Brevi dal mondo
2016/9, p. 36
Bangladesh, Emirati Arabi Uniti, Sri Lanka, Indonesia
BANGLADESH
Dove i missionari rischiano la vita
Sono una cinquantina tra religiosi, preti, suore e laici consacrati, i missionari italiani in Bangladesh: appartengono al Pontificio istituto missioni estere (Pime), all’Istituto dei missionari saveriani, alle suore dell’Immacolata e di Maria Bambina. Non mancano alcuni laici della Comunità Giovanni XXIII, anch’essi impegnati nel servizio pastorale e sociale.
Il loro campo primario di apostolato sono le parrocchie, ma molta parte delle attività è svolta nel settore dell’istruzione, scuole e collegi, nell’assistenza negli ospedali o nella promozione dello sviluppo socioeconomico delle popolazioni svantaggiate, come i tribali. Sono preziosi coadiutori del piccolo gregge della Chiesa locale, costituita da 300mila fedeli, lo 0,2%, su una popolazione al 90% musulmana.
I saveriani operano nell’ex Pakistan orientale – ora Bangladesh – dal 1952, quando presero il posto dei salesiani che scelsero di concentrarsi sul servizio pastorale nel Pakistan occidentale, dove sono tuttora. Durante la guerra per l’indipendenza del 1971 persero il sacerdote Mario Veronesi e, qualche anno dopo, anche Valeriano Cobbe, assassinato a Shimulia.
Circa la metà sono missionari del Pime: quella nel Golfo del Bengala è una delle missioni più antiche di questo Istituto che giunse nel subcontinente indiano nel 1855. Oggi è composta da 25 missionari, presenti in tre diocesi (Dacca, Dinajpur e Rajshashi) e impegnati a livello pastorale nelle parrocchie ma anche in opere educative e sociali come scuole, dispensari, ospedali. Alla periferia della megalopoli Dacca, in un’area ad alta concentrazione industriale, hanno avviato un Centro pastorale che accoglie operai e fornisce loro assistenza materiale e spirituale.Il terrorismo in Bangladesh è una minaccia reale da non sottovalutare per gli occidentali, compresi i missionari, come testimonia l’agguato al p. Pietro Parolari, del Pime, nel novembre 2015, e più ancora la strage del 2 luglio scorso, a Dacca, in cui furono trucidati anche nove italiani.
Ma come si è giunti a questo punto? Franco Cagnasso, missionario Pime, che cura da Dacca il blog «Schegge di bengala», spiega: «Da decenni i paesi del Golfo hanno messo in atto uno sforzo per rieducare i musulmani del Bangladesh, depurando l’islam locale da tradizioni e da commistioni con altre culture o con la modernità. Migliaia di madrase (scuole islamiche) hanno instillato nelle menti di milioni di ragazzi e giovani la visione di un islam duro e intollerante».
Vatican insider del 3 luglio scorso, citando sempre Franco Cagnasso, scrive che il governo di Sheikh Hasina, in questa situazione, «da un lato intende fermare i radicalismi che gli si oppongono politicamente e pretendono di introdurre le leggi della sharia; dall’altro, non vuole mettersi in contrasto con la grande maggioranza islamica, ancora tendenzialmente aperta». Questa ambiguità lascia aperte le porte ad ogni rischio.
EMIRATI ARABI UNITI
Come vivere da cristiani in Arabia
Negli Emirati Arabi Uniti – federazione di sette emirati riuniti in un’unica entità statuale, situata nel Golfo Arabico/Persico – i governanti e i media, ogni volta che si presenta un’occasione, manifestano con orgoglio di essere considerati un paese aperto e tollerante con le altre religioni. In effetti, non esiste area musulmana al mondo in cui, osservando certe condizioni, è possibile praticare la propria religione con una certa libertà. Ha parlato di questa situazione p. Olmes Milani, missionario scalabriniano che esercita il suo ministero a Dubai, in un breve servizio su Vidimus Dominum (29/06/2016).
Negli Emirati Arabi Uniti, ha affermato, sorgono 5.251 moschee sparse su un territorio relativamente piccolo di 83.600 chilometri quadrati. Ma ci sono anche una quantità di sale di preghiera nei centri, negli edifici commerciali e nei parchi che rafforzano ancora di più il clima musulmano del paese. In qualsiasi parte della città è possibile sentire le chiamate alla preghiera cinque volte al giorno, attraverso potenti sistemi di amplificazione.
Secondo il Research Center’s Religion & Public Life Project, negli Emirati, nel 2010, su quasi 10 milioni di abitanti, 77% sono musulmani, 10% cattolici, 4% indù, 2% buddisti e 7% appartenenti ad altre o a nessuna religione.
Le chiese cristiane sorgono in aree generosamente donate dai governanti di ciascun Emirato. Attualmente, in tutto il paese sono 8 i luoghi destinati alle chiese e ai templi. Ma tutte le attività relative al culto e all’insegnamento devono però essere svolte unicamente entro il perimetro degli edifici religiosi. Inoltre, le chiese non possono esibire croci o collocare dei segni sul tetto. Le costruzioni devono essere basse senza l’opulenza delle chiese cristiane di altri paesi.
Quasi tutti gli edifici di culto cattolici funzionano al limite della loro capienza. Oltre a utilizzare al massimo gli spazi interni, vengono erette anche delle grandi tende per riparare i presenti dal sole, e permettere così alla gente di partecipare alle funzioni religiose attraverso grandi schermi.
Siccome si tratta di un paese musulmano il cui giorno di festa è il venerdì, le attività religiose dei cristiani e delle religioni vengono compiute in questo giorno anziché la domenica. Per soddisfare il maggior numero di fedeli, vengono celebrate fino a 15 messe in 9 o più lingue. Il fatto curioso è che la liturgia domenicale viene celebrata nei tre giorni del venerdì, sabato e domenica.
Da parte degli stranieri e cittadini del luogo è obbligatorio rispettare l’islam. Bestemmiare o commettere sacrilegio contro qualsiasi religione è profondamente offensivo. Le trasgressioni a queste norme possono essere punite con la prigione o l’espulsione, come prevede la Costituzione. Inoltre il proselitismo finalizzato a convertire dei musulmani è proibito, anche se praticato in maniera inconsapevole. Nelle scuole pubbliche non è permesso l’insegnamento di qualsiasi religione che non sia l’islam. Bisogna anche fare attenzione a non esibire la propria fede pubblicamente esponendo, per esempio, dei rosari o adesivi religiosi nelle auto o indossando vestiti o accessori che rivelano la propria fede, come magliette con raffigurazioni di santi e crocifissi. Ciò è considerato proselitismo.
I cristiani, tuttavia, sono ben visti perché sono considerati Gente del Libro – un modo per dire che cristiani ed ebrei sono monoteisti.
SRI LANKA
Una laica, prima serva di Dio del Paese
La Chiesa dello Sri Lanka, dopo l’elevazione agli altari di padre Giuseppe Vaz, avvenuta il 14 gennaio 2015, potrà essere allietata da una nuova canonizzazione. La protagonista è una laica consacrata di nome Helena, originaria dalla parrocchia di Gonawila, nella diocesi di Chilaw.
L’annuncio è stato dato dal vescovo Valence Mendis agli altri vescovi e ai preti della sua diocesi, dopo aver ricevuto una lettera dalla Congregazione per le cause dei santi. L’Agenzia Fides, riportando le dichiarazioni di p. Fernando Chaminda, vicario generale di Chilaw, ha annunciato che il vescovo “ha creato una Commissione di nove membri e nominato un Postulatore per aprire la fase diocesana del processo di beatificazione". «Siamo molto felici – ha detto – e tra la gente c'è grande emozione e devozione per Helena, donna consacrata che ha messo Dio al primo posto ed è un esempio per le donne di oggi e per tutto il laicato nella Chiesa».
A metà agosto, la Chiesa locale ha celebrato una messa solenne di ringraziamento a Gonawila, luogo natale dove Helena era nata il 18 ottobre 1848. Era la più giovane di sette figli: quattro ragazzi e tre ragazze. Sin dalla prima comunione, aveva manifestato un grande desiderio di donarsi interamente a Gesù. Con un gruppo di altre donne entr�� in un Istituto secolare nella sua parrocchia, dedicandosi alla meditazione, alla preghiera e al servizio della Chiesa. Nel 1870, Dio le diede la grazia di partecipare alle sue sofferenze imprimendo sul suo corpo le stigmate. Morì all’età di 82 anni, l'8 febbraio 1931. I suoi resti mortali riposano nel cimitero di fronte alla chiesa di S. Giuseppe a Gonawila.
Lo Sri Lanka, soprannominato la “lacrima dell’India”, per la sua configurazione a forma di goccia, ha una popolazione di poco superiore ai 20 milioni di abitanti. Dal punto di vista religioso, è un paese a prevalenza buddhista (70%) ma dove gli indù rappresentano il 12-13%, i musulmani il 10% e i cristiani il 7%.
INDONESIA
Suore contro la corruzione
Anche in Indonesia, come in tanti altri paesi del mondo, il fenomeno della corruzione è molto diffuso e rischia di distruggere la vita pubblica del paese. La chiesa indonesiana da tempo è in prima linea nel cercare di contrastarlo. Tra le iniziative recenti intraprese è da segnalare il seminario di studio promosso, dal 12 al 14 luglio scorso, dalla Bhumisksara Foundation, in collaborazione con la Conferenza episcopale nella casa di riposo di St Lidwina, a Sukabumi, nella regione occidentale di Giava, a cui ha partecipato anche un gruppo di 36 suore francescane, guidate dalla superiora regionale sr. Marietta.
Come riferisce l’agenzia Asia News in un servizio del 23 luglio scorso, il seminario è stato inserito all’interno delle iniziative promosse dalle suore per il loro capitolo regionale, iniziato a febbraio e che si concluderà a settembre. L’obiettivo è di “rafforzare la moralità” tra le religiose e fornire loro nuove armi nella lotta contro la corruzione, un fenomeno che spesso si costata anche nella loro missione. Non sono infatti rari i casi di richieste di “favoritismi” o di offerte di “doni” da parte di genitori che chiedono trattamenti particolari per i loro figli.
Combattere la corruzione, è stato detto durante i tre giorni di incontro, non è facile, data la vastità del fenomeno. Per questo la lotta deve cominciare al proprio interno, con un richiamo alla moralità, alla coscienza, alla rinuncia ad ogni forma di malaffare e a pratiche immorali.
Di qui la proposta in quattro punti, elaborata dal p. gesuita Adisusanto: individuare il problema, analizzarlo sul piano sociale, riflettere e quindi agire secondo coscienza.
Da parte sua, sr. Zita, impegnata da tempo nel settore dell’istruzione a Sragen, nella regione centrale di Giava, ha dichiarato: «Contro la corruzione serve tolleranza zero» soprattutto per quanto concerne “l’apostolato” nel settore educativo dove «sono molte le sfide per quanti operano per il bene alla società».
a cura di Antonio Dall’Osto