Dalpiaz Giovanni
Giovani, Chiesa, vocazioni
2016/7, p. 43
A partire dagli anni dell’immediato postconcilio è scontato, quando si parla di vocazioni al sacerdozio o alla vita consacrata, aggiungere che esse sono in crisi, intendendo con ciò che sono in diminuzione. Ma è davvero così?

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Tentativo di lettura dell’attuale crisi vocazionale
GIOVANI,
CHIESA, VOCAZIONI
A partire dagli anni dell'immediato postconcilio è scontato, quando si parla di vocazioni al sacerdozio o alla vita consacrata, aggiungere che esse sono in crisi, intendendo con ciò che sono in diminuzione. Ma è davvero così?
Per dare una risposta bisogna anzitutto intendersi su che cosa sia la "crisi" di cui si parla. Crisi è un momento di discontinuità nella vita sociale, un passaggio che segna una differenza marcata tra un prima e un dopo. Per cogliere l'emergere di una "crisi" è necessario prendere in considerazione periodi di tempo piuttosto ampi. Nel caso delle vocazioni in Italia abbiamo i dati sufficientemente attendibili, in quanto rilevati durante i censimenti decennali, a partire dal 1871. Il quadro che essi delineano (Tab. 1 e grafico1) è più movimentato di quanto una facile idealizzazione del passato possa far immaginare.
Tab.1 Variazione nel tasso di crescita dei religiosi, delle religiose, clero diocesano nel periodo 1871-2011. Valori %
1871/81
1881/01
1901/11
1911/21
1921/31
1931/51
1951/61
1961/71
1971/81
1981/91
1991/01
2001/11
Rel.i
-21,5
+8,4
-17,3
+13,4
+62,9
+102,5
+10,7
+9,4
0.0
-15,9
-8,3
-14,0
Rel.e
-5,2
+42,9
+13,3
+57,1
+62,9
+28,5
+5,7
+1,6
-7,9
-11,8
-11,8
-19,6
Clero
-15,6
-18,8
-2,5
-17,1
-7,7
-11,1
-1,6
-6,2
-6,4
-5,2
-3,4
-10,1
Nell’arco di 140 anni si osserva come la dinamica vocazionale non sia stata omogenea. Il clero risulta in costante diminuzione. La vita religiosa invece dopo la crisi della soppressione al momento della unificazione del Paese ha conosciuto, a partire dalla fine dell’ottocento, una crescita costante, che per il mondo femminile si è tradotta in una vivace espansione almeno fino agli anni settanta del novecento. È da allora che si riscontra una netta inversione di tendenza, che sembra penalizzare proprio le realtà che nei decenni precedenti avevano conosciuto un maggior consolidamento vocazionale: le religiose (-19,6% nel periodo 2001-2011) e i religiosi (-14,0%, sempre per lo stesso arco temporale).
Un calo facile a spiegarsi: le nuove vocazioni non compensano la diminuzione dovuta per la gran parte alla mortalità degli anziani e, in misura minore, alle richieste di lasciare il sacerdozio o essere dispensati dai voti. Mentre in molte diocesi, in particolare al centro-sud, da sempre ci si trova a dover fare i conti con scarsità di clero, non così per la vita religiosa. Gli Istituti che nei decenni tra il 1920 e il 1970 durante la fase di crescita vocazionale avevano realizzato molteplici presenze territoriali (comunità, scuole, opere assistenziali, eccetera) ora, nel volgere di pochi anni, si trovano a dover cambiare radicalmente prospettiva. Dalla espansione alla contrazione, dalla fondazione alla chiusura, dalla crescita alla riduzione. L’adattamento alla nuova situazione risulta particolarmente difficile in quanto sfuggono le ragioni e l’estensione del cambiamento. Nella interpretazione delle trasformazioni si oscilla tra il pensare (o sperare) che sia solo una fase congiunturale, come altre ve ne sono state nella storia, e quindi tra qualche tempo riprenderà il flusso di nuove vocazioni e l’intuizione che il panorama spirituale delinea uno scenario del tutto nuovo, una svolta nella sensibilità religiosa destinata a durare a lungo. La concomitanza con il rinnovamento sollecitato dal Vaticano II porta alcuni a collegamenti superficiali: l’aggiornamento conciliare avrebbe dissolto la saldezza e forza della testimonianza allentando i legami comunitari a favore di una deriva verso il soggettivismo, l’individualismo, l’attivismo. In realtà la crisi vocazionale era già percepibile con gli anni cinquanta (Tab. 1) quando si rallenta il tasso di crescita del personale ecclesiastico e si intreccia con cambiamenti che trasformano la fisionomia sociale e religiosa dell’Italia.
Andamento demografico
e secolarizzazione
Anzitutto vi è un profondo mutamento nella dinamica demografica: le famiglie hanno meno figli e lo stato realizza un percorso pubblico di formazione scolastica, di qui la minor propensione a considerare la consacrazione religiosa (o clericale) come una possibile scelta di vita e il diminuito interesse ad utilizzare i seminari o le scuole apostoliche come canale formativo. Ne viene quindi una diffusa diminuzione dei potenziali candidati all’interno dei quali poi si realizzava il discernimento vocazionale. Il calo numerico mettendo in crisi dapprima i seminari minori, poi di conseguenza anche quelli maggiori, fa sì che si inceppi il sistema di individuazione e formazione del personale ecclesiastico a partire dal modo di intendere la vocazione come “seme” da riconoscere e coltivare in un ambiente protetto: un vivaio, appunto un “seminarium”. La vocazione diviene scelta dell’adulto (è il tempo delle “vocazioni adulte” e dei rispettivi seminari) e come tale espressione di maturità, libertà, consapevolezza.
Un secondo fattore che influisce sulla disponibilità a riconoscere ed accogliere una vocazione al servizio e alla testimonianza evangelica in ambito ecclesiale è l’affermarsi di una visione secolarizzata dell’esistenza. In una società che elabora le proprie istituzioni "come se Dio non ci fosse", la religione diviene opzione certamente legittima, ma personale. Non sta più al centro e al fondamento del patto sociale, ma diviene scelta del tutto individuale, esprimendo non più un “noi” sociale bensì la singolarità di un “io”. La Chiesa e le istituzioni che in essa operano si trovano di fronte non a un rifiuto ostile, ma piuttosto a una indiretta messa in discussione della loro legittimità. La dimensione istituzionale della religione ha senso in quanto realizza, governa e garantisce la relazione con Dio, ma nella cultura sociale contemporanea si guarda a Dio all’interno di un irrisolto dubbio sulla sua effettiva esistenza. Ne viene che il “credere in Dio” non si associa più (o si identifica sempre meno) con l’idea di certezza, di assolutezza al di là di ogni dubbio. È piuttosto un credere probabilistico, leggero, incerto così come ben si coglie tra le generazioni più giovani.
Quando ad un ventenne/trentenne si chiede se egli crede in Dio la risposta è, nella maggioranza dei casi, affermativa ma con specificazioni del tipo: “probabilmente è così”, “mi piacerebbe che fosse così”, “certe volte penso che sia così” che relativizzano e limitano la “certezza”. Un Dio comunque percepito come buono, misericordioso nel senso di comprensivo verso il male e il peccato, che è possibile conoscere e incontrare nell’intimità di se stessi, nella meditazione/preghiera personale, nella contemplazione del creato senza bisogno di particolari mediazioni. Ne viene una identità e sensibilità religiosa poco interessata alle appartenenze ecclesiali, avvertite spesso come superflue, non necessarie per conseguire una autonoma e personale relazione con il sacro, con Dio. Un quadro nel quale l’erodersi della saldezza del credere si accompagna all’indebolirsi del senso di appartenenza ecclesiale e a un generalizzato declino delle pratiche rituali pubbliche.
Inoltre la Chiesa è percepita anzitutto come istituzione, realtà empiricamente conosciuta o attraverso i mass media o per esperienza diretta; debole, se non assente, è la comprensione della dimensione sacramentale, misterica, spirituale. Emerge una gamma di rappresentazioni che vanno dalla critica di chi nella istituzione ecclesiale vede un potere opaco, poco trasparente, colluso e disonesto nella gestione delle risorse finanziare, fino all’occhio benevolo di chi apprezza i servizi assistenziali e formativi che trova nelle parrocchie, nei centri caritas, nelle opere educative gestiste dagli Istituti religiosi, ecc. Così anche quando il giudizio sulla Chiesa è positivo ciò riguarda il suo “fare” ignorando (o ritenendo irrilevanti) le motivazioni teologiche ed evangeliche sottese all’agire.
Sul fronte del magistero poi se da un lato si riconosce l’opportunità di una autorità morale che indichi a partire dal Vangelo come ancora oggi siano attuali gli insegnamenti di Gesù e quali siano i principi fondanti il corretto agire umano, contestualmente si critica una normatività troppo invasiva, severa e arcigna nei suoi precetti, poco rispettosa dell’autonomia personale. Questa difficoltà a riconoscere e comprendere l’identità della Chiesa emerge con peculiare intensità a livello giovanile. In una recente inchiesta sulla religiosità nel Triveneto mettendo a confronto la percezione di Dio e della Chiesa per quanto riguarda vicinanza/lontananza, indulgenza/severità, conforto disagio emerge come tra i ventenni (Tab.2) la relazione con Dio sia molto più “calda” e positiva di quella che invece si realizza con la Chiesa.
Tab. 2 Percezione di Dio e della Chiesa nei giovani tra i 18-29 anni. Valori %.
vicino/a
distante
indulgente
severo/a
conforto
disagio
Dio
40,3
59,7
77,1
22,9
86,7
13,3
Chiesa
28,1
71,9
40,5
59,5
43,9
56,1
Sorge a questo punto spontanea una domanda: perché un giovane dovrebbe cercare la “mediazione” o l’appartenenza ad una Chiesa severa e distante per giungere a un Dio più vicino, buono e accogliente?
Un ulteriore segnale della divaricazione tra credere e appartenere la si coglie nella convinzione, in crescita tra le nuove generazioni, che si possa pienamente giungere a Dio senza passare attraverso la mediazione sacramentale della Chiesa. Il 54,6% dei giovani triveneti tra i 18 e 24 anni condivide l’affermazione che “non c’è bisogno di preti e della Chiesa, in quanto ognuno può intendersela da solo con Dio”, una posizione condivisa dal 44,7% di quanti hanno 25-29 anni e solo dal 37,6% fra i trentenni. È come se la velocità del distacco si venisse ad accelerare tra i più giovani.
Dal punto di vista vocazionale l’allentarsi del legame tra credere in Dio e appartenere alla Chiesa porta certamente ad un minor interesse per un impegno di servizio ecclesiale in particolare lì dove esso si caratterizza in termini di mediazione liturgico-sacramentale e questo a prescindere dal fatto che abbia carattere di definitività o sia temporaneo, richieda l’obbligo del celibato o possa essere realizzato da spostato. Diversa invece la disponibilità a prendere in considerazione la vocazione come testimonianza di carità, impegno di solidale condivisone della povertà, attiva partecipazione ad iniziative di promozione sociale. È il riconoscimento del volto positivo della dimensione istituzionale della Chiesa, apprezzamento per la utilità e bontà sociale dei servizi che essa offre.
Cambiamenti interni
al campo ecclesiale
A delineare l’attuale fisionomia della questione vocazione vi è infine anche una serie di cambiamenti interni al campo ecclesiale. Se nel passato vocazione indicava di fatto la fisionomia ecclesiale del prete, del religioso, della religiosa, in una prospettiva di “perfezione” come piena, totale adesione all’insegnamento evangelico, già a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso, e poi in maniera più netta dal Concilio Vaticano II in poi, il concetto conosce un progressivo dilatarsi dapprima agli Istituti secolari, poi ai battezzati in quanto tali: “Tutti i fedeli cristiani, di qualsiasi stato o ordine, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità.” (Lumen Gentium, 40).
Se dal punto di vista teologico è corretto richiamare la fondamentale uguaglianza di tutti i battezzati rispetto alla “perfezione” evangelica è anche vero che una pluralità di “vocazioni”, tutte in se stesse autentiche a sequela del Signore, viene a moltiplicare il ventaglio delle opzioni possibili. Se precedentemente la scelta era tra impegno in ambito diocesano e/o vita consacrata, ora il ventaglio si amplia: diaconato permanente, eremitismo e/o monachesimo diocesano, fraternità e/o associazionismo laicale. Un panorama che potrebbe ulteriormente allargarsi se si ponesse attenzione anche alle scelte di vita, intese come totalità ed esclusività dell’impegno, proposte dai movimenti ecclesiali, strutture assai flessibili dal punto di vista organizzativo e nello stesso tempo caratterizzate da una forte identità spirituale e di appartenenza.
Questo allargarsi delle possibili scelte di impegno vocazionale “forte” è andato di pari passo con il restringersi, in particolare a livello giovanile, dell’area di coloro che hanno un vivo e robusto senso di appartenenza ecclesiale. Quindi se da un lato si restringe l’area dei cristiani che vivono con impegno la loro adesione ecclesiale, per altro aspetto si amplia l’orizzonte vocazionale. Difficile quindi che per tutti vi siano energie sufficienti per crescere in maniera significativa.
Manca un’attendibile documentazione, in particolare quantitativa, sulle nuove forme ed esperienze vocazionali e quindi non è possibile delineare né raffronti né un quadro significativo delle tendenze in atto. Da quel (poco) che si conosce emerge anzitutto il prevalere del “piccolo”: piccole comunità, quando non realtà di tipo eremitico, e nel caso di istituzionalizzazione una dimensione che si assesta intorno ai 50/100 membri. Nello stesso tempo sono esperienze con una forte appartenenza territoriale (frequentemente diocesana), una marcata fisionomia spirituale, legata in diversi casi alla figura del “fondatore/fondatrice”, la fierezza di essere minoranza marcando la separatezza (nel vestito, nell’abitazione, nello stile di vita, ecc.).
Potremmo riassumere l’insieme delle osservazioni fin qui svolte dicendo che si amplia e diversifica l’“offerta” vocazionale mentre si restringe la potenziale “domanda” (leggi: interesse per un impegno di servizio ecclesiale).
Quale risposta
tra i giovani praticanti?
Si è già detto come la freddezza con la quale le giovani generazioni si relazionano con l’ipotesi di un forte impegno ecclesiale non sia che un aspetto del disinteresse e della diffidenza verso la dimensione istituzionale della religione.
Ci si potrebbe tuttavia attendere una maggiore disponibilità a riflettere sull’ipotesi di vocazione in quei giovani che vivono il loro essere cattolici nella consapevolezza che la fede va congiunta alla coerenza della testimonianza. Sono quanti non si limitano ad una regolare pratica del precetto festivo, ma coltivano una frequente preghiera, partecipano alle attività della comunità parrocchiale, o del movimento ecclesiale cui si riferiscono, e hanno un atteggiamento di ascolto e accoglienza del magistero. Spesso alle spalle troviamo una famiglia che si è attivamente coinvolta nella formazione religiosa dei propri membri e una realtà parrocchiale che ne ha sostenuto e rafforzato l’impegno educativo. Dal punto di vista numerico sono una minoranza, indicativamente intorno al 10% di coloro che si dichiarano cristiani, ma proprio l’impegno che pongono a ridurre la distanza tra adesione di fede e comportamento (rituale – etico – relazionale) fa di essi una risorsa qualitativamente molto importante per la presenza ecclesiale. Potremmo dire che essi sono “i vicini”, quelli che ordinariamente incontriamo negli oratori e nei gruppi giovanili.
Quando ad un campione di queste persone che conoscono dall’interno la realtà ecclesiale si è posta la domanda di quale sarebbe stata la reazione di fronte ad un amico/a qualora costui avesse manifestato l’intenzione di entrare in un Istituto religioso, il 23% ha manifestato un atteggiamento di piena adesione, di appoggio, il 75% si è collocato su di una linea di partecipata indifferenza tra stupore e incredulità (26%) per una scelta del tutto imprevista, e che quindi risulta per il soggetto del tutto estranea al suo modo di pensare l’appartenenza ecclesiale, e rispetto (49%) per la decisione di colui che comunque rimane amico.
Nella realtà esistenziale dei giovani, anche di quelli “vicini” e partecipi dell’ambiente ecclesiale, c’è poco spazio per una ipotesi di vocazione presbiterale e/o religiosa.
Dietro c’è una rappresentazione della scelta vocazionale nella quale gli ostacoli sono di gran lunga superiori alle ricadute positive. Fa difficoltà anzitutto il non potersi sposare (62%) poi viene il venirsi a trovare in condizioni esistenziali caratterizzate da solitudine relazionale (46%) e la definitività (46%) della scelta. C’è una evidente ritrosia a riconoscersi in una ipotesi vocazionale “classica”, mentre se si pensa a una partecipazione ecclesiale la si ipotizza, come già evidenziato, piuttosto nel volontariato, nella flessibilità dell’impegno, nella reversibilità delle scelte, limitando al massimo lacci e laccioli giuridici e vincoli istituzionali.
È all’interno di questa realtà sociale, culturale ed ecclesiale dalle molte sfaccettature che vanno posti gli interrogativi sull’andamento delle vocazioni al sacerdozio, alla vita consacrata e, per quel poco che si conosce al diaconato permanente; con l’avvertenza che in realtà il quadro vocazionale è più ampio. Mancano infatti dati sulla consistenza delle nuove comunità, sulle associazioni pubbliche e private di fedeli, sull’eremitismo diocesano, sull’ordo virginum, sul servizio ministeriale e di testimonianza della carità nei movimenti, cioè sulle modalità di realizzare la vocazione all’interno della istruzione ecclesiale dopo il Vaticano II.
Analisi e commento
di alcuni dati
Il dato che emerge osservando l’andamento dei seminaristi diocesani, religiosi/religiose di voti semplici (Tab. 3) è di un brusco calo tra il 1970 ed il 1975 (-47,0% di seminaristi e -28,4% tra i religiosi) delineando effettivamente uno scenario di “crisi”, con un proseguo fino al 1980 (-15,9% di seminaristi e -19,1% di religiosi), poi si ha un ventennio di stabilizzazione e dal 2000 si rimanifesta una tendenza al calo (tra il 2000 e il 2005 si ha un -11,3% di seminaristi, -4,9% di religiosi e -15,7% di religiose).
Tab. 3 Seminaristi diocesani, religiosi studenti di filosofia/teologia e religiose con voti temporanei dal 1970 al 2014.
1970
1975
1980
1985
1990
1995
2000
2005
2010
2014
Seminaristi
6337
3357
2823
3075
3588
3710
3653
3240
2940
2753
Religiosi
3890
2786
2253
2589
2559
2546
2780
2644
2716
2885
Religiose
n.r.
n.r.
n.r.
3096
4071
4309
4595
3875
3184
2636
Fonte: Annuarium Statisticum Ecclesiae, Roma, Vaticana.
Nota: I seminaristi (maggiori) diocesani erano nel 1951: 8.823 e nel 1961: 8.831.
Per una corretta comprensione della documentazione statistica va tenuto presente che tra i religiosi di voti temporanei una quota stimabile intorno al 30% è costituta da persone di nazionalità non italiana (mancano dati attendibili per le religiose dove da sondaggi parziali la quota di straniere tra le giovani è sul 40% e per i seminaristi, per i quali si attesterebbe sul 20% ). Un quadro comunque nel suo insieme positivo, in particolare se lo paragoniamo con la situazione negli altri paesi europei. Un quarto dei seminaristi europei è in Italia, come lo è il 40% dei religiosi e delle religiose di voti temporanei.
La “crisi” non sta, almeno al momento attuale, nella assenza di vocazioni anche se negli ultimi anni si coglie la dinamica verso un ulteriore calo, il vero nodo che sta davanti alla Chiesa è la pratica impossibilità di mantenere l’odierna modalità di presenza sul territorio. Questo perché le vocazioni sono numericamente inadeguate a garantire il ricambio generazionale.
La risposta delle diocesi e degli Istituti religiosi a tale stato di cose è stata cercata su due versanti: da un lato “importare” vocazioni da paesi (prima Polonia ed Est Europa, ora Africa ed Asia) dove esse sono relativamente abbondanti e, dall’altro, realizzare parziali innovazioni che però non cambiano la fisionomia del modello attuale (unità pastorali, accorpamento dei conventi, dismissione parziale di opere, ecc.). Sono due linee di azione “tattiche” che vengono incontro all’immediato, alla necessità di fronteggiare le emergenze, ma non delineano una strategia, una visione d’insieme. Se, come è probabile, proseguirà (o si accentuerà) la scarsa propensione dei giovani ad accogliere l’ipotesi di un impegno ecclesiale come prete e/o consacrato, ciò confermerà l’ampiezza della trasformazione in atto nella sensibilità religiosa e nello stesso tempo renderà evidente come le comunità ecclesiali non siano interessate (o capaci) a sostenere dall’interno la continuità del servizio ministeriale e sacramentale così come esso oggi si configura.
Nella diminuita disponibilità a confrontarsi con l’ipotesi di una vocazione al servizio ecclesiale non c’è solo il riflesso di un soggettivo distanziamento dalla istituzione Chiesa. Non va dimenticato che la consapevolezza e l’accoglienza della vocazione ad un ministero ordinato o alla consacrazione religiosa la vocazione ha bisogno, ordinariamente, di un contesto familiare e comunitario che sia di sostegno e incoraggiamento. La vocazione religiosa o presbiterale oggi ha perso molto dell’appeal, non solo sociale, ma anche spirituale che aveva in passato. Questo lo si riscontra anzitutto nelle famiglie che non sognano per i figli una “professione” ecclesiastica e quando si trovano a confrontarsi con la scelta vocazionale finiscono con l’accettarla (o subirla?), ma raramente la accompagnano con incoraggiamento, appoggio, solidale condivisione. Di qui quell’ “insufficienza” vocazionale che si allarga anno dopo anno e solo parzialmente potrà essere compensata incrementando l’accoglienza di ecclesiastici che vengono dall’estero. L’esperienza di questi anni ha evidenziato problemi di accettazione dovuti a differenze di cultura, di tradizione spirituale, di comprensione delle peculiarità regionali. Inoltre un clero per la gran parte straniero di fatto comunica l’immagine di una Chiesa non più vitalmente radicata nella storia della società italiana accentuando ulteriormente le dinamiche di allontanamento di chi “crede senza appartenere”.
Il diaconato permanente
e la risorsa dei laici
Una presenza territoriale che di necessità non potrà più essere gestita in toto da clero e religiosi/religiose implica un profondo ripensamento nella organizzazione delle comunità ecclesiali con l’emergere di una differente articolazione dei ministeri e un maggior coinvolgimento del laicato.
È una trasformazione che domanda alla Chiesa italiana non solo progettualità ossia realistica visione di un futuro possibile, ma anche capacità di individuare risorse umane per attuare il cambiamento. Da questo punto di vista vi sono potenzialità che finora sono state poco apprezzate. Mi riferisco specificamente a due realtà: l’incremento negli ultimi quarant’anni del diaconato permanente (Tab. 4), in particolare in ambito diocesano, e la crescita di un laicato teologicamente colto.
Tab. 4 Diaconi permanenti diocesani e religiosi temporanei dal 1970 al 2014.
1970
1975
1980
1985
1990
1995
2000
2005
2010
2014
Diocesani
n.r
40
160
430
949
1581
2371
3124
3819
4276
Religiosi
n.r.
51
50
62
51
80
68
90
93
93
Totale
9
91
210
492
1000
1661
2439
3214
3912
4369
I diaconi non hanno ancora nella realtà ecclesiale italiana una fisionomia, una visibilità in termini di operatività e ruoli pur essendo il paese europeo che ne ha il maggior numero (il 30%). A questo basso profilo ha concorso finora anche la marginalità con la quale si realizza la loro presenza nelle parrocchie. Solo il 7% svolge un servizio a tempo pieno, i rimanenti hanno lavoro o professione che lascia spazio solo al part time. A limitare le possibilità e gli ambiti dell’impegno pastorale concorrono anche un’età media piuttosto alta (59 anni) e la presenza del legame familiare (il 97% è sposato) fattori che di fatto facilitano più il servizio liturgico, anziché la catechesi, la carità, la gestione amministrativa.
Molto differenziata da diocesi a diocesi è la qualità della loro formazione teologica; si va dalla laurea in teologia a specifici e limitati corsi di formazione teologico-pastorali. Nell’insieme una presenza finora scarsamente valorizzata, ma che potrebbe benissimo evolvere verso una maggior responsabilizzazione.
Vi è poi la risorsa del laicato e specificamente di quelle persone che accogliendo la lezione del Vaticano II si sono impegnate ad acquisire una buona formazione teologica, creando anzitutto i presupposti per una qualificazione della catechesi e poi dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole dove il corpo docenti è costituito per il 90% da laici. Mancano dati su quanti siano i laici in possesso di una laurea in Scienze religiose, ma, a partire dal dato sui docenti di IRC, è ragionevole stimare che siano intorno ai 24.000/25.000. Una presenza diffusa sul territorio (attualmente sono 83 gli Istituti di Scienze Religiose frequentati da oltre 9.000 studenti), che fatica però a trovare una sua specifica espressione in ambito ecclesiale.
Un travaglio
destinato a durare
Il declino del modello di organizzazione che ha segnato la presenza ecclesiale nella società italiana degli ultimi secoli non è indolore, il travaglio di questi anni ce lo attesta e con ogni probabilità ci accompagnerà per un bel po’. Il rapido cambiamento nella sensibilità religiosa, in particolare tra i giovani e le donne, con l’emergere di un credere molto soggettivo e l’allentarsi dei legami con l’istituzione ecclesiale ha preso in contropiede chi ipotizzava un’Italia religiosamente diversa del resto d’Europa, meno esposta al vento della secolarizzazione, più salda nelle sue radici popolari, più robusta nei legami di appartenenza ecclesiale. Il calo e l’invecchiamento del personale religioso è solo la punta più facilmente visibile di un declino che non è solo numerico ma anche di credibilità, di elaborazione propositiva, di intelligenza della realtà sociale e culturale. Questo indebolirsi della capacità di comprendere e governare il cambiamento della domanda religiosa nella società italiana dice come al di là della retorica auto-celebrativa non sia scontata la capacità dell’istituzione ecclesiale di rinnovare in profondità le modalità dell’annuncio evangelico superando quel centralismo clericale che stancamente declina per mancanza di vocazioni, ma che comunque rimane rassicurante proprio per la sua immobilità.
Giovanni Dalpiaz osb
gdp947@gmail.com