Per un cammino di speranza
2016/6, p. 22
Nessuna vocazione nella Chiesa basta da sola, non tanto
dal punto di vista operativo, quanto nel suo essere parola
concreta che narra la grandezza del mistero dell’amore di
Dio. Da qui la complementarietà tra religiosi e laici.
La famiglia carismatica
PER UN CAMMINO
DI SPERANZA
Nessuna vocazione nella Chiesa basta da sola, non tanto dal punto di vista operativo, quanto nel suo essere parola concreta che narra la grandezza del mistero dell’amore di Dio. Da qui la complementarietà tra religiosi e laici.
In preparazione al Sinodo sulla vita consacrata (1994), i padri Generali interrogandosi sugli elementi di maggiore novità che emergevano dall’esperienza dei loro Istituti, vedevano nel rapporto carismatico laici-religiosi, un autentico segno dei tempi. Successivamente, l’esortazione apostolica post-sinodale affermava che nella storia delle relazioni tra consacrati e laici era iniziato un nuovo capitolo, ricco di speranza (VC n.54), facendo capire che il futuro è posto nell’accoglienza di queste alleanze profetiche, come una questione radicale per la loro esistenza.
Da separatezza
a complementarietà
Nessuna vocazione nella Chiesa basta da sola e non tanto dal punto di vista operativo, quanto da quello del suo essere parola concreta che narra la grandezza inesauribile del mistero dell’amore di Dio
. Da qui la complementarietà tra religiosi e laici, «quella che non è data dal guardarsi l’un l’altro ma dal guardare insieme nella stessa direzione».
Veniamo dal tempo in cui si pensava che il carisma vissuto da un fondatore/trice potesse essere vissuto soltanto dai religiosi e religiose. Questo è storicamente spiegabile con il fatto che nel passato un dato carisma ha da subito trovato una speciale sintonia con la vita religiosa e si sia quasi automaticamente riversato in essa rinchiudendosi, trovandovi garanzie di radicalità, di vitalità, di organizzazione, tutte cose che poi hanno cristallizzato il carisma nelle forme più proprie a «una casta di diversi che lentamente si separa differenziandosi dal suo popolo […] facendo dell’identità una questione di superiorità». A ciò si aggiunge inoltre che un carisma impiantato dapprima in una lunga tradizione di consacrazione fatta di esperienze, di linguaggi, di riflessioni, di testi, di opere attinenti al mondo religioso non può essere semplicemente applicato alla vita laicale, rimanendo il punto di vista quello dell’Istituto, per cui ai laici non rimarrebbe che viverlo solo di riflesso, in stato di minorità, «come un’appendice», un alone dei consacrati.
Quando questo avviene, il carisma si blocca a monte perché l’Istituto si considera depositario, custode, garante del carisma. Ma «i carismi – dice il Papa – non sono un patrimonio chiuso consegnato a una istituzione o a un gruppo perché lo custodisca». Queste espressioni vengono a dire che i carismi non sono monopolio dei religiosi/e, ma – dice ancora il Papa - si tratta piuttosto di doni dello Spirito dati alle persone, integrate nel corpo ecclesiale, attratti verso il centro che è Cristo». Ne consegue che «un Istituto non è il legatario esclusivo del carisma iniziale; gli associati sono dunque in diritto di considerarsi come eredi plenari e legittimi del carisma: anch’essi sono portatori della sua eredità».
Oggi si riscopre sempre più il fatto che i carismi dei fondatori e delle fondatrici, essendo suscitati dallo Spirito per il bene di tutti, devono essere di nuovo collocati al centro della Chiesa (Rdc 31), perché tutti possano attingere l’acqua dalla stessa sorgente carismatica, assumendone direttamente le forme concrete di incarnazione secondo il proprio stato.
Dunque destinatari dei doni dello Spirito sono tutti i cristiani, infatti nella Chiesa la maggior parte dei carismi sono nati laicali: si pensi a Francesco, Domenico …, e dal Concilio in poi, all’esplosione dei carismi sorti, quasi tutti, non ad opera dei religiosi. Dunque la freschezza di una spiritualità non può essere costretta nei piccoli spazi di un mondo (la vita religiosa) oggi in difficoltà.
Alleanza profetica
e famiglia carismatica
L’esortazione apostolica post-sinodale (1996) indica in questa alleanza la possibilità di una autentica e positiva fecondazione reciproca in funzione di una spiritualità capace di far vivere il Vangelo in termini nuovi.
La Famiglia carismatica è quella che «comprende cristiani laici che si sentono chiamati, proprio nella loro condizione laicale, a partecipare della stessa realtà carismatica dei religiosi». Questa definizione espressa da papa Francesco nella lettera apostolica rivolta ai religiosi merita d’essere presa in considerazione nelle sue parti.
Per Famiglia si intende, l’incontro di due realtà diverse (religiosi/e e laici e laiche) che si mettono in rapporto – non a senso unico – per la condivisione di un progetto di vita evangelico che dia forma ad uno «stile di vita» connotato dalla spiritualità di un Fondatore/trice. Con l’espressione stile di vita non si intende soltanto la visione spirituale, ma anche il saper leggere insieme le sfide, di orientare le scelte, dell’interrogarsi come “insieme” in rapporto al territorio.
Questa è una rilevante novità. Non è invece novità che dei laici si organizzino per vivere una spiritualità vissuta dai religiosi; è novità il fatto che laici e religiosi si costituiscano famiglia, cioè persone che non stanno solo a fianco ma anche dentro per una comunicazione interpersonale fatta di prossimità, di reciprocità, consonanza, risonanza affettiva. Si tratta di una intesa comunionale che è più esigente di una generica familiarità, per cui in questo ambito più ristretto non è sufficiente – sarebbe anzi improprio – parlare soltanto di animazione o assistenza spirituale da parte dei religiosi e religiose.
Sia l’identità che l’unità di un gruppo in comunione fraterna non sono dati da un elemento istituzionale, ma da un senso di appartenenza che passa attraverso i rapporti personali attenti al riconoscersi non dalle maschere del ruolo ma dal volto. Un volto di benevolenza, tenerezza, giovialità, fraternità, semplicità, volontà di servire, perché ciò che salva è quella bellezza del vivere che non è data dagli atti ma da una vita di comunione con persone concrete che vogliano vivere da fratelli e sorelle, con le quali tessere relazioni di prossimità ad altezza dello sguardo e a portata della voce. A questo si arriva abilitandosi alle relazioni che nascono dall’incrociare sguardi, preoccupazioni, desideri, riflessioni. questo è ciò che rigenera la vita e la fede. Per una “vita insieme” si ha bisogno di persone serene che conoscano la gioia, la più vera, quella del cuore che traspare dal viso e dai gesti di persone capaci di amare e di lasciarsi amare, contente di essere chi sono, dove sono e con chi sono.
Se è così, quando si incontra un vero portatore di un carisma, specie se è quello della condivisione – dice il Papa – «la prima e più radicale esperienza che si ha è la sensazione fisica di incontrarti con persone che ti vogliono bene, e fanno bene al mondo con il loro esserci». Questo viene a dire che le proposte evangeliche per essere efficaci devono essere umanamente significative.
Siffatta forma di comunione tra laici e religiosi richiede una prassi di compartecipazione, riconoscibile dai periodici incontri di fraternità, di preghiera, convivialità, progettualità, tenendo in considerazione che il più e il meglio non è dato dal numero degli incontri o delle cose che si fanno insieme ma dal grado di riconoscimento reciproco e dalla tensione ideale.
Infine, segno della comunità che ha fatto la scelta della integrazione è dato dal sentire che ognuno cresce nell’esercizio dello scambio di doni che sono quelli della laicità e della consacrazione.
Il termine «carismatica» associato a «famiglia » non dice innanzitutto una funzione ma rimanda a «charis»: cioè grazia, carezza di Dio il quale nel dare la vita, dona alla libertà delle persone varie attitudini, doti, inclinazioni, alcune spinte dal di dentro di te che fanno un tutt’uno con la vita. Vale a dire che chi è portatore di un carisma agisce perché è fatto così, per cui non potrebbe fare diversamente. Allora aprirsi a un carisma è accettare di diventare via via ciò che potenzialmente già si è, custodendo e alimentando quel «qualcosa» che ci abita per diventare sempre meglio nel tempo quello che identitariamente si è nel profondo, per cui incontrare un carisma non è imbattersi in qualcosa di esterno, perché è incontrare se stessi avvertendo una consonanza tra la propria realtà interiore più vera e quella che si incontra nell’esperienza di un fondatore o fondatrice. In questo sta la vocazione. Si può apprendere un mestiere, ma non si può imparare una vocazione: Van Gogh imparò le tecniche pittoriche, ma era già Van Gogh.
Da quanto detto appare chiaro che una siffatta famiglia non è da confondersi con un gruppo di spiritualità o un gruppo verso cui il religioso/a si protende per fare dell’apostolato; o di amici simpatizzanti, convocati per incontri festosi (siano essi di preghiera, commensalità, scambio di vedute o cose da farsi insieme), di tanti, da tante parti in cui il più si esaurisce in uno stile di vita simpatico.
Come nasce
una famiglia carismatica?
Un’idea come questa arriva a compimento– sia in chi la propone sia in chi l’accoglie –- solo se c’è una emozione positiva che la sostiene, mentre ciò che viene pensato e poi proposto istituzionalmente dall’alto non diventerà mai efficace. Con delibere e statuti non si fa molta strada, non sono ancora promozione: questa richiede la presa in carico da parte di persone che standone dentro e non sopra, con mani in pasta e occhi all’orizzonte, possano pilotare la complessità con continui aggiustamenti: persone dotate di «intelligenza in azione», disponibili a progressivi riposizionamenti per trovarsi bene nel continuo viaggio dell’apprendimento. Ecco perché si dice che il futuro possibile non verrà dall’alto ma dal basso attraverso persone appassionate che del «pensato» vogliano diventarne «facitori», rischiando i propri passi su strade inedite.
All’origine ci devono essere dei laici e dei religiosi che abbiano un preciso progetto le cui linee guida siano riconoscersi, identificarsi, incontrarsi per un cammino di vera e profonda fraternità, che renda possibile lo scambio di doni secondo lo specifico di ognuno. È un’intesa da rinfrescare poi continuamente, nella consapevolezza che l’essere fratelli e sorelle è riconosciuto dal vivere le stesse istanze, accomunati da una stessa idealità. Per parte dei religiosi e dei laici, partecipare allo stesso carisma significa – assumendone la globalità – condividerlo in qualche suo aspetto, come parte di un tutto con il quale confrontarsi, integrarsi, sistematizzarsi, senza ”confondersi”. Il principale costo di questo cammino è costituito dalla fatica di tradurre le diversità di tale binomio in complementarietà.
La «famiglia carismatica» è frutto dell’incontro di domande diverse e convergenti: da parte dei laici c’è una domanda di spiritualità connotata di dimensione laicale, capace di rispondere ai bisogni del tempo. Da parte dei religiosi la «domanda» che incrocia quella dei laici è di far sì che i carismi diventino produttivi di una spiritualità fruibile da un vasto numero di persone, convinti «d’aver qualcosa da dare ma anche molto da ricevere» specialmente quello di ri-esprimere in situazione di secolarità il proprio bagaglio spirituale a partire dalla consapevolezza che le risposte di ieri non bastano più.
La sua pienezza
da religiosi e laici
Un “carisma”, per poter essere dono alla Chiesa nella pienezza delle sue potenzialità, non soltanto «concede spazi» ma necessita di complementarietà. Per cui pensare che l’unica e piena realizzazione del carisma sia quella espressa dalla vita religiosa, vuol dire impoverirlo e negarlo nella sua vera destinazione
«Rifondare» un carisma oggi significa riposizionarlo dove diversi stati di vita possono assimilarlo nella forma propria. È doveroso quindi ricollocare i carismi nel contesto di una ecclesiologia rinnovata a partire dal credere che il carisma ha una sua natura primaria che lo porta ad innestarsi nella vocazione battesimale. I carismi si collocano dove il tronco della Chiesa affonda le sue radici, difatti lo Spirito li destina alla edificazione della Chiesa stessa.
Se questa è la finalizzazione del carisma, per i religiosi/e, lavorare in un'ottica di integrazione con i laici, significa accettare di giocare "fuori casa" cioè fuori delle proprie mura mentali perché il punto di convergenza e di incontro, in fedeltà alla vocazione di ognuno, è il carisma di un fondatore e non dell’Istituto. Su questa base gli uni e gli altri troveranno la capacità di gustare e incrementare la stessa comunione e la stessa missione
L’insieme della dimensione religiosa e laicale, maschile e femminile, fa sì che il carisma possa tendere al suo “compimento”: vale a dire che la ricchezza del carisma si manifesta in pienezza quando arricchendosi di laicità, sempre più rivalutata nell’attuale sensibilità ecclesiale, si concretizza nei diversi modi di vivere la vita cristiana.
Laici associati all’istituto
o associati tra di loro?
Un Istituto religioso, come ogni istituzione, è tendenzialmente portato all’autoreferenzialità, che scivola nel voler inquadrare a partire da sé ogni esperienza. Da qui la tentazione di radicare il laicale nel sistema religioso piuttosto che il religioso (spiritualità, carismaticità) nel laicale. La tentazione delle strutture forti è di fare degli “altri” dei conformizzati, e in questo inciampano anche i religiosi; ma non sono loro gli unici detentori del carisma perché il dono li oltrepassa; rimane sempre dono libero, dato alla Chiesa.
Per garantire il rapporto di complementarietà delle diversità è auspicabile che i laici custodiscano la loro autonomia associandosi strutturalmente innanzitutto tra loro per vivere il carisma secondo la propria specifica indole secolare. Soltanto così potranno trovare la loro strada e le loro espressioni di vita tipicamente laicali. Il cammino è da sintonia a reciprocità e non subalternità, per il fatto che i laici non vanno a configurarsi come oblati o affiliati all’Istituto. Diversamente – come di fatto avviene – la partecipazione dei laici alla vita dell’ “insieme” e ai suoi momenti decisionali sarà ridotta a forme simboliche di rappresentanza, per cui – ad esempio – quando si ipotizzano nuove congetture in riferimento alla «famiglia carismatica» o a percorsi comuni di formazione e di condivisione, il punto di vista prevalente sarà quello dell' istituzione.
Il cammino dei laici, poi, non può essere scandito o influenzato dalla incessante discontinuità di servizio delle leadership religiose, dovuta a istanze canoniche o altro che portano alla danza delle successioni: si avvicendano i Generali, i Provinciali, i Responsabili di comunità, ognuno con diverse sensibilità, tendenze di pensiero, soggettività delle scelte che possono rendere difficile e talvolta impossibile il camminare con coloro che vorrebbero accompagnarsi per un cammino carismatico laicale.
Ai religiosi spetta saper testimoniare una esperienza di vita, mostrare la ricchezza, la bellezza di una particolare eredità spirituale, attraverso cui suscitare il desiderio di condividere la medesima esperienza con quei laici che guidati dal di dentro – perché abitati dalla stessa interiorità di un fondatore – scoprono una sintonia, una consonanza vocazionale e carismatica infusa dallo Spirito Santo.
Il luogo naturale della fermentazione di tutto ciò è il territorio ecclesiale e civile: in questo la dinamizzazione della famiglia carismatica sarà in proporzione della fecondazione reciproca, diversamente dal tempo in cui le identità erano ricercate nella separazione.
Siamo capaci di rapportarci ai laici con criteri che non ne facciano dei semplici “cooperatori a tempo” o laici funzionali alle nostre esigenze?
Sarebbe fortemente riduttivo dare una immagine del carisma indicando, delle azioni, dei compiti e impegni lavorativi. Dovremmo sempre raccontare innanzitutto un’esperienza dello Spirito e le motivazioni ideali. La condivisione del carisma non è quindi la partecipazione a una istituzione di professionisti in campo sociale: è la partecipazione alla vita nello Spirito, che spinge a vivere tutta l’esistenza cristiana secondo una prospettiva particolare con l’impegno a riscoprire, man mano che si cammina, il segreto del carisma in termini vitali.
È stato questo il fattore che, pensando ai laici, ha smosso le acque o è stato qualcos’altro?
In verità da vari decenni si parla di «famiglia carismatica», discorso però che è andato a essere sempre più all’attenzione in proporzione inversa al decrescere dei religiosi. Da qui la domanda: non sarà che tutto questo è dato dall’interesse di poter sopperire alla mancanza dei religiosi/e nel portare avanti le tante opere? In tal caso il motivo, pur lodevole, non sarebbe vocazionale, ma funzionale. Non stupisce allora che l’impegno prevalente si sia riversato nel fare degli operatori dei collaboratori, con la conseguenza che ora la maggior parte di questi si sente legittimata dalla professione, più che dall'appartenenza ad un “mondo vitale”, venendo meno in tal modo molti investimenti di senso. La conseguenza è che oggi ci si trova con tanti dipendenti e rari condividenti di un progetto carismatico.
Una formazione
fatta assieme
Per formazione fatta insieme (religiosi-laici) non si intende soltanto istruzione o comunicazione di un “prodotto” preconfezionato ma quanto è d’aiuto a trovare i presupposti, i riferimenti, perché la vita venga abitata nelle dimensioni più profonde.
Un’ «idea» che nasce da un rilevante bisogno di ricerca di valori, significati della vita, senso della storia delle persone, per diventare progetto di vita ha bisogno di essere in vario modo alimentata con il mettere in comune tra persone consentanee, suggestioni e utopie che possano dare un futuro e un di più di senso a ciò che si fa e si è. Formazione è il ritrovarsi insieme per l'interiorizzazione delle esperienze, con attenzione ai necessari equilibri tra il fare e l'essere: senza questo tutto si brucia in fretta. Rendere contenuto della formazione anche i vissuti è più difficile ma più vitale per aiutare a percorrere in tempi proporzionatamente brevi «il lungo tragitto dalla mente al cuore»: è qui l’aspetto affascinante della formazione. A dimostrare che questo è mancato sta il fatto che il tema della «famiglia carismatica», nella quasi totalità delle congregazioni non è entrato nella formazione curricolare dei giovani religiosi/e per i quali i modelli formativi probabilmente sono ancora in prevalenza legati alla trasmissione di contenuti, conoscenza di metodiche in funzione del ruolo o dello sviluppo e delle sue abilità, meno invece alla comprensione di quello che accade, o sta per accadere o sarebbe bene che accadesse in riferimento al carisma. Capisco che per tutto ciò lo spazio migliore non sia un’aula magna; rimane il fatto che la cultura carismatica d’insieme non ha trovato spazi di comunicazione culturale o di elaborazione di significati. Ed è così che quasi nessuno dei giovani religiosi che sono usciti dagli studentati, si è poi impegnato in una convincente condivisione carismatica per un cammino d’insieme tra religiosi e laici. Neppure è andato aumentando l’interesse dei religiosi/e inseriti nel lavoro apostolico non avendo l’Istituto investito quanto necessario, (se non in sporadici incontri celebrativi) prima nella promozione e poi nella ricerca di tempi, a livello provinciale o nazionale che permettessero il confronto, la condivisione di idee e di scelte formative.
Perché molti degli antichi carismi faticano a proiettarsi nel futuro mentre ne sorgono, vigorosi, dei nuovi?
Il discorso non è nuovo. Già lo strumento di lavoro del Congresso mondiale della vita consacrata (2004), faceva presente che i processi di revisione culturale nella vita consacrata sono molto lenti. Il piede sull’ “acceleratore” con marcia innestata è discontinuo. E inoltre, in tempo di alta velocità, sono i vetusti, rigidi binari la causa del “treno” sempre più in ritardo, con la conseguenza che, per quanto riguarda la storia, arrivare in ritardo significa non arrivare.
I binari su cui viaggia la vita religiosa sono i capitoli, e poi i tavoli alti nazionali e internazionali, strumenti che si prestano a proclamazioni altisonanti ma inadeguate a far crescer alternative generative perché la strada si apre soltanto a chi la intraprende con i passi della quotidianità e non a chi la indica. Ma poi non bastano le idee per far camminare: al di sotto di queste ci deve essere un rapporto emotivo tra le idee e chi le propone, che costituisca lo sfondo su cui esse si sviluppano.
È dagli inizi degli anni ’80 che in alcune congregazioni si parla di carisma condiviso. Nell’incontro dei «religiosi e laici insieme nella stessa famiglia carismatica» (Roma 6,11 2015), il relatore del convegno, p.F.Ciardi ricordava che nel 1987 il Generale dei Giuseppini del Murialdo invitava i suoi confratelli addirittura a «ripensare il proprio carisma originario a partire dal rapporto con i laici». Ma le istituzioni hanno memoria corta perché consegnata a documenti che ben presto vanno in archivio; da qui la propensione a deliberare qualcos’altro piuttosto che impegnarsi a portare a compimento il già deliberato. Si può allora dire che di quando in quando le “accelerate” ci sono, seguite però da lunghi tratti di viaggio in “folle”.
Il motivo poi per cui, da dopo il Concilio, siamo spettatori del sorgere di carismi energici e vivaci, porta a renderci conto che il vigore di questi è dato dal fatto che oggi il nuovo nasce dal basso anziché dall’istituzione, da laici e laiche piuttosto che da religiosi e clero; e soprattutto dalla sensibilità dei giardinieri piuttosto che da quella dei notai.
Rino Cozza csj