Cozza Rino
Parole dal sapore nuovo
2016/9, p. 33
Spesso c’è poca vita nei nostri linguaggi, tanto ripetitivi, invadenti, quanto sempre più incapaci di parlarci davvero, tendenti a far sembrare vivo ciò che è morto. Si usano parole in discorsi che risuonano qualcosa di stanco, polveroso, inadeguato, e quindi ancora una volta impotente.
Per una vita consacrata più credibile
PAROLE
DAL SAPORE NUOVO
Spesso c’è poca vita nei nostri linguaggi, tanto ripetitivi, invadenti, quanto sempre più incapaci di parlarci davvero, tendenti a far sembrare vivo ciò che è morto. Si usano parole in discorsi che risuonano qualcosa di stanco, polveroso, inadeguato, e quindi ancora una volta impotente.
Simon Weil diceva che si può morire anche di fame di parole, perché le parole illuminanti e capaci di dare senso alle cose, sono necessarie quanto l’acqua di fonte e il pane quotidiano. Anche la vita religiosa, oggi, per non morire ha bisogno di parole nuove che sappiano cogliere e dare forma ai sogni che Cristo aveva – questa è la sua funzione – e che prendevano forma ove si palpa la fragilità dell’esistenza. Parole che in questo tempo di rivolgimento – direbbe J.F.Hölderlin – devono essere sperimentate come “venti” (ruah), respiri, brezze del mattino.
Da qui la domanda: sono così le parole dominanti nella vita religiosa, oppure c’è poca vita nei nostri linguaggi, tanto ripetitivi, invadenti, quanto sempre più incapaci di parlarci davvero, tendenti in tutti i modi a far sembrare vivo ciò che è morto; parole che danno corpo a «discorsi che risuonano un qualcosa di stanco, di polveroso, di inadeguato, e quindi ancora una volta impotente»?
La vita religiosa non potrebbe essere una immagine privilegiata di sequela, nel suo cammino verso Dio, senza prendere in considerazione tutte le dimensioni dell’esistenza, quali l’umanità, il sentimento, la passione, il desiderio, la fraternità, l’amicizia, la corporeità. Sono questi – ma non solo questi – gli aspetti della vita religiosa che hanno bisogno di essere detti con parole dal sapore nuovo per poter entusiasmare le persone nelle fasi migliori della loro vita e trasformare poi l’entusiasmo in progetti di esistenza, in grado di offrire considerevolmente di più, in termini di senso, di prospettiva e di speranza.
È ciò che le seguenti riflessioni intendono fare.
Umanità autentica – Che cosa distingue il cristianesimo rispetto alle altre religioni? Ciò che lo caratterizza è il suo “antropologismo teologico”, che porta a far intravedere che la volontà di Dio è legata al bene dell’uomo, vale a dire che non si dà amore di Dio che non sia amore dell’uomo. Non meraviglia allora che Gesù abbia talvolta omesso di osservare la legge quando era in gioco la salute, la dignità e la felicità delle persone. Tutto ciò viene a dire che non si può essere cristiani rinunciando in qualche misura a essere uomini o donne, e non si può essere in pienezza uomini o donne senza essere imitatori di colui che ha legato interamente se stesso alla vita degli uomini, di ogni singolo uomo.
L’esigenza di più piena umanizzazione sta ora emergendo come mai nei secoli scorsi prendendo le distanze da ciò che aliena dall'umano autentico, da ciò che lo mortifica, come predicato a lungo nella storia cristiana, sulla base di una mentalità sacrificale di tipo gnostico o platonico anziché autenticamente cristiana. Allora in particolare il ritratto vivo del consacrato dovrà essere il vivere colto nella gioia che traspare dal volto; una gioia che sia riserva di lieta notizia.
Oggi non c’è più nessun dispositivo capace di tenere assieme le persone al di fuori di forme comunitarie che siano nel contempo «sacramento di umanizzazione» attraverso cui «il divino e l’umano si abbracciano con ammirevole naturalezza», portando a essere persone serene che conoscono la gioia, la più vera, quella del cuore, leggera, che traspare dal viso e dai gesti; persone capaci di amare e di lasciarsi amare, contente di essere chi sono, dove sono e con chi sono.
Passione – Il mare della vita psichica di ogni persona non può essere privato di entrare in contatto con la vita. Vivere significa provare delle emozioni. Diversamente c’è languore, apatia, assenza di energia vitale. Sono i sentimenti, le passioni e le conseguenti emozioni il nutrimento della psiche, la sua energia. Gli ideali sono passioni. Questo vale per la religione come per la musica, l’arte, la letteratura, la politica. In un tempo di passioni tristi come l’attuale, la profezia della vita religiosa sta nel saper proporre “passioni gioiose”.
Qual è l’idea che i giovani – ma non solo loro – si sono formata della vita religiosa? Hanno spesso un’idea che è frutto di sedimentazioni, di immagini non certo pasquali che hanno segnato una storia millenaria. Raffigurando i santi, l’iconografia non ci regalava emozioni gioiose ma di afflizione; non i volti sorridenti ma le stimmate sembravano essere il suggello di una vita per Dio, frutto di una teologia che indicava come ideale l’offerta vittimale».
Desiderio – La passione ha come suo frutto il desiderio, «il solo in grado di umanizzare autenticamente la vita». Nel passato la fatica di vivere la vita religiosa è stata spesso rafforzata dal rifiuto dell’etica del desiderio umano, ritenuto come qualcosa che non c’entrasse con il Vangelo.
Eppure il Papa ha detto che senza desideri non si va da nessuna parte: sono «questi che allargano il cuore» e si fanno «inquietudine della ricerca di Dio». Nei desideri è possibile discernere la voce di Dio, infatti «vocazione» viene a dire qualcosa che a partire dalla verità profonda di sé viene percepito come ricerca di quanto lo porta il desiderio. È ancora la forza del desiderio che rende possibile la tensione della vocazione per un «per sempre».
Desiderare è dunque un agire appassionato che mobilitando l’energia dell’affezione riesce a vedere il non ancora: l’opera d’arte nel blocco di marmo.
● Corporeità – La spiritualità del Medioevo, ad eccezione di quella di s. Bonaventura, si nutriva di una concezione sostanzialmente negativa di ogni realtà umana, in particolare del corpo. Basta ricordare il successo dell’opera di papa Innocenzo III, «De contemptu mundi» (del disprezzo del mondo) in cui si legge: «Di che cosa è fatto l’uomo? formato dalla terra, concepito nella colpa, nato per patire, fa cose cattive, turpi, vane, per essere cibo del fuoco, esca dei vermi, massa di putredine. […] Il miglior uso del corpo è la sua repressione e mortificazione, fino alla fustigazione».
Si è dovuto aspettare la svolta rinascimentale per trovare una misura positiva della dignità umana. E poi ancora attendere quasi fino a dopo il concilio Vaticano II affinché anche la formazione seminariale incominciasse a essere attenta all’unità anima-corpo, riconoscendo spiritualità e sessualità non lontane e separate nella persona.
Oggi come potremmo pensare e vivere una vita consacrata che voglia fondarsi sulla negazione-repressione della creaturalità e dunque del corpo? Per crescere armoniosamente è irrinunciabile percepire il proprio corpo come un bene e non come un ostacolo, per cui non è possibile il misconoscimento del valore del corpo e della sessualità vale a dire di quell’ambito che investe la biologia, la psicologia, la cultura, e tutto quello che riguarda la crescita dell'individuo e coinvolge tutta la sua vita relazionale.
Fraternità – Termine che dice famiglia, l’unica capace di generare e di rigenerare la vita. È questo il progetto che sta all’origine di ogni carisma. Così erano, almeno tendenzialmente, le prime comunità cristiane. Poi, con il passare degli anni, e con l’intento di consegnare l’idea al futuro, i comportamenti si sono consolidati, formando le consuetudini, fino a fissarsi in “regole”, sempre più universali tendenti a evolversi, in linea generale, all’interno delle convinzioni e tradizioni acquisite. Ed è così che nel tempo la vita religiosa si è portata a essere struttura di tipo piramidale-gerarchica, al posto della iniziale comunità circolare. Questo processo, si chiama istituzionalizzazione. Si dice così quando l’ordinamento da mezzo tende a diventare fine, cioè quando non è trasparente che «il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato».
Tutte le istituzioni sono continuamente esposte a divenire qualcosa di organizzativo e amministrativo, strumento di possibile alienazione, anche e soprattutto perché l’istituzione è presa dall’organizzazione che per sua natura è portata a “servirsi” delle persone piuttosto che a “servirle”.
Agli inizi del monachesimo, (IV sec.) ad accorgersi della possibile deriva istituzionale, è stato san Basilio il quale quando si accorse che i monaci desumevano l’identità in riferimento al monastero (legame istituzionale), volle che i termini “monaco” e “monastero” fossero sostituiti dai termini “fratello” e “fraternità” indicando in questi non solo un dato irrinunciabile dell’essere Chiesa ma anche che il vivere da fratelli è l’unico modo capace di rendere soggetto le persone e non l’istituzione.
Lo stesso fece Francesco di Assisi, novecento anni dopo, con il non voler chiamare monastero ma convento il luogo dell’incontro, intendendo così dire che sia l’identità che l’unità di un gruppo (comunione fraterna), non sono dati da un elemento istituzionale, ma da un senso di appartenenza che passa attraverso i rapporti personali.
Qual è, oggi, la “salute” delle nostre comunità? Sono vissute come famiglia di Dio concepibile quale modello di relazioni fraterne tra persone, fatte di semplicità, mitezza, giovialità, volontà di servire, oppure il loro regime è prevalentemente istituzionale?
Negli Istituti in cui è in calo la capacità di dare spazio alla persona religiosa tutta intera, per fittizia compensazione sono in aumento, le pseudo-soluzioni attivistiche che generano la tipica illusione contemporanea del falso movimento, come lo definirebbe Peter Handke. Tutto sembra in movimento eppure se si ascoltano questi moti frenetici con una certa attenzione, ci si accorge che sono estremamente superficiali e che in realtà, poco al di sotto della crosta, tutto è invece spaventosamente fermo, bloccato, paralizzato.
Da qui, nelle nuove forme di vita evangelica, la spinta e voglia di essere “altro” rispetto alla vita religiosa.
Amicizia – Sul piano della vita relazionale – dice il Papa – la fraternità dovrebbe portare anche «a vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene». Evidentemente non quella di un club di mediocri in cui ci si chiude agli altri, ma quella che è un misto di fiducia, comunanza di interessi e di gusti, coincidenze di vedute, incremento del desiderio di solidarietà. È attraverso tutto questo che il religioso è trasparenza esemplare di una persona che vale quanto vale il suo cuore.
S. Teresa affermava che l’amicizia non è semplicemente un fatto sentimentale ma molto di più: è un fatto rivelativo, un luogo teologico. Infatti “amico” è un nome di Dio e l’amicizia rivela qualcosa di Gesù di Nazareth il quale ha avuto amicizie profonde, da strappargli lacrime tenerissime, come nel caso di Lazzaro.
Per poter guardare
con fecondità verso il futuro
La vita religiosa per essere trovata credibile e desiderabile deve trovare parole nuove nel preporre inediti schemi di vita non “sigillati”, aperti a Dio, al mondo, alla storia, ma per poterlo fare deve trovare innanzitutto un determinato linguaggio che dica la distanza da un certo stile, da un dogmatico quanto inattuale universo concettuale, per guardarsi dal rischio – espresso dal Papa in riferimento alla Chiesa – che «il suo edificio morale non diventi un castello di carte senza il profumo di vangelo».
Rino Cozza csj