Salvarani Brunetto
Il Sinodo panortodosso
2016/6, p. 12
Si può immaginare che a Creta il mondo ortodosso punterà a offrire una manifestazione pubblica della sua unità, mostrando che le diverse Chiese autocefale possono operare e testimoniare unitariamente nell’oggi della storia senza venir meno alla (così amata) Tradizione.

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Appuntamento a Creta dal 16 al 27 giugno
IL SINODO
PANORTODOSSO
Si può immaginare che a Creta il mondo ortodosso punterà a offrire una manifestazione pubblica della sua unità, mostrando che le diverse Chiese autocefale possono operare e testimoniare unitariamente nell’oggi della storia senza venir meno alla (così amata) Tradizione.
“Siamo oggi di fronte al crocevia della storia. Le immense difficoltà che incontrano i nostri contemporanei esigono una responsabilità che supera le nostre istituzioni ecclesiali”: con queste parole il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, si rivolgeva ai presenti durante una concelebrazione liturgica avvenuta a Chambésy, sul lago di Ginevra, in Svizzera, nel corso di una riunione dei primati ortodossi chiamata ad assumere le ultime decisioni sull’imminente Sinodo (o Concilio) panortodosso.
Era la fine di gennaio di quest’anno. Una riflessione che sottintendeva l’estrema rilevanza di un appuntamento atteso da gran tempo, annunciato ufficialmente per la prima volta in chiusura della Sinaxis di marzo 2014, svoltasi al Fanar, nei pressi di Istanbul, sede del patriarcato ecumenico: tra i dettagli forniti sulla futura assise c’era la sua sede, che avrebbe dovuto essere proprio Istanbul; la data, il 2016; e la notizia, non secondaria nel quadro delle dinamiche interortodosse, che le decisioni conciliari dovranno essere prese sulla base del principio del consenso, cioè solo se saranno approvate all’unanimità da tutte le singole chiese.
Nell’incontro svizzero, che ha sciolto le ultime riserve sull’effettiva effettuazione del Concilio, i primati hanno inoltre discusso e definito le sue regole interne, l’istituzione di un segretariato panortodosso, la partecipazione degli osservatori esterni alle sessioni di apertura e conclusione, così come i costi finanziari dell’iniziativa.
Nel comunicato finale, essi esprimevano poi il loro sostegno ai cristiani perseguitati in Medio Oriente e la loro preoccupazione costante per i due metropoliti Paul Yazigi, del patriarcato di Antiochia, e Gregorios Yohanna Ibrahim, dell’arcidiocesi siriaca, rapiti in Siria ormai nel 2013.
Se la data è stata mantenuta, la sede, invece, non sarà più quella prevista: la decisione, infatti, è caduta sull’isola di Creta, a pochi chilometri dalla città costiera di Canea, nelle sale della moderna Accademia Ortodossa costruita negli anni Sessanta con il patronato spirituale del patriarcato di Costantinopoli e con i fondi della chiesa evangelica tedesca.
I giorni saranno dal 16 al 27 giugno, comprendendovi, significativamente sul versante simbolico per la rilevanza della dottrina sullo Spirito santo in questa tradizione, la Pentecoste ortodossa, che quest’anno cade il 19 giugno. La causa dello spostamento, verosimilmente, si lega a una questione di ordine geopolitico, visti gli attuali, assai tesi rapporti fra Turchia e Russia: e il patriarcato di Mosca ha accettato di buon grado lo spostamento a Creta.
La rivalità tra la potente chiesa russa, comprendente più di metà della popolazione ortodossa mondiale, e il patriarcato di Costantinopoli, che a Istanbul conta meno di 3 mila fedeli ma vanta un primato di onore sull'intera ortodossia, è infatti da molti anni – com’è noto – uno dei conflitti irrisolti all'interno dell'Oriente cristiano, con riflessi indiretti sui rapporti con la Chiesa di Roma (con qualche beneficio d’inventario, per comodità, si potrebbe dire che nello schieramento favorevole a Costantinopoli convergono, oltre agli antichi patriarcati di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, Atene, Sofia, Belgrado e Tirana; mentre sono vicini a Mosca il patriarcato di Georgia, la Chiesa polacca, quella ceca e quella romena). L’anno scorso, del resto, rispondendo al direttore di Civiltà Cattolica, Antonio Spadaro, lo stesso Bartolomeo I si era soffermato sui principali problemi che oggi attanagliano l’ortodossia, affermando con franchezza che “c’è un elemento conservatore in crescita in molte chiese e ambienti ortodossi, che reagisce alle sfide contemporanee della nostra epoca rinchiudendosi in un’esistenza soffocante ed escludente” (La Civiltà Cattolica 3955, 4/4/2015).
Gli attuali
scenari dell’Ortodossia
In ogni caso va detto che, comunque vada, la semplice notizia della realizzazione del Sinodo ha decisamente un sapore storico. In effetti, sono passati oltre dodici secoli dal secondo concilio di Nicea (787), l’ultimo riconosciuto ufficialmente dalla Seconda Roma. Gli ortodossi – oggi circa 250 milioni nel mondo – sono legati tradizionalmente all’eredità dei primi sette concili ecumenici, celebrati tutti, dal 325 al 787, nei territori dell’impero romano d’Oriente; dopo il cosiddetto scisma del 1054, che sancì la reciproca scomunica fra Roma e Costantinopoli, non ne sono stati più indetti (tecnicamente, si dovrebbero ricordare anche quello di Lione, del 1274, e quello di Firenze, 1439, celebrati assieme alla chiesa latina ma entrambi ritenuti invalidi dall’ortodossia qualche anno dopo la loro chiusura).
È importante, per comprendere la portata del prossimo Concilio, cogliere gli scenari nei quali l’ortodossia oggi si trova. Secondo Adriano Roccucci, docente di Storia contemporanea all’Università di Roma Tre, si potrebbe indicare un polittico in tre quadri. Il primo racchiude le Chiese uscite dall’esperienza dei regimi comunisti: in quei paesi, soprattutto in quelli dell’ex Unione Sovietica, si è registrato un sorprendente fenomeno di rinascita religiosa, di ritorno, anche per motivi identitari, alla fedeltà alla chiesa, ai sacramenti, e innanzitutto al battesimo, chiesto nei primi anni Novanta da milioni di persone. Qui le Chiese hanno riacquistato piena libertà di azione, ristabilendo strutture e divenendo soggetti dello spazio pubblico: un processo di rilancio, pur segnato da travagli e aporie, oggi sfidato dal confronto, in molti casi inedito per la loro storia, con una società urbanizzata, pervasa dalla mentalità consumista e attraversata dagli effetti della globalizzazione.
Il secondo quadro è quello delle chiese ortodosse in Medio Oriente, per lo più colpite da guerre, persecuzioni e violenze. È una situazione ben nota, purtroppo, che tocca drammaticamente soprattutto i patriarcati ortodossi più antichi e si fa particolarmente tragica in Siria.
Il terzo riguarda la diaspora. In seguito alla grande migrazione europea otto-novecentesca e poi all’emigrazione dalla Russia bolscevica, infatti, si sono formate consistenti comunità ortodosse fuori dalle loro zone di insediamento tradizionale, nelle Americhe, in Australia, in Europa occidentale. Si tratta di un fenomeno che ha conosciuto un’ulteriore fase di crescita dopo i fatti del 1989-1991, con nuovi importanti flussi migratori dai paesi ortodossi dell’Est europeo, in particolare verso l’Europa occidentale. Si sono formate, così, nuove comunità, spesso molto numerose: la situazione italiana, con gli immigrati provenienti soprattutto da Romania, Ucraina, Moldavia e Georgia.
Le attese
del Sinodo
Ma cosa ci si può attendere dall’evento cretese? A Chambésy, quanto alle materie da discutere nel Sinodo, l’accordo pieno è stato raggiunto su quattro degli otto documenti predisposti. Essi riguardano rispettivamente: l'autonomia delle singole Chiese e la maniera di proclamarla (la cosiddetta autocefalia); l'importanza del digiuno e la sua osservanza odierna; le relazioni della Chiesa ortodossa con il resto del mondo cristiano; la missione ortodossa nel mondo contemporaneo in ordine alla pace, alla libertà e alla fratellanza tra i popoli; mentre un quinto documento è stato approvato da tutti tranne che dal patriarcato di Antiochia, in riferimento al sacramento del matrimonio e relativi impedimenti.
Si può immaginare realisticamente che a Creta il mondo ortodosso punterà a offrire una manifestazione pubblica della sua unità, mostrando che le diverse chiese autocefale possono operare e testimoniare unitariamente nell’oggi della storia senza venir meno alla (così amata) Tradizione; e possiamo anche ipotizzare che esso vorrà fornire una prova provata di come sia capace di varcare i confini nazionali della sinodalità. Come ha scritto qualche settimana fa il metropolita Gennadios, della Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia e Malta (che ha sede a Venezia) in un messaggio ripreso da L’Osservatore Romano, il Concilio dovrebbe essere “un dono della divina provvidenza alla propria Chiesa”, in vista di “un nuovo rinnovamento in Cristo che più pienamente aiuterà il fedele ortodosso ad affrontare le sue odierne difficoltà, a risolvere i suoi problemi e ad annunciare l’unità delle Chiese ortodosse locali, vale a dire la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica”. E “anche se si dovessero presentare, durante il suo svolgimento, problemi, difficoltà, ostacoli e altro, non significa che non avremo dimostrazione di salute spirituale e di un sicuro percorso canonico. Con la forza carismatica dell’unità dei vescovi, membri del Sinodo, e con l’assistenza dello Spirito Santo, la Chiesa si rinnova e pertanto questo rinnovamento, che è in Cristo, non si limita alle Chiese solo come istituzione ma si estende al popolo di Dio, a ciascun ortodosso”.
Sarà un kairos
ecumenico?
In conclusione, è doveroso ribadire che l’ormai prossimo Sinodo panortodosso costituirà, per il fatto stesso di tenersi, un segnale considerevole di volontà di unità. In questo senso, è inoltre lecito augurarsi che esso possa avere più o meno dirette ricadute nel ravvivare la tensione all’unione tra le comunità ortodosse in Italia, non di rado, inevitabilmente, attraversate dalle divisioni che separano le loro chiese di riferimento; ma anche nella chiesa cattolica italiana, che sempre più si misura con la presenza ortodossa e con le esigenze di un dialogo fraterno con le singole chiese locali, sempre più significativamente presenti nelle nostre regioni e città. Si tratta di un dialogo e di una condivisione non solo inevitabili, ma anche, potenzialmente, reciprocamente arricchenti. Con i fedeli dell’ortodossia, infatti, si convive ormai quotidianamente: sono le donne che curano i nostri anziani o ci aiutano con i nostri bambini, artigiani e lavoratori con cui abbiamo frequente occasione di rapporto, o compagni di studio dei nostri figli. La cattolicità italiana, perciò, non può non tenere in considerazione questa presenza, anche per l’autenticità della sua testimonianza evangelica. Come notava il cardinal Dionigi Tettamanzi qualche anno fa, richiamando il documento del 2010 Vademecum per la pastorale delle parrocchie cattoliche verso gli orientali non cattolici, predisposto congiuntamente dagli Uffici nazionali per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso e per i problemi giuridici della CEI, e valutando il fatto che il microcosmo ortodosso – plurale non solo per le sue articolazioni giurisdizionali, ma per cultura, spiritualità, mentalità – sia oggi ben presente in Italia come certamente positivo: «La migliore formazione ecumenica è quella che si avvale non tanto di lezioni teoriche di ecumenismo, quanto soprattutto di momenti di vita condivisi, di concrete forme di cooperazione, di scambi utili a scoprire la bellezza delle reciproche differenze e, di conseguenza, a desiderare di approfondirne le ragioni”. Fino a spingersi ad auspicare che ne nascano “scambi e gemellaggi tra alcune nostre comunità e quelle ortodosse da cui provengono molti immigrati» (G. Battaglia, a cura, L’ortodossia in Italia. Le sfide di un incontro, EDB, Bologna 2011, p. 13). Ce n’è abbastanza per dare ragione al priore Enzo Bianchi che, qualche settimana fa, in un articolo dedicato al dialogo fra cattolici e ortodossi, richiamandosi a un augurio del grande ecumenista J.-M. Tillard, pronosticava che saremmo di nuovo testimoni di un vero e proprio kairòs ecumenico? Fra qualche settimana, con ogni probabilità, potremo saperne di più.
Brunetto Salvarani