Salvarani Brunetto
E' stata scritta una pagina di storia
2016/7, p. 1
Nonostante le assenze di quattro Chiese, tra cui quella russa, il Concilio può essere considerato a tutti gli effetti un autentico segno dei tempi, affidato come sempre alla faticosa opera umana chiamata a tradurlo nel vissuto di storie ecclesiali pur cariche di ambiguità e di compromessi.
Concilio Panortodosso a Creta
È STATA SCRITTA
UNA PAGINA DI STORIA
Nonostante le assenze di quattro Chiese, tra cui quella russa, il Concilio può essere considerato a tutti gli effetti un autentico segno dei tempi, affidato come sempre alla faticosa opera umana chiamata a tradurlo nel vissuto di storie ecclesiali pur cariche di ambiguità e di compromessi.
Il Concilio Panortodosso, svoltosi a Creta dal 19 al 26 giugno scorso, si è concluso. Quel che è certo, ora che si è avviata la delicata fase delle interpretazioni e dei commenti – pochi e di rito, salvo rare eccezioni, sui media italiani, incapaci di cogliere la rilevanza di un appuntamento così lungamente atteso e strategico soprattutto per il vecchio continente – è che esistono buone ragioni per dirsi felici della sua effettuazione, ma anche altrettante per evidenziare una certa delusione per le dinamiche manifestatesi. Che confermano, una volta di più, di come oggi unire sia sempre obiettivo molto complesso (fra l’altro, a metà Concilio ha fatto irruzione la notizia di Brexit), e risulti assai più facile tendere alla divisione.
Quattro pesanti
assenze
I fatti, intanto. Era, liturgicamente, la Domenica del Trionfo dell’Ortodossia di oltre due anni fa quando, a conclusione della Sinassi dei primati ortodossi tenutasi al Fanar, presso Istanbul, sede storica del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, dal 6 al 9 marzo, venne resa pubblica l’intenzione di dar corpo al sospirato sogno di un Grande e Santo Concilio, fissandone la celebrazione per la Pasqua del 2016. Nel corso del biennio successivo, alcuni particolari allora immaginati sarebbero cambiati, dalla sede (non più Istanbul ma Creta, appunto) alla data definitiva (non più Pasqua, ma Pentecoste); inoltre, si è prodotto un consistente labor limae sui documenti da approvare, eppure, fino agli inizi di giugno, tutto sembrava predisposto alla buona riuscita dell’evento. In realtà, invece, il fuoco covava sotto la brace: e che fuoco! Nei giorni immediatamente precedenti all’assise, infatti, si è progressivamente appreso che, su quattordici chiese autocefale che avevano annunciato la loro presenza, ne sarebbero mancate ben quattro, tra le quali il potente patriarcato di Mosca (cui fa riferimento più della metà dei circa duecentotrenta milioni di ortodossi nel mondo). Oltre ai russi, non avrebbero partecipato i patriarchi di Antiochia (Damasco: vale a dire il punto di riferimento più significativo per gli ortodossi del Medio Oriente, oltre che uno dei patriarcati che hanno fatto la storia del cristianesimo dei primi secoli), Georgia e Bulgaria. Non facile cogliere le ragioni (o meglio, i pretesti) delle assenze: fatto sta che le chiese mancanti hanno finito per darne la colpa al patriarca di Costantinopoli, giudicato apertamente troppo frettoloso nell’organizzare il Concilio. Al che Bartholomeos I ha avuto buon gioco a ribattere che in gennaio, nella riunione preparatoria di Chambesy, in Svizzera, tutte le chiese, all’unisono, si erano accordate per ritrovarsi a Creta, a Pentecoste.
Il patriarca di Costantinopoli, primus inter pares nella tradizione cristiana orientale, ha cercato fino all’ultimo di convincere il suo collega moscovita, Kirill, a cambiare idea. Invano: nel suo ultimo messaggio ufficiale, lo stesso Kirill si rivolgeva intenzionalmente ai primati e ai rappresentanti delle chiese locali ortodosse convenuti nell’isola, senza mai citare l’espressione fatidica di Concilio, come a derubricare l’iniziativa a semplice incontro preparatorio di un futuro Santo e Grande Concilio e a negare implicitamente all’assise il rango di assemblea conciliare. Ecco perché, inevitabilmente, i commentatori hanno riferito da subito di un appuntamento dimezzato e ferito, con una rappresentatività e autorevolezza giocoforza minate alla radice.
Dal punto di vista degli schieramenti e degli equilibri di forza, ha avuto comunque un peso non irrilevante la tormentata ma alla fine confermata partecipazione ai lavori da parte della chiesa ortodossa di Serbia, storicamente vicina ai russi, che pure, in un comunicato ufficiale, si era riservata di abbandonarli se ci si fosse rifiutati di “prendere in considerazione tutte le questioni, i problemi e le differenze” espressi in extremis dai quattro patriarcati assenti.
Malgrado tale situazione, ecclesialmente drammatica, nella solenne liturgia di apertura celebrata ad Heraklion, Bartholomeos, elencando i patriarchi delle varie chiese, ha ricordato anche Kirill, come se questi fosse là; un gesto di riguardo che, tuttavia, non ha potuto differire la problematica realtà di un’assenza che non poteva non pesare, e parecchio. Peraltro, a conti fatti, quanto accaduto nella splendida isola greca, giurisdizionalmente affiliata al patriarcato ecumenico, può essere considerato a tutti gli effetti un autentico segno dei tempi, affidato come sempre alla faticosa opera umana chiamata a tradurlo nel vissuto di storie ecclesiali pur cariche di ambiguità e di compromessi.
L’ha colto bene papa Francesco, il quale, sul volo di ritorno dall’Armenia, il 26 giugno, richiesto di un parere al riguardo, ne ha immediatamente fornito un giudizio positivo: «È stato fatto un passo avanti: non con il cento per cento, ma un passo avanti – ha detto, a braccio. Io sono contento. Hanno parlato di tante cose. Credo che il risultato sia positivo. Il solo fatto che queste chiese autocefale si siano riunite, in nome dell’ortodossia, per guardarsi in faccia, per pregare insieme e parlare, è positivissimo. Io ringrazio il Signore. Al prossimo saranno di più. Benedetto sia il Signore!». Un’eco, verrebbe da dire, delle parole con cui Bartholomeos ha chiuso i lavori del Concilio: «Abbiamo scritto una pagina di storia, un capitolo nuovo nella storia contemporanea della nostra Chiesa».
Giornate
di intenso impegno
Cinque giorni (da lunedì 20 a sabato 25 giugno) di impegno intenso, durante i quali i circa 290 delegati di dieci chiese ortodosse hanno ampiamente discusso ed emendato i sei documenti all’ordine del giorno, stilando fra l’altro un’Enciclica e un Messaggio “al popolo ortodosso e a tutte le persone di buona volontà”. Nel messaggio si mette in evidenza che «la priorità del Santo e Grande Concilio è stata di proclamare l’unità della Chiesa Ortodossa», che non è affatto, come qualcuno penserebbe, una confederazione di chiese autonome, ma un’unica chiesa.
Il Concilio ha rappresentato così un’occasione per riscoprire tale verità, il primo passo di un cammino conciliare che non dovrebbe terminare qui: i padri, infatti, hanno deciso che analoghi concili saranno convocati d’ora in poi a scadenze regolari “ogni sette o dieci anni”. Sottintendendo che, se la conciliarità è la dimensione fondamentale della vita ecclesiale (“La Chiesa in se stessa è un concilio convocato da Cristo e guidato dallo Spirito santo”), il concilio deve tornare a diventare la sua regola, e non una felice eccezione.
Non è mancata, poi, sul piano ecclesiologico, la sottolineatura del fatto che “la chiesa non esiste per se stessa”, ma per il mondo: e l’evangelizzazione fino agli estremi confini della terra costituisce la sua ragion d’essere. Ciò, però, hanno sostenuto i padri conciliari, deve essere portato avanti nel rispetto profondo della dignità di tutti, e in uno spirito di dialogo, a vari livelli, particolarmente nel tentativo di ristabilire l’unità tra i cristiani e di promuovere la conoscenza tra i credenti delle varie religioni.
Una condanna netta e senza equivoci è stata riservata all’esplosione del fondamentalismo, giudicato “l’espressione di una religiosità malata”. Per contrastare tale violenza che rischia di farsi endemica, l’unica soluzione è proprio il dialogo, che «contribuisce in modo significativo alla fiducia reciproca, alla pace e alla riconciliazione».
È stato ancora il patriarca Bartholomeos, nel suo discorso finale, a riconoscere con parresìa, di fronte a tutti i padri conciliari, le spine incontrate: «Ci sono state difficoltà; non tutto è stato facile e roseo; ci sono state asprezze, tensioni, malcontento, pessimismo sul risultato, ma alla fine c’è stato consenso, unità di sentire, accordo, unanimità. Tutti insieme abbiamo scritto la storia!».
Sei i documenti
prodotti
I lavori si sono svolti a porte chiuse, ma ogni pomeriggio i portavoce delle varie chiese relazionavano ai giornalisti sullo stato delle discussioni. Sei i documenti prodotti, su temi strategici: la missione della Chiesa nel mondo contemporaneo, la diaspora ortodossa, l’autonomia delle chiese e il modo di proclamarla, l’aggiornamento delle norme sul digiuno, i rapporti con le altre chiese cristiane, gli impedimenti per la celebrazione del matrimoni.
In realtà, si potrebbe dire che, più ancora delle deliberazioni finali, il Concilio si è rivelato essenziale come “occasione di incontro”. A seguire a latere l’assemblea erano stati invitati una quindicina di osservatori delle Chiese cristiane: rappresentanti della Comunione anglicana, della Federazione luterana mondiale, ma anche di organismi ecumenici come la Conferenza delle Chiese europee e il Consiglio delle Chiese del Medio Oriente. Per la Santa Sede sono stati presenti il presidente, cardinale Kurt Koch, e il segretario generale del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, mons. Brian Farrell. Che hanno potuto partecipare solo alle sessioni inaugurale e conclusiva del Concilio, tanto che il patriarca, alla fine, li ha ringraziati per la “pazienza”, per la loro presenza e per “l’interesse sincero” con cui hanno seguito tutto l’iter dell’assise.
Entrando più nel dettaglio, è trapelato che, più che l’assenza delle quattro chiese che hanno dato forfait, a mettere a rischio l’esito del Concilio sarebbe stato l’irrigidimento di una porzione zelante della chiesa greca, che chiedeva di non definire chiesa le altre chiese, compresa quella cattolica. Per un certo periodo di tempo è parso che l’evento cretese fosse condannato o a soccombere a questa pretesa o a certificare, di fatto, il proprio ulteriore fallimento. In entrambi i casi se ne sarebbe giovata, paradossalmente, proprio la chiesa di Mosca, che ha sempre riconosciuto l’ecclesialità del cattolicesimo e si sarebbe trovata in una condizione privilegiata nel dialogo con Roma (anche alla luce del recente incontro di febbraio, a L’Avana, tra papa Francesco e lo stesso Kirill). A tale proposito, in aula è intervenuto il teologo e metropolita di Pergamo John Zizioulas, una delle figure più autorevoli nell’ortodossia contemporanea, per ricordare che mai, pur nel dissenso più acuto, l’ortodossia aveva negato alla cattolicità il titolo di chiesa. Una posizione che alla fine ha prevalso, tanto che nell’enciclica conciliare vengono riconosciute le “denominazioni storiche” delle “chiese e confessioni cristiane”, definite “non-ortodosse”, e che – come si diceva – si impegna l’intera ortodossia al dialogo: il che non era affatto scontato. Quasi a echeggiare la riflessione proposta da papa Francesco parlando alla chiesa pentecostale della Riconciliazione, a Caserta, il 28 luglio di due anni fa, quando leggeva l’ecumenismo non come sfera dell’uniformità ma come poliedro, unità con tutte le parti diverse in cui ciascuna ha la sua peculiarità, il suo carisma: «Noi siamo nell’epoca della globalizzazione e pensiamo cosa sarebbe l’unità nella Chiesa: una sfera, dove tutti i punti sono equidistanti dal centro, tutti uguali? No. Questa è uniformità. E lo Spirito Santo non fa uniformità. Che figura possiamo trovare? Pensiamo al poliedro: il poliedro è una unità ma con tutte le parti diverse; e ognuna conserva e ha la sua peculiarità, il suo carisma. […] unità nella diversità. In questo cammino noi cristiani facciamo ciò che chiamiamo ecumenismo».
Brunetto Salvarani