Arrighini Angelo
Tessitrici di solidarietà
2016/6, p. 5
L’assemblea ha sviluppato il tema “Tessere la solidarietà globale per la vita”, a partire da diverse angolazioni, tra cui: la cura del pianeta, i grandi problemi del mondo, la vita religiosa, la solidarietà e il modo in cui vorremmo viverla”. L’UISG ricordava quest’anno anche il 50° della sua fondazione (8 dic. 1965).
Plenaria UISG 2016 (8-13 maggio)
TESSITRICI
DI SOLIDARIETÀ
L’assemblea ha sviluppato il tema “Tessere la solidarietà globale per la vita”, a partire da diverse angolazioni, tra cui: la cura del pianeta, i grandi problemi del mondo, la vita religiosa, la solidarietà e il modo in cui vorremmo viverla”. L’UISG ricordava quest’anno anche il 50° della sua fondazione (8 dic. 1965).
La visione di un’assemblea di 870 superiore generali come quella riunitasi all’Ergife di Roma per la loro ultima Plenaria (9-13 maggio 2016), fa sempre un certo effetto. Che fossero concrete “tessitrici di solidarietà” nelle realtà più periferiche del mondo e della Chiesa, era risaputo. Forse non lo era fino al punto di quel realismo con cui ne hanno parlato le diverse relatrici. Per capire il mondo in cui viviamo, «dobbiamo spostarci dalla nostra posizione, non solo metaforicamente e figurativamente, ma anche letteralmente», ha esordito sr. Carol Zinn (suore di S. Giuseppe, Filadelfia). C’è bisogno di una “vera conversione”. Diversamente potremmo essere tentate di riunirci qui, lasciarci ispirare le une dalle altre, lasciarci mettere in discussione le une dalle altre e poi (tornate a casa nostra) svegliarci la mattina dopo e continuare le nostre vite e il nostro ministero come se nulla fosse, come se questa assemblea si fosse tenuta su un altro pianeta».
Questa assemblea si tiene a 13 mesi di distanza dalla pubblicazione dell’esortazione apostolica “Laudato sì” di papa Francesco, «una riflessione profetica, poetica, toccante e pratica, che è, al tempo stesso, una chiamata alla conversione». Oggi non bastano più né la collaborazione, né la cooperazione. È indispensabile passare al partenariato, cioè all’insieme di più persone che «lavorano per creare un obiettivo congiunto liberamente e volontariamente, usando processi e risorse per conseguirlo e applicando reciprocità totale di potere, e influenza sull'esito».
Esistono moltissimi progetti, a dir poco meravigliosi, che dimostrano la capacità delle religiose di lavorare insieme a servizio del popolo di Dio e del suo Creato. Ma «siamo abbastanza mature per creare veri partenariati? Come possiamo imparare a farlo? A chi ci rivolgiamo per avere una visione d'insieme, una guida, un modello e dei punti di riferimento?». Perché non mettere in campo «sforzi per trasformare i nostri cuori, menti, case, quartiere, comunità, congregazione, ogni mese dell'anno?». Perché non impegnarsi a «trasformare la nostra visione del mondo, modificando la nostra capacità di essere compassionevoli, rivoluzionando i nostri ambienti sicuri, liberandoci della nostra compiacenza e svincolandoci dalla nostra inerzia?». Perché non impegnarsi «le une con le altre e con altri attori in questo difficilissimo lavoro di trasformazione? E se davvero creassimo partnership le une con le altre, alla fine di questo incontro, sapendo che in tutto il mondo, le religiose saranno partner e alimenteranno il fuoco della trasformazione… tessendo una rete di pensieri, azioni, preghiere e leadership che abbraccia tutto il mondo?». Perché «non usiamo i luoghi che abbiamo per invitare gli altri a impegnarsi in conversazioni coraggiose sulle questioni che sono davvero importanti, lì dove viviamo?».
In un’epoca come questa, non è più possibile sottrarsi alle provocazioni della Parola e del Creato stesso di Dio: «Ci siete, religiose? Qual è la vostra visione del mondo? Vedete davvero cosa avete davanti agli occhi? Vedete davvero le tante opportunità che vi sono offerte di proporre una risposta radicale al Vangelo, in quest'epoca storica e culturale? Siete in grado di capire la situazione, riuscite a vedere cosa potrebbe accadere se foste tessitrici di una solidarietà globale? Riuscite a cogliere la sfida e il costo che questa opera di tessitura rappresenta per voi?».
I poveri cosa
pensano di noi?
«Sono qui come una voce della periferia» ha esordito sr. Mary Sujita (Suore di Notre Dame), con alle spalle «i miei molti anni di esperienza vissuta fra uno dei più emarginati gruppi di persone nel Bihar, India, che hanno formato la mia spiritualità e sfidato il mio modo di essere una religiosa e una missionaria». Sollecitate dalle parole di papa Francesco che spinge per “una chiesa povera con i poveri”, in un’assemblea come questa, le religiose non dovrebbero sottrarsi ad alcune “difficili domande” su cui sr. Mary ha di fatto intessuto tutta la sua relazione: «Come individui, comunità, istituzioni e congregazioni, dove ci collochiamo per la maggior parte del tempo? Dove e chi ci vede o chi incontriamo la maggior parte delle volte? Dove ci porta lo Spirito a ricollocarci come profeti del Regno di Dio? Possiamo unire le nostre teste e i nostri cuori per cercare una risposta?».
Pensando a Gesù, un autentico “attraversatore di confini”, le religiose dovrebbero chiedersi se per caso non stiano riducendo il "pungolo profetico" insito nella loro chiamata, «riempiendosi la bocca del più recente gergo profetico, teologico e sociologico, che ci dà la buona sensazione di fare la missione di Dio anche quando siamo occupate a compiere la nostra personale missione di conservare il passato, proteggere le nostre istituzioni o legittimare il presente!».
Che il mondo sia in crisi non è più un mistero per nessuno. Basta aprire gli occhi sui tanti “segnali critici”, dall’estrema povertà, al deterioramento ecologico, ai conflitti e guerre violenti, alla conseguente mega-migrazione e al traffico di esseri umani, tutti segni che si rischia oggi di qualificare la "nuova normalità". Come si può presumere di realizzare oggi la missione di Gesù quando «tanti hanno fame, sono perseguitati, cacciati via ed emarginati, quando il numero di senzatetto è più in crescita che mai, quando gli uomini, creati ad immagine di Dio sono vittime di traffici, di violenze, venduti e discriminati a causa della razza, della casta, del sesso, della religione, del luogo di origine, quando le risorse della terra vengono saccheggiate con avidità dai potenti, quando sono in crescita moderne forme di schiavitù, quando la politica è diventata un'arma di oppressione e di indulgenza verso se stessi, quando il fondamentalismo religioso sta distruggendo la gente e le nazioni?».
Tutti questi problemi «ci chiamano ad una nuova presenza di solidarietà globale, ad un nuovo modo di vivere la nostra opzione evangelica per i poveri nel nostro mondo di oggi. Non possiamo più ridurre la nostra missione a qualche ministero istituzionale e a buone azioni caritatevoli di tipo tradizionale (che sono comunque necessarie!) e sentirci soddisfatte!». Un sincero impegno per la giustizia e l'attiva preoccupazione per la gente povera «sono parti assolutamente non negoziabili del vivere la nostra fede e il nostro discepolato». Mai come oggi, forse, si sta “teologizzando e scrivendo” sulla scelta radicale a favore di poveri e bisognosi. Ma, ci si dovrebbe chiedere, «a che punto è la solidarietà pratica, concreta, con i poveri? La mia vita di preghiera, la mia spiritualità, il mio stile di vita, il mio modo di vivere la comunità, il mio modo di svolgere il mio ministero, sono influenzati dalla mia radicale preoccupazione, come Cristo, per il povero?». E se, invece, anche le religiose fossero «parte del sistema che crea e sostiene la povertà e lo sfruttamento?». Di fronte a tutti i beni di cui godono spesso le religiose, a tutte le comodità che vengono date per scontate, a tutte le sicurezze date per acquisite, «mi piacerebbe, commenta sr. Mary, che potessimo chiedere al povero di darci una valutazione onesta della nostra vita consacrata come lui la vede e la sperimenta!».
Una domanda del genere la relatrice se l’era posta quando, a Punia in India, condividendo concretamente la capanna di una donna povera, questa, nello stesso giorno, s’era vista portar via, a causa di un focolaio di colera, la figlioletta di 3 anni e il figlio di 5 anni. «Ero davvero prostrata e infuriata che Dio permettesse che a questa povera gente priva di qualsiasi aiuto accadesse una cosa del genere. Ero piena di rabbia col sistema che consentiva una tale assoluta povertà e miseria. Tutto quello che potei fare fu di piangere per solidarietà con tutte le donne piangenti di quel villaggio».
Nella vulnerabilità,
la riscoperta dell’identità
Eventi del genere non possono non dare origine ad una “raffica di domande” sul significato della vita consacrata, dei voti e dei ministeri nel contesto di quel tipo di orribili tragedie che continuano ad accadere tra i milioni di vite di emarginati del nostro mondo: «Qual è la mia reale identità? Sono io colei che rivendico di essere come religiosa? Chi sta traendo beneficio dalla mia vita dedicata? La mia vita farà la differenza per le vite di coloro che più hanno bisogno? Poiché anch'io sono succube del consumismo, non contribuisco forse anch'io al sistema che lascia morire questi piccoli?».
L’esperienza insegna che il povero può dare delle lezioni di vita che sorpassano “qualsiasi teologia e scienza”. È un fatto che la maggior parte delle energie fisiche e spirituali, delle risorse e priorità sono oggi puntate sul ridimensionamento, sulla mancanza di vocazioni, sulle sfide per mantenere in piedi le nostre istituzioni un tempo fiorenti e sicure. Da qui però nascono alcune ineludibili domande: «Quelle di noi che sono chiamate alla vita consacrata in questo momento della storia del mondo, saranno donne che rischieranno di abbandonare le loro sicurezze e comodità e si sposteranno nelle periferie esistenziali e geografiche col messaggio evangelico di speranza, gioia e vita nella sua pienezza? Possiamo, noi religiose, affermare con convinzione e impegno che non vogliamo che i nostri carismi siano così istituzionalizzati e centralizzati da farci perdere il "pungolo profetico" proprio della nostra chiamata per avvicinare discepolato e missione?». Solo esponendosi alle vulnerabilità della vita e della missione nelle periferie, «scopriremo la nostra reale identità e scopo in Cristo».
Quante religiose, quante congregazioni, del resto, da tempo stanno camminando convintamente in questa direzione. Quante religiose «hanno piazzato le loro tende fra i più poveri dei poveri, dei migranti, dei rifugiati, delle persone oggetto di traffici, di lavoratori del sesso, delle persone che soffrono di dipendenze, di disabilità fisiche e psicologiche». Quante religiose lavorano con i governi, con organizzazioni umanitarie «soprattutto nelle aree del traffico di esseri umani, dell'emancipazione di donne e ragazze, delle migrazioni e delle questioni dei diritti umani».
«Sorelle, ha concluso sr. Mary, «cos'altro ci rimane da fare come discepole di Gesù, nella nostra fedeltà a Cristo e alla sua missione? Noi che abbiamo tutto, e spesso siamo fra le donne privilegiate del nostro mondo, di che cosa abbiamo paura? Qual è la radice della nostra viltà e del nostro timore? Crediamo davvero in Gesù? Oppure la nostra fede è solo un concetto teologico che facilmente spieghiamo e insegniamo agli altri? Siamo pronte a passare dall'altra parte dove ci aspetta un nuovo modo di essere religiose, un nuovo modo di impegnarci con tutti i nostri fratelli e sorelle, specialmente con quelli delle periferie?».
Il modo in cui le religiose sapranno rispondere a questo momento favorevole (Kairòs) deciderà del futuro della vita religiosa attiva. E il futuro passerà inevitabilmente attraverso nuovi modi di mettersi in relazione l'un l'altra come religiose, un nuovo modo di condividere il carisma e di partecipare alla comune missione, fino al punto di possedere “tutte le cose in comune,” al di là dei confini della congregazione e della nazione. «Le opzioni che abbiamo di fronte sono molto limitate: o viviamo una vita religiosa profetica con tutte le sue conseguenze di testimoni della vita e della missione di Gesù in termini reali, o scompariamo come una realtà irrilevante».
Calo numerico?
Un’opportunità!
Se le religiose sono “speciali” non per ciò che fanno, né perché lo fanno, ma per come lo fanno, allora è inevitabile la domanda: «Come stiamo vivendo, come stiamo testimoniando? Viviamo come una macchina accesa giorno e notte per conseguire una maggior produzione o come la tessitrice che ha davanti agli occhi del suo cuore la persona che arriverà a riscaldare, valorizzare, onorare?». Su queste chiare premesse, la brasiliana sr. Márian Ambrosio (Suore Divina Provvidenza), ha imperniato tutta la sua relazione. Lo ha fatto con una serie di considerazioni prima sulla realtà attuale della vita religiosa apostolica femminile e poi sui segni che “sogniamo di abbracciare”. Anche lei ha dato ampio spazio a tutta una serie di interrogativi, lasciandone emergere, comunque, il loro aspetto più positivo e propositivo. Non è detto, ha chiarito subito, che la sfida più importante attuale sia il calo vocazionale in occidente. Lo è molto di più la «qualità dell'invito vocazionale che rivolgiamo oggi alle giovani». Se si è convinte veramente di quanto sia importante imparare dalle giovani ciò che riguarda il modo di vedere la vita, di coltivare la fede, di integrare valori, di stabilire relazioni, di annunciare il Vangelo, di seguire Gesù, allora quando entrano in una casa religiosa potranno incontrare non delle “macchine”, ma delle “tessitrici”. Quando si entra in dialogo con loro sul carisma, sulla missione, «riveliamo la mistica che segna la nostra identità fondamentale o facciamo sfilare davanti a loro la quantità di luoghi, case, attività che abbiamo per il mondo? Stiamo incoraggiando la gioventù a seguire con noi Gesù, o stiamo distribuendo biglietti vocazionali con foto e immagini che idealizziamo su noi stesse? Pensiamoci bene!».
È sicuramente possibile accogliere con semplicità il fatto che «viviamo il tramonto di un modello che oggi non trova più espressione». Perché, infatti, una giovane dovrebbe diventare religiosa per adempire ad un compito che può perfettamente realizzare come laica? La semplice supplenza tanto del clero che dello stato, soprattutto nei paesi occidentali, non può “affascinare” le giovani di oggi. Il fatto di essere sempre numericamente di meno, potrebbe rivelarsi una chance, una grande opportunità per una vita consacrata più significativa, più evangelicamente radicale.
Il nome della crisi:
le opere
Quando si incontrano le responsabili di una congregazione religiosa, oggi le domande sono sempre quelle: «Avete ancora delle novizie? E le giovani? Quante?... E le opere?”. «Quante riunioni, quante consulenze, quanti tentativi di percorrere quello che un tempo fu il nostro luogo apostolico: collegi, ospedali, spazi sociali per bambini, adolescenti, donne e tante persone che incontravano nelle nostre Congregazioni la risposta alle loro grida che invocano una vita più dignitosa. Quante generazioni di religiose hanno dato la loro vita in questi spazi sacri di cura attraverso l'istruzione, la salute, la carità sociale».
Fino a che punto ci si rende conto del fatto che queste stesse opere sono oggi «il nome della nostra crisi?». Diversamente viene compromesso in partenza «l’ascolto attento ed evangelico dei segni dei tempi», ravvisabili nella invocazione della pace, nella preoccupazione per il creato, nella misericordia, nell’accoglienza dei rifugiati, nella lotta per sconfiggere il traffico di esseri umani, nella cultura della vita, dell'incontro, del dialogo. Il superamento della crisi non sta tanto nell’abbandono delle opere, ma nella consapevolezza che «il nostro posto, come religiose, non è lì dove abitiamo, o lì dove lavoriamo; il nostro posto è dove amiamo, dove testimoniamo». Che cosa? Il carisma delle origini in risposta alle attese del mondo di oggi.
Questo è sicuramente un momento “molto speciale” per la vita religiosa apostolica. Se da un punto di vista “produttivo” le religiose, nel mondo occidentale, stanno diventando “inutili”, da questa loro “inutilità” potrebbero e dovrebbero recuperare una loro nuova specificità, quella di una “presenza operante di Dio nella storia”.
Ma allora, nei confronti delle opere, che fare? Mantenerle? Venderle? Donarle? Nei carismi di fondazione andrebbe recuperata la parola centrale: amore. Quando questa parola diventa il luogo teologico e profetico della vita di una congregazione religiosa, allora sarebbe fin troppo facile capire se una determinata opera apostolica possa essere trasferita o meno ad altre persone, ad altri gruppi.
Ricette pronte per l’uso, non esistono. C’è invece una “porta aperta” su due realtà sempre più attuali: il partenariato e la rete. Queste due dinamiche hanno un unico obiettivo, quello di “fare le cose insieme”. Ma da sole non bastano. C’è bisogno anche di una “alleanza”, con chi? Con Dio. In fondo, in un campo come questo, ogni iniziativa non può essere che di Dio. Solo allora, reti e partenariati avranno un loro solido fondamento. Solo allora sarà possibile guardare con più convinzione alla “comunione dei carismi”.
Del resto, cosa aveva detto il prefetto del dicastero vaticano per la vita consacrata, card. Braz de Aviz, aprendo l’incontro di chiusura dell’anno della vita consacrata? Le congregazioni religiose sono chiamate ad un nuovo cammino, a diventare “specialisti della comunione” per «costruire fra noi e con tutta la Chiesa l'unità dei carismi, per evangelizzarci insieme, in tutti i contesti della Chiesa e in tutte le culture del mondo».
Non è sicuramente facile «infrangere le frontiere, condividere vita ed esperienze, stabilire un'alleanza fra differenze culturali, storiche, geografiche, religiose». C’è, però, qualcosa che può aiutare a superare queste frontiere, e cioè la consapevolezza di dar vita a qualcosa di nuovo, nel nome di Dio, che «ci invia a testimoniare il suo amore e non tanto a costruire le nostre opere».
A rileggere con attenzione i vari testi sui carismi di fondazione delle diverse congregazioni «resteremmo sorprese dall'uguaglianza che ci riunisce qui, indipendentemente dalla geografia o dalla cultura». C’è, per tutte, un primo e comune servizio apostolico: diventare parabola del Regno per la Chiesa e per il mondo. «Questo è il luogo della testimonianza carismatica. Siamo suore della Carità, di Gesù, del Cuore, della Misericordia, della Sacra Famiglia, di Nostra Signora, della Provvidenza, di varie sante e santi. Siamo serve, missionarie, recollette, adoratrici, figlie, apostole. Siamo francescane, teresiane, benedettine, carmelitane, domenicane, orsoline, salesiane. Siamo del Calvario, della Croce, della Resurrezione, dell'Eucaristia, dell'Assunzione e tante altre». Cambiare il mondo «è possibile e possiamo farlo, basta cominciare dal luogo in cui siamo», contattando i leader politici ed economici locali per promuovere le partnership e creare rioni, quartieri, villaggi, cittadine, città in cui tutti gli esseri umani sono nutriti e cresciuti per vivere la vita nella pienezza e come esseri liberi. «Sorelle, noi siamo il Vangelo che il mondo può leggere. Ma fino a che punto percepiamo di essere chiamate a dare una testimonianza profetica, denunciatrice del peccato e annunciatrice della speranza?...
Siamo in partenza per i luoghi dove le ferite dell'umanità sono più esposte.
Offriamo alle sorelle più anziane la possibilità di vivere più intensamente la dimensione missionaria nel loro particolare momento di vita; conduciamo le giovani “vocazionate” sui sorprendenti sentieri che fondatrici e fondatori tracciarono per noi. Allora le nostre attività, le nostre opere, la nostra militanza sociopolitica, i nostri progetti respireranno questa vitalità».
Angelo Arrighini