di «trasformare il carisma in una ONG».
Il segreto della vita consacrata, ha concluso Chávez, «non è mai stato la forza secondo i criteri del mondo, ma la inabitazione dello Spirito Santo». Anche oggi, comunque, non mancano giovani religiosi che «vengono da noi, per lo più mossi dalla fede o desiderosi di una profonda esperienza di Dio». Spesso «hanno dovuto superare molte resistenze sociali, culturali, famigliari. Sanno che saranno una generazione povera, a cui è chiesto di mantenere viva la fiamma della sequela di Cristo; e con la grazia di Dio lo faranno».
Le generazione
dei millennials
Anche Pernia ha iniziato il suo intervento sulla vita religiosa e i giovani interrogandosi su chi sono i giovani di oggi, ormai generalmente indicati come i “millennials” (i millenari), coloro, cioè, che erano adolescenti e giovani adulti all'arrivo del millennio. Si tratta di una generazione cresciuta con il computer, con internet, con il telefonino, con le reti sociali, con la realtà virtuale. «È questo il mondo in cui vivono, il mondo che plasma la loro coscienza, i loro valori e i loro atteggiamenti». Questa “generazione postmoderna” potrebbe essere definita meglio come la generazione dell’esperienza, della partecipazione, dell’immagine, della connessione.
Poste queste premesse, Pernia ha provato a chiedersi che cosa ci possa essere oggi di rilevante o irrilevante nella vita religiosa delle giovani generazioni. Ha risposto riprendendo i risultati di un questionario sottoposto ad alcuni giovani religiosi delle Filippine dove attualmente vive. Alla prima domanda su quali aspetti della vita religiosa oggi non sono più significativi per dei giovani religiosi, queste le risposte: la “fuga mundi” intesa come “negazione del mondo”, uno stile di vita “conventuale” che separa i religiosi dal resto della gente, specialmente dai poveri, dagli emarginati, da coloro che soffrono, un atteggiamento “elitario” che dà la impressione che la santità sia riservata ai religiosi e praticamente aldilà della portata della gente comune, una formazione religiosa avversa o che non tiene in considerazione l'uso della nuova tecnologia, cioè il computer, internet, il telefonino, le reti sociali, una formazione teologica il cui risultato è una teologia solo interna ai seminari e che non prepara i candidati ad impegnarsi attivamente nel mondo presente.
La controprova, in positivo, si è avuta alla domanda sugli aspetti ritenuti importanti per dei giovani religiosi: anzitutto la missione, sia come servizio ai poveri, agli emarginati, a coloro che soffrono, sia come missione “ad gentes”, poi i voti religiosi in termini, però, di testimonianza dell'esistenza di Dio, di valori spirituali in un mondo secolarizzato, di una vita semplice e onesta, di una vita di radicalità e di santità in un mondo materialista e superficiale, di vita comunitaria, di fraternità e solidarietà, di comunità non chiuse in se stesse, ma aperte alla solidarietà, di vita di preghiera fatta di equilibrio fra azione e contemplazione.
Nell’epoca dei “millenari”, anche la formazione dei giovani religiosi non potrà non essere esperienziale, partecipativa, basata nell'immagine e che fomenti la connettività. Ma non dovrà fermarsi a questo. In un mondo post-moderno come quello attuale, dovrà mettere l'accento sulla chiamata alla mistica e alla profezia. Ciò di cui il mondo di oggi ha veramente bisogno è di vedere «non il volto conosciuto e familiare di Dio, ma il suo volto insolito e misterioso, non il volto di Dio che ci rende compiaciuti e soddisfatti, ma il volto di Dio che ci sfida e ci disturba, non il volto solito di Dio, ma “l’altra faccia” di Dio». E questo volto è facile oggi incontrarlo in quello del povero, dello straniero, del rifugiato, del migrante, del profugo, della ragazza madre, del genitore solo, del malato di Aids, di colui che è alla ricerca della fede, del non credente, del non cristiano. La scelta dei poveri non è solo una strategia politica, ma, come ci ha ricordato papa Francesco, una “scelta preferenziale” fatta da Dio stesso. La stessa “nuova evangelizzazione” non è altro che una «ermeneutica della periferia, una prospettiva dei margini, un’ottica dei poveri, una visione dalla parte inferiore della storia». I consacrati, ha concluso Pernia, hanno oggi un ruolo indispensabile nella Chiesa: quello di aiutarla nel passaggio dalla “pastorale di conservazione” a una “pastorale missionaria” (EG 15), rivelando così “l’altra parte” della Chiesa: non la Chiesa in quanto istituzione burocratica, ma in quanto “ospedale da campo” dopo la battaglia, dove si bendano, si curano e si sanano le ferite dell’umanità».
Angelo Arrighini