Zamboni Stefano
La ferita del Cuore
2016/6, p. 15
La rivelazione del Cuore di Gesù non è il simbolo astratto di un amore generico di Dio per l’umanità, ma la manifestazione di una dedizione concreta, di una sofferenza reale, di un amore umanamente inconcepibile. L’icona di questa dedizione è rappresentata nella trasfissione del fianco di Gesù.
La devozione al Cuore di Gesù oggi
LA FERITA
DEL CUORE
La rivelazione del Cuore di Gesù non è il simbolo astratto di un amore generico di Dio per l’umanità, ma la manifestazione di una dedizione concreta, di una sofferenza reale, di un amore umanamente inconcepibile. L’icona di questa dedizione è rappresentata nella trasfissione del fianco di Gesù.
Uno dei quattro principi enunciati da papa Francesco nell’Evangelii gaudium afferma che la realtà è superiore all’idea. Illustrandolo, il papa ne presenta alcune degenerazioni che in diverso modo occultano la realtà: «i purismi angelicati, i totalitarismi del relativo, i nominalismi dichiarazionisti, i progetti più formali che reali, i fondamentalismi antistorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi senza saggezza»
Sono atteggiamenti che, ancor prima di declinarsi in rapporto alla realtà sociale, insidiano il nostro sguardo di fede. Pensiamo, per esempio, alla tentazione di una fede “pura” che sfugga ogni contatto (o, persino, contagio) con la storia o al suo utilizzo strumentale, quando la si brandisce come baluardo di valori irrinunciabili, di astratti principi granitici, dimenticando la testimonianza della bontà e la supremazia della misericordia.
Anche nelle cose della fede, anzi soprattutto in esse, occorre ricordarsi che la realtà supera l’idea. Che il nostro essere cristiano non si basa né sulla potenza dell’idea né sull’attrazione dell’ideale, ma si declina in riferimento alla realtà, a partire dalla realtà indeducibile del Figlio di Dio incarnato, morto e risorto pro nobis. E qui trova la ragion d’essere l’attualità, la perenne giovinezza della devozione al Cuore di Gesù. Essa, proprio nel suo essere “sintetica” (non una devozione fra le altre, ma che si riferisce al nucleo della fede), intende porsi come custodia di questa realtà, dell’evento pasquale, in cui va rinvenuto il nucleo della spiritualità del Cuore di Gesù, ritrovandolo forse al di là dei rivestimenti più o meno legittimi che lungo i secoli si sono venuti formando.
E proprio a partire da qui vorrei sviluppare due ordini di considerazione rispetto all’attualità di questa devozione per l’oggi della Chiesa, considerandone rispettivamente l’oggetto e la prospettiva in cui si situa.
Il paradiso
della nostra origine
La rivelazione del Cuore di Gesù non è il simbolo astratto di un amore generico di Dio per l’umanità, ma la manifestazione di una dedizione concreta, di una sofferenza reale, di un amore umanamente inconcepibile. È precisamente l’avvenimento realissimo della croce, dove si dà una concretezza carnale che è inimmaginabile per l’uomo “religioso” che presuma di pensare Dio, che la devozione al Cuore di Gesù intende salvaguardare.
L’icona di questa dedizione la vediamo rappresentata dall’evangelista Giovanni nella scena della trasfissione del fianco di Gesù (Gv 19, 31-37). È qui che la devozione al cuore di Gesù scorge il riferimento al «cuore aperto» (cf. Gv 19,34), a un’apertura che spalanca le viscere di misericordia di Dio e rivela così il mistero ultimo di Dio. Non si parla, come è noto di cuore, ma il fianco trafitto di Gesù ci mostra che da questa ferita, procurata semplicemente per accertarsi della morte del crocifisso, è possibile intravedere il mistero di cui Gesù vive, la passione di cui è vissuto ed è morto. Un fianco squarciato «affinché, attraverso la ferita visibile, vedessimo la ferita invisibile dell’amore», come afferma la Vitis mystica, un opuscolo spirituale medievale attribuito (erroneamente) a san Bonaventura. Una ferita che squarcia, per così dire, la divina impenetrabilità, mostrandoci di quale amore è capace Dio. Una ferita che apre il cuore. E questa apertura del cuore, per dirla con von Balthasar, «sta ad indicare il dono (…) di quanto di più personale ed intimo Gesù ha; lo spazio aperto, svuotato, può essere accessibile a tutti».
La ferita del fianco del Crocifisso rivela dunque l’amore infinito, indomabile, di Dio. È molto eloquente che per parlare dell’amore di Dio – di cui nell’ambiente ecclesiale si parla davvero troppo, in modo spesso approssimativo o enfatico, opportune et importune – la devozione al cuore di Gesù abbia come referente simbolico una ferita. Una ferita che si incide nella carne del Figlio di Dio, che mostra la verità dell’incarnazione e la concretezza tutt’altro che eterea e spiritualista che assume il mistero di Dio che si chiama agape.
È una ferita, quella del Cuore di Cristo, che mostra a qual punto Dio si coinvolga nel rapporto con l’uomo, in modo sensibile, materiale, con tutto l’affetto di cui è capace, nelle viscere della sua misericordia. È una ferita che sanguina, che costa tanto a Dio. La morte in croce non è l’offerta di una grazia a buon mercato, direbbe Bonhoeffer, ma è a caro prezzo: il prezzo di un amore appassionato, indomabile, «fino alla fine» (Gv 13,1).
È una ferita, quella del Cuore di Cristo, che si espone in modo gratuito, offrendosi allo sguardo contemplativo del credente («Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto»), ma si espone anche allo scherno di chi deride, ironizza sulla figura di una salvezza che non può certo venire in quel modo («Ha salvato altri, salvi se stesso!»). Ed è una ferita feconda, perché da quelle piaghe siamo stati guariti (cfr. Is 53,5). Siamo stati guariti precisamente mediante la vulnerabilità del cuore del Figlio, del suo farsi toccare nella carne. È da questa ferita che nasce la Chiesa: Ecclesia ex corde scisso. Ed essa mai dovrebbe dimenticare di essere nata dalla feconda vulnerabilità del Figlio di Dio.
È una ferita, quella del Cuore di Cristo, accolta, che mostra la forza dell’amore. Come osservava Josef Pieper, la virtù della fortezza presuppone la vulnerabilità e consiste, in radice, nel «saper accettare una ferita». La ferita del Figlio di Dio non ci parla di una debolezza decadente (quanta retorica nei discorsi sulla debolezza di Dio!), ma della forza, del coraggio di chi assume il proprio destino e ne accetta le ferite, costi quel che costi. E, in quanto accolta, è anche accogliente: nella ferita del Trafitto trovano posto tutte le ferite della storia, quelle dei disperati, dei bambini violati, dei profughi, degli abbandonati, le ferite di solitudini inconsolabili e di vite sfregiate.
Ed è una ferita, quella del Cuore di Cristo, che è «paradiso della nostra origine», come scriveva Turoldo in una sua lirica. La devozione al cuore di Gesù ci mostra non solo che le ferite, quelle di tutti noi, possono essere guarite. Ma ci mostra, più radicalmente, che le nostre ferite, o meglio, potremmo dire, la nostra ferita – quella che noi in qualche modo siamo dal momento che nasciamo, esposti alla morte – è paradiso perché è abitata da un amore così, quello del Cuore di Cristo. La ferita dell’origine è feconda, è affidabile, si può trasformare in grazia.
Toccare
e lasciarsi toccare
Situandosi qui, nella realtà indeducibile del Trafitto, la devozione al Cuore di Gesù raggiunge il mistero di quel Dio che nessuno ha mai visto (cfr. Gv 1,18), l’essere stesso di Dio che è amore (cfr. 1Gv 4,8). Lo raggiunge non come idea, ma lo vede, lo sente, lo tocca, nel corpo lacerato del Crocifisso.
Occorre recuperare urgentemente questo aspetto della fede: il vedere, il sentire, il toccare. José Tolentino Mendonça, autore di una sapida meditazione su una mistica che dia spazio ai cinque sensi, scrive: «Ci serve una nuova grammatica che sappia conciliare nel concreto gli elementi che la nostra cultura ritiene inconciliabili: ragione e sensibilità, efficienza e affetti, individualità e impegno sociale, amministrazione e compassione, spiritualità e sensi, eternità e istante». Ci serve dunque una rinnovata alleanza fra le diverse dimensioni dello spirito. È a questo che serve una devozione. Situandosi all’incrocio fra teologia ed esperienza, fra rappresentazione e affetto, la devozione custodisce la realtà della fede, impedendole di degenerare in semplice idea, in intellettualismo senza vita.
Nel cuore di Gesù vediamo un Dio complice dell’affettività, ci viene rivelata tutta la passione del suo amore. La fede che è dischiusa qui non è solo una fede che procede dall’ascolto (fides ex auditu), non è solo una fede che vede (oculata fides), ma è anche una fede che tocca, una fede come “con-tatto”. Lo dice molto bene papa Francesco quando ci ricorda, nella Lumen fidei, che «con la sua Incarnazione, con la sua venuta tra noi, Gesù ci ha toccato e, attraverso i Sacramenti, anche oggi ci tocca; in questo modo, trasformando il nostro cuore, ci ha permesso e ci permette di riconoscerlo e di confessarlo come Figlio di Dio. Con la fede, noi possiamo toccarlo, e ricevere la potenza della sua grazia. Sant’Agostino, commentando il passo dell’emorroissa che tocca Gesù per essere guarita, afferma: “Toccare con il cuore, questo è credere”».
Il paradosso è che in un tempo come quello che stiamo attraversando è difficile lasciarsi toccare. Se è vero che i nostri sensi sperimentano sollecitazioni continue e disparate, questo, anziché renderci più sensibili, produce in noi una sorta di saturazione sensoriale che conduce all’atrofia della nostra sensibilità. Siamo talmente esposti, siamo tanto pieni di contatti, che alla fin fine ci precludiamo una relazione autentica con l’altro, una relazione in cui ne vada veramente di noi stessi. E la tecnica, mentre produce possibilità fino a poco fa impensabili di contatti, in fondo però ci anestetizza dal contatto autentico con l’altro, dal suo volto, dal suo gioire e dal suo patire.
La devozione – che è rapporto di dedizione, dono, offerta (votum) – implica come atteggiamento fondamentale questa apertura al tocco dell’Altro. È devoto chi si espone, abbassa le difese, si abbandona al mistero di un Dio sensibile all’uomo, di un Dio che dall’uomo desidera farsi toccare. Marcello Neri, in un saggio recente sulla spiritualità dehoniana, parla di devozione come «transito della vita». La devozione, in altri termini, ci consente di far passare la vita, le sue speranze e la sua angoscia, la sua negatività e le sue aspirazioni, nella relazione con questo Dio sensibile all’uomo.
Il contatto con il Dio rivelato nel Cuore del Salvatore diventa così, nella concretezza della devozione, contatto con la nostra interiorità più profonda e con le nostre ferite più nascoste. Diventa contatto con l’altro, con l’uomo ferito che mi si fa prossimo e desidera, anche solo tacitamente, il gesto di un’accoglienza pienamente umana. In altri termini: la devozione al Cuore di Gesù è garanzia che le nostre ferite toccano Dio, che sono custodite nella ferita del Trafitto, nel paradiso della nostra origine.
Stefano Zamboni scj