Biemmi Enzo
I gruppi linguistici
2016/7, p. 8
Il lavoro dei gruppi ha fatto emergere una grande varietà di problemi che segnalano la complessità di questa dimensione della vita religiosa, rispetto alla quale ci sentiamo poco preparati. Nel tentativo di fare sintesi dei molteplici dati emersi, possiamo riassumere in quattro parole le convinzioni che sono state condivise: trasparenza, comunicazione e corresponsabilità, vigilanza, solidarietà.
I gruppi linguistici
Il lavoro dei gruppi ha fatto emergere una grande varietà di problemi che segnalano la complessità di questa dimensione della vita religiosa, rispetto alla quale ci sentiamo poco preparati. Nel tentativo di fare sintesi dei molteplici dati emersi, possiamo riassumere in quattro parole le convinzioni che sono state condivise.
a) Trasparenza
I gruppi insistono sulla necessità di imparare a vivere la trasparenza e a rendere conto della gestione economica fin dall’inizio della vita religiosa. Questo favorisce una mentalità di apertura e di sincerità. La trasparenza richiede necessariamente l’intercomunicazione tra i differenti membri di una Congregazione e i rispettivi Consigli (generali, provinciali, locali). Anche la valorizzazione e la competenza delle diverse commissioni economiche favorisce la correttezza nella gestione dei beni. Bilanci, preventivi, resoconti finanziari sono molto importanti per la trasparenza.
b) Comunicazione e corresponsabilità
La collegialità nella gestione dei beni e la comunicazione precisa e corretta a tutti i livelli sono la via per giungere ad atteggiamenti evangelici di giustizia e di sincerità. L’autorità non può essere esercitata a questo livello da una sola persona.
c) Vigilanza
Non è saggio lasciare le questioni finanziarie in mano a un solo economo, a una sola persona. È indispensabile avere delle costanti verifiche e una regolare revisione contabile.
d) Solidarietà
Non va mai dimenticato che i beni appartengono a tutta la Congregazione e che essi hanno un senso solo in vista della missione. I nostri beni in ultima istanza appartengono ai poveri. Al nostro interno, abbiamo province ricche e province povere. Ci sono anche diversità nel vivere la povertà a seconda dei contesti culturali. Non è raro constatare come in alcune culture entrare nella vita religiosa corrisponda a diventare più ricchi rispetto alle proprie famiglie di provenienza. Nello spirito del vangelo va incrementata la comunione dei beni all’interno della propria Congregazione. Anche se ci sono difficoltà oggettive a trasferire il denaro da un paese a un altro, occorre cercare la modalità per una vera condivisione delle risorse economiche.
La tentazione del potere è stata evidenziata in tutti i gruppi, come conseguenza dell’uso non trasparente e libero del denaro.
Sintesi interpretativa dall’assemblea
Provo ora a riassumere, prima concettualmente, poi con un’immagine, quello che sembra essere stata la presa di coscienza di questo incontro. Per farlo, mi riferisco non solo ai lavori dei gruppi, ma anche ad alcuni scambi informali avuti con alcuni di voi.
Ciò di cui abbiamo preso coscienza in questi giorni è la difficoltà che abbiamo tutti di passare dalla gestione di quello che fino ad ora abbiamo realizzato (il compiuto), alla profezia come disponibilità a dire qualcosa da parte di Dio, quello che Egli intende ancora donare al mondo e quindi non è ancora realizzato.
Questa è la sfida: passare dal rimanere prigionieri di ciò che è compiuto (la gestione dell’esistente), anche a nome di una certa concezione di fedeltà, alla profezia come capacità di dire una parola da parte di Dio: da ciò che già è in atto a ciò che Dio promette per noi e per il mondo intero. Dal compiuto alla promessa.
In questo momento siamo in affanno rispetto a entrambe le cose: sempre meno in grado di gestire quanto ci è stato trasmesso (in termini di personale, di opere, di mentalità, di strutture) e in difficoltà a ascoltare una parola nuova da parte di Dio, quella che ci sta dicendo attraverso gli appelli delle sofferenze umane.
Un gruppo ha detto: ci si rende conto che c’è urgenza di “cambiare”, ma ci sembrano essere carenti i mezzi (di ogni genere: teoretici, biblici, psicologici, socio-culturali, spirituali, ecc.) per portare a maturazione il cambiamento necessario.
L’esercizio che abbiamo fatto in questi giorni ha messo in luce quanto questo sia faticoso, quanto rischiamo di essere messi in scacco dall’esistente e quanto poca capacità abbiamo di prospettiva, questo non per cattiva volontà, ma per un basso tasso di discernimento.
– Durante questi giorni siamo stati ispirati da un’immagine: quella dell’albero le cui radici sono profonde tanto quanto la sua estensione esterna. È in questa prospettiva che abbiamo cercato di rivisitare il senso di “radicalità della profezia”.
– Provo ora a ridire quanto emerso dall’Assemblea con un proverbio e con un racconto.
Un noto proverbio africano dice: “Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce”. Questo proverbio può fare per noi. La responsabilità di questo passaggio storico e culturale (di ogni passaggio storico culturale) è in fondo quello di non sciupare quanto ci è stato consegnato dalle generazioni precedenti, ma nello stesso tempo di non rimanere dei semplici ripetitori, dei conservatori di musei (per utilizzare una espressione di Papa Francesco). Si tratta dunque di tenere in piedi l’albero che cade, ma non con tutte e due le mani: con una mano sola. L’altra deve rendersi attenta a servire la vita che cresce e che non fa rumore, e che è la vita che lo Spirito Santo sta facendo crescere e che ci chiede di assecondare con i nostri carismi.
Se tutte e due le mani sono impegnate a tenere in piedi il passato, il già realizzato, noi non avremo né orecchie, né occhi, né energie per rincorrere lo Spirito che ha una falcata di vantaggio rispetto a noi.
– Possiamo dire la stessa cosa con un racconto. Paolo De Benedetti, teologo e biblista italiano di origini ebraiche, narra la vicenda di Jochanan ben Zakkaj, il rabbì che nel 68 d.C., consapevole dell’ineludibile destino che segnava la città e il tempio di Gerusalemme (incendiati e distrutti nel 70 d.C.), si finse morto e così riuscì a uscire in una bara dalla città, assediata da Vespasiano, portando con sé soltanto la Torah. Vespasiano, infatti, permetteva che uscissero dalla città assediata solo i morti. Presentatosi poi all’Imperatore, Iochanam ben Zakkaj ottenne da lui che il piccolo sinedrio di Javne (l’attuale Tel Aviv) fosse risparmiato e lì rifondò il giudaismo come popolo della Torah, salvandone così il nucleo essenziale. Così De Benedetti commenta l’episodio:
«La decisione di rabbì Jochanan ha avuto per l’ebraismo un’importanza incalcolabile: egli riuscì a preservare la continuità della tradizione, la catena ininterrotta della Legge orale e con gli altri maestri convenuti a Javne assicurò all’ebraismo i mezzi giuridici, rituali, organizzativi e morali per sopravvivere […]. C’è molto da riflettere su quello che può fare un uomo: rabbì Jochanan era uno studioso senza autorità ufficiale […]. Egli fu il solo, tuttavia, a scorgere chiaramente quello che si poteva conservare e quello che si doveva abbandonare per conservare il tutto […]. Egli seppe leggere, come si direbbe oggi, i segni dei tempi, ma in questi segni non vedeva solo la storia, bensì la misteriosa volontà di Dio, che egli era abituato a venerare in ogni precetto.
Ai cristiani – continua Paolo De Benedetti – non è accaduto di dover compiere un mutamento così radicale come quello toccato all’ebraismo, per rimanere se stessi; ma non si può dire che non sarebbe stato o non sia ugualmente necessario. Infatti, il grande tempio della cristianità tradizionale è già profondamente intaccato dal fuoco, e sono venuti meno i riti che vi si compivano per dare al mondo intero una buona coscienza. […] Tutto ciò rende più che mai difficile che sorga un uomo come rabbì Jochanan ben Zakkaj che decida di portare fuori dal tempio ciò che deve essere salvato. Ogni volta che qualcuno, più per istinto che per lucida consapevolezza fa qualcosa del genere, viene accusato di profanare, sconsacrare, secolarizzare la santità […]. Ma questa non è un’opera umana: non si deve discutere su ciò, e forse neppure decidere. Occorre piuttosto porsi dietro alla parola di Dio, come i magi dietro alla stella, e seguirla là dove, uscendo dal tempio rovinante della cristianità, andrà a posarsi. Non è, oggi, una stella così lucente da offuscare tutte le altre stelle, anzi si lascia confondere abbastanza con alcune di esse; questo è nel disegno divino […] che […] non pensa la salvezza del cristianesimo come una solenne processione da uno a un altro tempio, i re in testa alla processione, il popolo in coda. […]. Oggi ogni cristiano è personalmente impegnato a uscire dal vecchio tempio e seguire una stella destinata a condurre proprio lui. Solo così alla fine tutta la chiesa di Dio si troverà in salvo, in questo mondo profano ma così caro a Dio».
Forse è proprio questa l’inquietudine che ha attraversato i vostri dibattiti: la fatica di scorgere chiaramente quello che si può conservare e quello che si deve abbandonare per conservare il tutto. E forse è proprio questo il compito che i carismi della vita religiosa sono chiamati a operare insieme (non da soli), perché possiamo tornare a vivere e testimoniare la radicalità della profezia.
fratel Enzo Biemmi, FSF
(fonte Vidimus Dominum)