Radicali nella profezia
2016/7, p. 5
La sfida che oggi si pone alla VC è di passare dal rimanere
prigionieri della gestione dell’esistente alla profezia come
capacità di dire una parola da parte di Dio: da ciò che già
è in atto a ciò che Dio promette per noi e per il mondo
intero. Dal compiuto alla promessa.
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87ª Assemblea semestrale dei superiori generali
RADICALI
NELLA PROFEZIA
La sfida che oggi si pone alla VC è di passare dal rimanere prigionieri della gestione dell’esistente alla profezia come capacità di dire una parola da parte di Dio: da ciò che già è in atto a ciò che Dio promette per noi e per il mondo intero. Dal compiuto alla promessa.
Il tema del radicalismo nella VC è stato al centro dei lavori dell’87ª Assemblea semestrale dei superiori generali, svoltasi al Salesianum di Roma, dal 25 al 27 maggio u.s. Le due relazioni di fondo di fra Saverio Cannistrà (carmelitani scalzi) e di p. Heinz Kulüke (verbiti) sono state integrate da altri due interventi più concreti, quello di fra Mauro Jöhri, (presidente USG e sup. gen. dei cappuccini) sull’emergenza migranti e rifugiati, e poi quello del rettor maggiore dei salesiani, don Àngel Fernández Artime, sulla “tentazione del potere” nella gestione dei beni.
Tensione escatologica
e profetismo
«Quando mi è stato chiesto di affrontare il tema “radicalità e profetismo nella vita consacrata”, mi sono interrogato a lungo su che cosa esattamente ci si attendesse da me». Dopo un argomentato excursus, dalla tradizione patristica al documento “Vita consecrata”, sul rapporto “Profetismo e vita consacrata”, partendo soprattutto da questo testo ha provato a dare una sua valutazione critica dei tre modelli a cui si potrebbe sostanzialmente ricondurre tutto il discorso: il profetismo come critica di atteggiamenti della cultura contemporanea, il profetismo come discernimento del disegno salvifico di Dio attraverso l’ascolto della sua Parola e l’attenta lettura dei segni dei tempi, il profetismo come tensione escatologica, intesa non come semplice trattazione dei novissimi, quanto piuttosto come “dimensione essenziale della fede cristiana”.
Per Cannistrà non ci sono dubbi: è quest’ultimo il modello più pertinente per una approfondita comprensione del rapporto “profetismo-vita consacrata”. La tensione escatologica, infatti, consente al religioso di «abbracciare se stesso, la sua propria fragilità e debolezza, la storia della sua famiglia, della sua comunità religiosa, del suo popolo, portando in tutto ciò la fiamma di un desiderio di trasfigurazione e di redenzione, che si alimenta al contatto con la persona di Gesù Cristo».
Poste queste premesse, una prima conclusione pratica è quella di una più profonda riflessione teologica «sulla nostra identità come religiosi». Una vita consacrata che fa “un po’ di tutto”, non è assolutamente “profetica”, è destinata, in tempi più o meno ravvicinati, a estinguersi. Le diffuse “strategie di mantenimento” in atto, servono solo «a ritardare l’esito finale». Oggi servono «strategie di formazione, che consentano ai religiosi, o almeno alla parte più valida e sana di essi, di interrogarsi sul senso della loro vocazione, di operare un serio discernimento e di attuare concrete decisioni di vita». Spesso la inefficacia di queste strategie, che pure non mancano nei documenti sulla VC, nasce, in partenza, da un’insufficiente “chiarezza di princìpi e di intenti”.
Le priorità non possono continuare ad essere quelle di tipo “quantitativo”, come le nuove vocazioni, la ristrutturazione, l’ampliamento o la chiusura delle case ecc. I veri problemi sono quelli di tipo “qualitativo”. La preoccupazione di un mantenimento del presente «ci porta a trascurare la cosa effettivamente più importante, ossia l’animazione di un processo di crescita e maturazione della nostra identità di religiosi, da cui soltanto possono scaturire novità capaci di trasformare i nostri spazi». Alla luce di una reale tensione escatologica, s’impone oggi la rielaborazione di “una teologia e di una spiritualità dell’attesa”. Nel ribadire il senso escatologico della vita religiosa, Cannistrà ha precisato subito che «non è più possibile proseguire in una logica e in una retorica della continuità (istituzionale e clericale), quando tutto ci parla di discontinuità e di rottura. Se abbiamo paura di parlarne, se preferiamo limitarci a discorsi politicamente corretti, continueremo a cercare invano l’oggetto del nostro discorso sul profetismo della vita religiosa». Bisogna avere il coraggio di fermarsi e di riflettere, perché c’è sia da “distruggere e abbattere” che da “edificare e piantare”, anche se «non sappiamo come, dove e quando farlo». La rottura, la discontinuità, «è nei fatti, è nella storia: a noi la scelta di lasciarci trascinare alla deriva da essa, o di gettare l’àncora per avere la possibilità di ripensare la rotta».
Missione
e dialogo profetico
Il contributo dei religiosi al rinnovamento della Chiesa, ha detto il superiore generale dei Verbiti, p. Heinz Kulüke, aprendo il suo intervento, «dipenderà dal rinnovamento della nostra immagine di Dio, della nostra vita e della nostra missione». Solo dopo una lettura de-costruttiva di questa immagine, sarà possibile rispondere positivamente a tanti interrogativi sul rinnovamento sia della Chiesa che della vita religiosa. Cosa deve cambiare nella vita personale e comunitaria dei religiosi, si è chiesto, per essere «testimoni autentici dell'amore, della compassione, della sollecitudine di Dio” in un mondo d’ingiustizie e di speranze come quello attuale? Attraverso un rinnovamento ad intra, come assicurare un «impegno missionario ad extra a livello personale e comunitario?». Quale servizio è possibile mettere in atto nei confronti dei poveri e del mondo di chi soffre? Concretamente, i laici «come possono condividere il compito e la missione delle nostre Congregazioni religiose?». Quale contributo potranno dare i diversi carismi delle congregazioni religiose a questo rinnovamento?
Il relatore ha tentato una sua risposta soffermandosi in particolare su alcuni “elementi essenziali” di questo rinnovamento, vale a dire la formazione, la spiritualità, la leadership e la gestione delle finanze. Formazione sì, ma quale? Ha risposto con le parole di un suo confratello missionario in America meridionale: «Mi hanno insegnato a predicare, a celebrare la messa e ad amministrare gli altri sacramenti, ma ciò di cui le persone hanno veramente bisogno è molto diverso: hanno bisogno di acqua, di cibo, di servizi sanitari, di educazione. Solamente se mi preoccupo di queste necessità della gente posso parlare di Dio con senso e celebrare veramente i sacramenti».
Sull’esempio di Gesù, molto “critico” nei confronti di alcuni aspetti della sua cultura, la formazione dovrebbe sviluppare un atteggiamento profetico di denuncia. Guai a trasformare la propria cultura in un “idolo”. La formazione iniziale, infatti, è una buona occasione per “de-costruire” la propria “superiorità culturale” e i tanti “pregiudizi etnici” di cui si può essere anche inconsapevolmente portatori.
Non ci può essere formazione seria senza un vero rinnovamento spirituale. Oggi sono sempre più numerose le comunità internazionali e interculturali. Proprio per questo è indispensabile, anzitutto, «imparare a pregare e a celebrare la propria fede nel rispetto dei diversi contesti culturali», coniugando «un giusto equilibrio tra azione e contemplazione, tra comunità e vita individuale e impegno». L’internazionalizzazione arricchisce di certo la vita di una comunità, ma può rivelarsi anche una sfida molto più complessa di quanto non si pensi.
Abitudini di lavoro e percezione del tempo sono molto diverse tra una cultura e l’altra. In internet le persone “lontane” sono spesso infinitamente “più vicine” di quelle della comunità. È risaputa, inoltre, la difficoltà di snidare certi confratelli “dislocati” (direbbe papa Francesco), inamovibili e bloccati in consuetudini di vita acquisite una volta per sempre. Può anche succedere che un religioso abbia potuto conoscere «solo durante il funerale, e più precisamente durante la predica, il confratello con cui ha vissuto insieme per oltre 20 anni».
Altra questione di capitale importanza è quella di buoni leader in un contesto sempre più internazionale e interculturale. Quante volte, purtroppo, per le più svariate ragioni, “si decide di non decidere”. Non ci si dovrebbe dimenticare che in alcuni casi di conflitto «i confratelli perdonano ma non dimenticano». Una risposta assai frequente e anche frustrante che può capitare di sentire è quella del “NSPF” (non si può fare). Per cambiare qualcosa nelle comunità religiose, spesso, bisogna ricorrere al cambiamento delle persone «con tutta la sofferenza e i conflitti che ciò comporta». Stupisce non poco, a volte, «la conoscenza limitata che i confratelli hanno dell'insieme della Congregazione e perfino delle comunità vicine o dei confratelli della loro stessa comunità». Da qui la domanda sul come «motivare i nostri confratelli in modo che guardino al di là del loro orizzonte».
Quanto sarebbe importante coinvolgere, in tanti campi, come quello, ad esempio, delle finanze, laici competenti. Le norme, solitamente, esistono e sono anche chiare, ma la realtà, soprattutto quella internazionale e interculturale «è molto diversa». Il futuro è sicuramente nella internazionalità. Ma sarebbe forse il caso anche di quantificarne realisticamente i costi, consapevoli del numero crescente, in tante comunità, del numero dei confratelli anziani e ammalati e anche del bisogno, a volte, di farsi carico dei bisogni dei propri parenti. È necessario sviluppare la solidarietà a tutti i livelli: comunitario, interprovinciale, zonale. Uno degli investimenti migliori, in questo momento, è sicuramente «quello dei giovani confratelli nei centri di formazione in Asia e in Africa». Soprattutto a questo livello si dovrebbe imparare a «usare i fondi in modo trasparente, valutare e documentare questi progetti secondo gli standard delle diverse entità che li sponsorizzano, governi inclusi».
Da oltre vent'anni, ha concluso Kulüke, i Verbiti hanno scelto di parlare di missione intesa come un “dialogo profetico”, ben sapendo, come ricorda papa Francesco nella sua lettera a tutti i consacrati, che il profeta «è capace di denunciare il male del peccato e le ingiustizie, perché è libero, non deve rispondere ad altri padroni se non a Dio, non ha altri interessi che quelli di Dio. Il profeta sta abitualmente dalla parte dei poveri e degli indifesi, perché sa che Dio stesso è dalla loro parte». Mai come oggi la vita religiosa è chiamata ad «offrire speranza e proporre nuovi modi per superare la crisi attuale che la società nel suo insieme e la Chiesa stanno soffrendo».
Cappuccini
ed emergenza rifugiati
Un’assemblea come quella dei superiori generali, ha detto il presidente USG, fra Mauro Jöhri, potrebbe essere l’occasione buona per uno scambio di opinioni e di esperienze in atto, all’interno dei propri istituti, per dare una concreta risposta ad un’emergenza, come quella dei rifugiati/profughi, «mai più vista in Europa dai tempi dell’ultima guerra mondiale». Per quanto riguarda il suo ordine dei cappuccini, 35 ministri provinciali e i custodi di 17 paesi, nell’ottobre scorso, si sono ritrovati a Frascati per tentare di dare, per quanto possibile, una risposta “adeguata e coordinata” a questo problema. Personalmente il ministro generale è rimasto molto colpito dalle testimonianze di fratelli impegnati soprattutto nel Libano, a Malta, in Grecia e in Italia. In Libano i cappuccini, ad esempio, hanno avviato un progetto per dare un alloggio ad un certo numero di famiglie, garantendo la scolarizzazione dei figli e l’assistenza sanitaria richiesta. A Malta è stata privilegiata l’accoglienza soprattutto dei rifugiati eritrei, assicurando loro «assistenza spirituale, aiuto materiale e sociale, prevenzione nei confronti dell’alcolismo e del consumo di droghe, opportunità di inserimento in una nuova cultura». In Grecia, dove ogni giorno 4000 rifugiati attraversano il paese, i frati hanno creato un fondo di emergenza per offrire a queste persone di passaggio cibo e cure immediate.
Un fratello proveniente dall’Eritrea e che risiede a Milano ha parlato dell’Opera San Francesco gestita dai cappuccini. Ogni giorno vengono distribuiti quasi 3000 pasti a persone in difficoltà, e servizi docce e consulenza medica. A Roma sono stati messi a disposizione due conventi, anche se poi, di fatto, per evitare eccessive concentrazioni, su disposizione delle competenti autorità, solo uno dei due conventi è attualmente operativo. Piena disponibilità, comunque, a mettere a disposizione altre eventuali strutture vuote o sottoccupate. I cappuccini hanno valutato anche la proposta di accogliere i rifugiati nelle proprie fraternità e case, con varie modalità: uno o più individui che vivono con i frati, disponibilità di un’ala o parte della casa per i rifugiati, eventuale affitto di una casa per la loro accoglienza. Il tutto, naturalmente, dovrà essere fatto sempre «in accordo con gli organismi esperti in materia».
Dai bollettini delle varie province, soprattutto del Nord Europa, ad es. Vienna, Salisburgo, Friburgo in Svizzera, in Germania, «arrivano segnali positivi». A Blois, in Francia, era già stata approntata una buona struttura per l’accoglienza, quando le autorità locali, essendosi ritirate da ogni forma di collaborazione, hanno vanificato ogni attività. «Passando in un convento piccolino, ma dove i frati vivono una vita semplice e ben inserita nel tessuto cittadino mi sono visto mettere tra le mani una busta con mille euro da usare per qualche progetto a favore dei rifugiati». Un piccolo gesto, ma di grande valore simbolico. «Sono convinto, ha concluso fra Jöhri, che coloro che si lasciano toccare dalla sofferenza provata da tante persone alla ricerca di sicurezza e futuro e che sono disposti a condividere con loro uno spazio o anche solo una somma di denaro, ne usciranno umanamente più ricchi e maturi».
Carismi
e gestione dei beni
Uno dei rischi più seri in quella che dovrebbe essere una gestione responsabile dei beni, è di lasciarsi prendere da una tentazione tutt’altro che remota, quella del potere. È un po’ la sintesi, molto realistica, dell’intervento del rettore maggiore dei salesiani, don Artime. Dopo un breve richiamo a papa Francesco sulla “povertà amorosa” fatta di solidarietà, di condivisione e di carità nella sobrietà e nella ricerca della giustizia, dopo l’ascolto di quanto alcuni padri della Chiesa hanno scritto sull’uso della ricchezza e dopo la sintesi di un documento sulla gestione dei beni, pubblicato, nel 2014, dal dicastero vaticano per la vita consacrata, il relatore ha presentato alcune sue personali considerazioni. Anche se non sempre e non di tutti, si può affermare comunque che i religiosi e le religiose vivono “in modo semplice e sobrio”. Non si può dire la stessa cosa per quanto concerne la gestione di certe costruzioni “centenarie pluridecennali”. È difficile parlare in questi casi di “profezia evangelica”. La stessa condivisione, quando si tratta di soldi, «trova un fittissimo muro, infrangibile». Si fatica non poco ogni volta che si deve «chiudere, ricollocare, risignificare, ristrutturare le proprie opere». Gli inviti alla trasparenza in fatto di preventivi e bilanci, cadono facilmente nel vuoto. La gestione economica «non è il nostro forte». Inevitabili, allora, errori di non poco conto in campo economico e giuridico, come quelli di «equivoci, vendite inadeguate, truffe nella firma di accordi o contratti». Peggio ancora quando superiori locali o provinciali siano, di fatto, “prigionieri dei propri economi”.
Le persone “di fiducia e di provata fedeltà” in questo campo, poi, non vanno mai confuse con gli amici degli amici. Per evitare questo, è sicuramente importante la formazione degli economi. Ma lo è ancora di più la formazione di persone realmente «capaci di animazione e governo», in modo da sapersi poi, all’occorrenza, circondare delle persone giuste. Perché negarlo: la trasparenza nei bilanci e nella gestione delle opere, uno degli aspetti più “oscuri” nel vissuto dei propri confratelli, è sicuramente meglio garantita da laici competenti.
Se non si aprono gli occhi, le questioni economiche possono compromettere seriamente tante situazioni, possono addirittura «uccidere la nostra condizione di religiosi». A che serve, infatti, riempirsi la bocca di una vita come dono, come gratuità assoluta, quando la tentazione del potere rischia di convertirsi, tanto o poco non importa, «in sangue che scorre per le nostre vene». Non è possibile barattare o emarginare il proprio carisma, per questioni gestionali o amministrative.
È preoccupante il fatto che anche giovani religiosi, appena conclusa la formazione, abbiano subito di mira soprattutto l’incarico o l’ufficio da occupare. Il clericalismo esiste anche all’interno delle congregazioni religiose, là soprattutto «dove l’essere presbiteri è un onore, con uno status che si traduce in autorità, potere, incluso l’accesso ai mezzi economici da maneggiare, con cui aiutare la famiglia». Una conferma la si ha nella difficoltà a rapportarsi ai laici non come a dei dipendenti, questo è fin troppo scontato, ma come a dei collaboratori nella missione dell’istituto. In fondo, i religiosi sono visti ancora molto spesso come «coloro che pagano» e proprio in quanto pagano, possono anche licenziare. Ci sono ancora troppi religiosi “controllori delle istituzioni”, aggrappati al loro ruolo di presidi, di amministratori, di direttori di una scuola. Non fidandosi dei laici, hanno paura di perdere il “controllo del denaro”, per non parlare, poi, di quei religiosi parroci, sospinti in tutto quello che fanno, dal sentirsi gli assoluti “padroni della parrocchia».
Tutte queste preoccupanti situazioni possono essere facilmente razionalizzate da un falso senso di responsabilità convinti come sono, certi religiosi, di agire sempre e solo «per il bene della istituzione, per garantirne il futuro, perché non crolli tutto». Come non vedere allora, ha concluso il rettor maggiore, l’urgenza di una “autentica evangelizzazione e conversione” non tanto dei laici, quanto piuttosto di quei religiosi che hanno responsabilità soprattutto economico-amministrative nell’ambito del proprio istituto?
In questi giorni, hanno scritto nella loro sintesi conclusiva (di tutti i lavori dell’assemblea) il salesiano don Francesco Cereda e fr. Enzo Biemmi (Sacra Famiglia), è stato possibile prendere coscienza di una sfida di fondo, quella di «passare dal rimanere prigionieri di ciò che è compiuto (la gestione dell’esistente), anche a nome di una certa concezione di fedeltà, alla profezia come capacità di dire una parola da parte di Dio: da ciò che già è in atto a ciò che Dio promette per noi e per il mondo intero. Dal compiuto alla promessa». Purtroppo oggi si è sempre più in difficoltà non solo nel «gestire quanto ci è stato trasmesso, in termini di personale, di opere, di mentalità, di strutture», ma anche nell’ascolto di una «parola nuova da parte di Dio, quella che ci sta dicendo attraverso gli appelli delle sofferenze umane». Un’immagine, quella dell’albero le cui radici sono profonde tanto quanto la sua estensione esterna, ha ispirato tutti i lavori di questa assemblea. È esattamente in questo la prospettiva che i superiori generali «hanno provato a rivisitare il senso della radicalità della profezia».
Angelo Arrighini