Ferrari Gabriele
Non solo spettatori ma responsabili
2016/9, p. 18
Davanti all’attuale situazione del mondo, è possibile rimanere spettatori inerti? Quale deve essere il nostro atteggiamento cristiano soprattutto davanti alle tre grandi sfide che riguardano il nostro pianeta: globalizzazione della violenza, giustizia negata e crisi ambientale?
Di fronte al male nel mondo
NON SOLO SPETTATORI
MA RESPONSABILI
Davanti all’attuale situazione del mondo, è possibile rimanere spettatori inerti? Quale deve essere il nostro atteggiamento cristiano soprattutto davanti alle tre grandi sfide che riguardano il nostro pianeta: globalizzazione della violenza, giustizia negata e crisi ambientale?
Il mondo della comunicazione, che arriva ormai ovunque e che possiamo in un certo senso tenere in mano nel nostro smartphone, ci mette sotto gli occhi la realtà del mondo di oggi e in particolare le tre grandi sfide che riguardano il nostro pianeta: la globalizzazione della violenza, la giustizia negata e la crisi ambientale, tutte e tre cause della sofferenza dei nostri fratelli e sorelle. Esse sono ormai sotto i nostri occhi ogni giorno con il risultato che noi siamo diventati spettatori rassegnati alla loro presenza e quasi alla loro ineluttabilità. Due sono gli ambiti che ci interpellano: siamo solo spettatori o anche responsabili dell’attuale situazione? E che possiamo fare per mettervi rimedio?
I sentimenti d’impotenza si mescolano alla coscienza di dover fare qualche cosa. Una cosa tuttavia sentiamo urgente: non possiamo chiuderci nei nostri ambienti ovattati (penso in particolare a noi persone consacrate …) e far finta di niente affidando agli altri o, più spiritualisticamente, alla divina provvidenza la responsabilità di mettervi rimedio. Sappiamo di non aver in mano le leve che comandano questi fenomeni né i rimedi per sanarli, ma non è questa la ragione per disinteressarcene. Zygmunt Bauman già nel 2003 ha scritto un saggio sul “Il secolo degli spettatori, il dilemma globale della sofferenza umana” (EDB 2015) affermando che esiste un’affinità tra “chi fa il male” e “chi non si oppone al male”. È un rischio che ci riguarda tutti.
La responsabilità
degli spettatori
Siamo spettatori della sofferenza globale, ma troppo spesso diamo per scontato di non esserne responsabili e ce ne diamo una frettolosa assoluzione. Non abbiamo proprio nulla da fare? La soluzione o il rimedio della sofferenza non è in mano nostra, ma possiamo per questo non sentirne la responsabilità? Su questo si riflette ormai da molti anni. La lezione della Shoà è stata ormai recepita dalla coscienza comune e le parole di Hannah Arendt su questo tema sono una pietra miliare. E tuttavia rimane un’altra connessione di cui siamo poco coscienti, quella tra “sapere o vedere il male” e “non fare nulla”. Non basta un generico “non sapevo o non potevo immaginare” e “non potevo farci nulla” per sentirsi assolti. La sofferenza di chi è respinto e di chi muore per raggiungere la libertà non può lasciarci inerti, pur nella costernazione. Immagini come quella di Aylan, il bimbo siriano di tre anni trovato morto, lo scorso settembre, sulla spiaggia di Bodrum in Turchia, non ci permettono di dire “non sapevo” per scaricare la responsabilità personale di fronte al male che si è visto. Nilufer Demir, la fotoreporter che ha scattato quella foto che ha fatto il giro del mondo, ha dichiarato: «Aylan Kurdi giaceva senza vita a faccia in giù, tra la schiuma delle onde, nella sua t-shirt rossa e nei suoi pantaloncini blu scuro. L'unica cosa che potevo fare era adoperarmi perché il suo grido fosse sentito da tutti». È già un passo positivo nella responsabilità.
Le questioni
etiche
Essere dunque spettatori delle sofferenze del mondo solleva delle questioni etiche che ci chiamano in causa. Siamo spettatori, ma non solo, perché oggi (fatto nuovo della storia) siamo diventati, nostro malgrado, anche dei testimoni che hanno visto magari solo alla televisione e non ci è più permesso di eludere la domanda “che fare?”. Abbiamo anche noi una parte di responsabilità in quella sofferenza? Di solito ci assolviamo, dicendo che pur conoscendo il male, non siamo in grado di fare nulla per impedirlo. Una giustificazione molto fragile, perché la sofferenza inflitta ad altri esseri umani, indipendentemente dal nostro contributo diretto al male che soffrono, ci deve interpellare. Lévinas ricorda che non possiamo sottrarci al volto di chi soffre che, pur senza dircelo, ci “obbliga” a farcene carico. E Bauman afferma che, quando «comodamente seduti al sicuro nel soggiorno di casa nostra guardiamo da vicino persone morire a causa della carestia o della crudeltà degli altri», la nostra coscienza morale è «avvicinata e molestata, spronata, sfidata e sollecitata a reagire. Il problema, aggiunge Bauman, è che dal momento in cui la circolazione delle informazioni sulla nostra e altrui condizione diviene sempre più efficace, non si può dire altrettanto della nostra capacità di relazioni eticamente ispirate» (op. cit. p. 26).
Forse è sbagliato dire che gli uomini e le donne di oggi sono indifferenti di fronte alle sofferenze del mondo, cui – spesso senza saperlo – contribuiscono con le loro scelte quotidiane; si dovrebbe piuttosto dire che sono "costretti" a vedere una realtà che li disturba, mentre il vero problema, direbbe Hannah Arendt, è «riconoscere con paura e tremore il male incalcolabile di cui l'umanità è capace e combatterlo senza paura, senza compromessi, ovunque» (Essays in Understanding, New York 1994, 132).
Una responsabilità
che va oltre noi
C’è una seconda ragione per sentirci responsabili della situazione attuale. Non siamo solo testimoni delle sofferenze inflitte ai poveri del nostro mondo, dobbiamo anche renderci conto che le conseguenze del nostro stile di vita e delle nostre scelte personali e politiche avranno ripercussioni incalcolabili sulle generazioni future. Il futuro non è una realtà indeterminata, ma è fatto di persone concrete, dei bambini di oggi e dei futuri abitanti del pianeta. Hans Jonas, filosofo della responsabilità (1903-1993), ha formulato un importante principio di ecologia: «Agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la permanenza di un'autentica vita umana sulla terra». Un principio indiscutibile e impegnativo perché impone scelte preventive e costringe ad accettare limiti di sobrietà nello stile di vita ed è in sintonia con la parola di papa Francesco in Laudato si’ : «Le previsioni catastrofiche ormai non si possono più guardare con disprezzo e ironia (…) Il ritmo di consumo, di spreco e di alterazione dell'ambiente ha superato le possibilità del pianeta, in maniera tale che lo stile di vita attuale, essendo insostenibile, può sfociare solamente in catastrofi, come di fatto sta già avvenendo periodicamente in diverse regioni. L'attenuazione degli effetti dell'attuale squilibrio dipende da ciò che facciamo ora, soprattutto se pensiamo alla responsabilità che ci attribuiranno coloro che dovranno sopportare le peggiori conseguenze» (n. 161).
«Riconosciamo che non è spontaneo e ancor meno facile limitare i nostri desideri e accettare che siano le generazioni che ancora non esistono insieme, con i soggetti più fragili e meno ascoltati, a determinare le scelte pubbliche e private; altrettanto difficile è accettare i necessari processi di decrescita» (Laudato si’ 193). Gli stessi governi spesso non osano «irritare la popolazione con misure che possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio investimenti esteri. La miope costruzione del potere frena l'inserimento dell'agenda ambientale lungimirante all'interno dell'agenda pubblica dei governi (…) [dimenticando che] la grandezza politica si mostra quando, in momenti difficili, si opera sulla base di grandi principi e pensando al bene comune a lungo termine» (ib. 178).
E allora ?
Che cosa si deve fare?
Due sono gli aspetti della nostra responsabilità: farci carico delle sofferenze di cui siamo spettatori e operare delle scelte necessarie per tener conto del bene delle generazioni future. Solo in questo modo possiamo affrontare le sfide più urgenti a livello planetario: la globalizzazione della violenza, le ingiustizie sociali, la crisi ambientale, che rimangono oggi profondamente interconnesse tra di loro per due ragioni: in primo luogo perché le sfide sono radicate in quel medesimo paradigma economico tecnocratico che è fondato su principi che non tengono conto della persona e del bene comune e che il Papa ha vigorosamente denunciato in Laudato si’ (n. 106); in secondo luogo perché le sfide attuali manifestano le loro più catastrofiche conseguenze sui più deboli, sui poveri, vittime di un sistema che si sorregge su una divisione dell'umanità fra i pochi che hanno accesso alle risorse e godono dei diritti fondamentali, e i più, che vedono ogni giorno negata l'aspirazione a quella pienezza di vita che è un loro diritto.
Come possiamo rispondere alle responsabilità che vengono da queste grandi sfide che l'umanità ci pone di fronte? Se è vero come insegna Bonhoeffer che stare alla finestra a guardare e aspettare passivamente «non sono atteggiamenti cristiani», noi siamo sollecitati ad agire e a compatire non a partire dalle esperienze che facciamo sulla nostra pelle, ma «da quelle che fanno i fratelli, per amore dei quali Cristo ha sofferto» (Resistenza e resa, Cinisello B. 1994, p. 71).
La prima cosa da fare è smetterla di sognare che un giorno la sofferenza del mondo possa essere eliminata. Essa continuerà a interrogarci lasciandoci magari ancora senza risposte viabili: com’è possibile ridurre il dolore degli oppressi e ristabilire un minimo di giustizia? Come far terminare le guerre, dare voce e dignità a chi non ha voce, rimettere al centro le vittime? Come fare per rovesciare sistemi di potere iniquo che prosperano sulla sofferenza dei deboli, che affidano alle armi la loro sopravvivenza e la gestione del mondo, che arricchiscono pochi e affamano molti, che compromettono e calpestano i diritti delle generazioni future? La dimensione delle domande non deve scoraggiarci e indurci a rimanere passivi lasciando cadere l'impegno per la pace, la giustizia e la riconciliazione, rassegnandoci all’egemonia del più forte e alla dittatura del profitto.
La seconda cosa da fare è non cedere alla tentazione del cinismo che nutre le visioni pessimistiche della storia. Abbiamo a nostra disposizione oltre alle risorse spirituali della preghiera, del coraggio del bene e dell’unione, anche degli strumenti “politici” da non sottovalutare. Infine possiamo effettuare dei cambiamenti, piccoli o grandi, nel nostro stile di vita, nella gestione dei nostri beni, nella promozione di virtuose complicità con chi condivide le nostre posizioni: tutto ciò sono dei “segni” di quella speranza che vogliamo coltivare.
Infine dobbiamo ricordare una parola che Papa Francesco ha rivolto a coloro che obiettano che i nostri piccoli tentativi di cambiare la situazione attuale non sono efficaci: «Tali azioni diffondono un bene nella società che sempre produce frutti al di là di quanto si possa constatare, perché provocano in seno a questa terra un bene che tende sempre a diffondersi, a volte invisibilmente. Inoltre, l’esercizio di questi comportamenti ci restituisce il senso della nostra dignità, ci conduce a una maggiore profondità esistenziale, ci permette di sperimentare che vale la pena passare per questo mondo» (Laudato si’, 212).
Gabriele Ferrari s.x.<p> All’origine di quest’articolo c’è la lettura di un articolo di Alberto Conci, <i>Costruire vita fra i tanti ingranaggi di morte</i>, apparso in <i>Presbyteri</i> 2016, n. 3. <p/>
All’origine di quest’articolo c’è la lettura di un articolo di Alberto Conci, Costruire vita fra i tanti ingranaggi di morte, apparso in Presbyteri 2016, n. 3.