I giovani d'oggi e le nuove vocazioni
2016/5, p. 24
Se si vuole che le nostre comunità siano per i giovani
un’opzione valida, bisogna conoscere chi sono questi
giovani che chiedono di entrare, l’ambiente culturale
eterogeneo da cui provengono, i loro modi di vivere, e
che cosa cercano.
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Ricerche contemporanee
I GIOVANI D’OGGI
E LE NUOVE VOCAZIONI
Se si vuole che le nostre comunità siano per i giovani un’opzione valida, bisogna conoscere chi sono questi giovani che chiedono di entrare, l’ambiente culturale eterogeneo da cui provengono, i loro modi di vivere, e che cosa cercano
Chi sono oggi i giovani che bussano alla porta dei nostri Istituti, cosa si attendono dalle nostre comunità, e come possono giungere a farne parte? Sono domande che ricorrono con una certa frequenza negli ambiti della vita consacrata. Se ne è occupata di recente anche la rivista della Conferenza dei superiori maggiori tedeschi, Ordens Korrespondenz (2016,1). In un articolo intitolato “Giovani religiosi? Rinnovamento delle nostre comunità”, Bernhard A. Eckerstorfer OSB, si chiede perché oggi questi interrogativi si pongono con tanta urgenza. Perché, risponde, è importante sapere in che modo i nuovi membri si inseriscono nella comunità concreta e come riusciranno ad assumerne la storia e la spiritualità. La domanda è decisiva, sottolinea, perché da questi ingressi dipende il futuro dei nostri istituti. Ora, se questi vogliono essere, sia oggi che in futuro, un’opzione da parte di nuove vocazioni, è necessario che conoscano chi sono questi giovani, che cosa pensano e qual è il loro rapporto con la religione.
Le nuove
generazioni
Servendosi di una classificazione diventata ormai comune, soprattutto in America, ma giunta anche da noi in Europa, A. Eckerstorfer parla di una generazione X, di una generazione Y e di una generazione R, detta anche “relaxed generation”. Con generazione X si intendono coloro che, approssimativamente, sono nati tra il 1964 e il 1980. Storicamente questa generazione è inquadrata nel periodo di transizione che va dalla fine del colonialismo alla caduta del muro di Berlino e al termine della guerra fredda. È ritenuta una delle generazioni più intraprendenti e tecnologiche della storia americana ed europea. Ad essa si deve in gran parte la diffusione dell’internet.
Con generazione Y, conosciuta anche come Millennial Generation, Generation Next o Net Generation (i cosiddetti Millenials o millenari), si indicano le persone nate tra i primi anni Ottanta e i primi del duemila nel mondo occidentale, ossia la generazione del nuovo millennio. Questa generazione è caratterizzata da un maggiore utilizzo e da una spiccata familiarità con i media e le tecnologie digitali.
La generazione R, chiamata anche relaxed generation, si riferisce agli adolescenti e preadolescenti che oggi sono vittime inconsapevoli di un assalto mediatico da parte dei signori del marchio. Bombardati tramite TV, videogiochi, internet e da seducenti oggetti di desiderio e soprattutto subendo il mito di comportamenti preconfezionati, non sono mai troppo giovani per diventare il target ideale ovvero i consumatori ad hoc.
Sono i cosiddetti digital natives (nativi digitali), persone nate dopo il 1885 e cresciute assieme alle tecnologie digitali come i computer, l’internet, i telefoni cellulari e gli MP3. Questi nativi digitali sono individui che si familiarizzano fin dall’infanzia con i nuovi mezzi di comunicazione. Sono individui, scrive A. Eckerstorfer, che hanno ricevuto per così dire l’Handy (telefono portatile) quando erano ancora nel passeggino e sono poi passati agli smartphone, apparecchi molto versatili che offrono una grande possibilità di prestazioni.
In un incontro tra maestri e maestre dei novizi, tenuto lo scorso 2015 dai benedettini, in Germania, fu messo a tema il problema dei giovani che oggi bussano alle porte dei conventi. È risultato che, diversamente dalle generazioni precedenti quando le comunità erano costituite in maniera quasi omogenea da individui del ceto medio e tradizionale, i giovani d’oggi invece provengono da ambienti molto diversificati. Ciò significa che la comunità omogenea costituita da religiosi/e più anziani deve confrontarsi con la pluralità dei modi di vivere della generazione più giovane; e se in passato le vocazioni seguivano il medesimo itinerario per entrare in convento, oggi le vie per arrivarvi sono molto varie come diverse sono anche le età per entrarvi. Ciò significa che i giovani avvertono una maggiore difficoltà e fanno più fatica ad aggregarsi alla comunità.
Cosa cercano
i giovani?
Ma cosa cercano i giovani che vogliono entrare in un istituto? Che tipo di comunità desiderano? Risposte interessanti, scrive A. Eckerstorfer, possiamo trovarle nel sondaggio effettuato, nel 2009 negli Stati Uniti, dalla National Religious Vocation Conference, – organismo fondato nel 1989 per la pastorale vocazionale negli istituti religiosi, con sede a Chicago – e nello studio del Center for Applied Research in the Apostolate, della Georgetown University. Questo studio ha preso in considerazione i novizi e i professi temporanei che a partire dal 1993 sono entrati complessivamente negli Istituti cattolici degli Stati Uniti. Il numero dei giovani religiosi di allora era di 4.000, il 40% dei quali si è reso disponibile a rispondere. Tenendo presente il numero molto elevato di risposte da parte dei superiori maggiori, si può ritenere che siano state interessate circa 62.000 persone, cosa che nel 2008 significava l’80% di tutti i membri degli istituti religiosi di vita consacrata degli Stati Uniti.
Per quanto riguarda il settore maschile è risultato anzitutto che l’età di ingresso si aggirava sui 30 anni e 32 per il settore femminile. Ma vari intervistati affermavano di avere avvertito il desiderio di entrare in un istituto già prima: circa i due terzi vi avevano pensato sui 21 anni e complessivamente la metà dei giovani e delle giovani, prima ancora dei 18 anni. Inoltre il 27% delle giovani (e il 14% dei giovani) fin dai 14 anni hanno dichiarato di aver avvertito il desiderio di entrare in un Istituto. Nove su dieci hanno affermato di aver ricevuto un’educazione cattolica e il 73% di avere frequentato, in alcune fasi, un istituto scolastico cattolico. La metà ha affermato di avere preso parte anche ai programmi formativi parrocchiali. L’85% ha sottolineato l’importanza che hanno avuto nel compiere questo passo il contatto con dei religiosi e il loro esempio.
Perché sono entrati? Il 78% ha affermato: per attribuire nella loro vita un’importanza centrale alla preghiera; il 73% perché ritenevano come motivo principale la convinzione che solo in un istituto religioso avrebbero potuto coltivare la loro vita spirituale. Ma un ruolo molto importante è attribuito anche alla comunità. Uno, per esempio, scrive: «come laici avremmo potuto esercitare tutte le attività caritatevoli nel nome di Dio; tuttavia ciò che ci differenzia in quanto persone consacrate è la vita in comunità».
Nella prefazione dell’inchiesta il direttore della National Religious Vocantion Conference, p. Paul Bednarczyk, scrive: «Lo studio indica che i nuovi giovani religiosi chiedono di valorizzare maggiormente la liturgia, l’identità dell’istituto e la vita di comunità».
Il lavoro
non al primo posto
Colpisce il fatto che al centro delle motivazioni non figura il lavoro, come invece avveniva per le generazioni precedenti. Un giovane scrive: «Non è il lavoro ad essere importante nella mia vocazione». E una giovane entrata in una congregazione apostolica: «Per me non era importante quale attività avrei svolto nell’essere accolta nella comunità. Ad attirarmi maggiormente, più che la sua attività apostolica, sono state la preghiera e la vita fraterna».
«La crescita di questi valori comunitari nella giovane generazione – osserva A. Eckerstorfer – si coglie anche nell’alto significato che i giovani attribuiscono al lavoro fatto insieme: lo afferma il 77% della generazione dei millenials rispetto al 52% della generazione dell’epoca del Concilio.
Ma per quale ragione è stato scelto questo o quest’altro Istituto? Il 91% ha risposto: per “la sua spiritualità”; e il 90%: per “la sua comunità”. Un fratello ha scritto: «Perché fare questo sacrificio che l’Istituto ci chiede, quando avrei potuto compiere la stessa cosa anche da laico?». Di nuovo è sottolineata la priorità della vita spirituale, come scrive un altro: «È la forma di vita (way of life) che mi chiama e mi fa stare nell’Istituto, non tanto un determinato servizio (particolar ministry)».
L’inchiesta ha preso in considerazione anche i generational gaps, i divari generazionali. Di questo problema si è occupato il direttore della NRVC, il quale osserva: «A mio avviso, per i giovani religiosi un’importante caratteristica è la chiarezza della loro identità in quanto cattolici. Tuttavia coloro che sono cresciuti prima o durante l’epoca conciliare interpretano questo rinnovato interesse per gli atteggiamenti e le forme tradizionali come un voler tornare indietro. I giovani però non la vedono affatto così. A loro parere ciò significa semplicemente voler andare avanti con una chiara identità cattolica che non vogliono nascondere. Per esempio, per il 75% di coloro che sono nati dopo il 1980, l’adorazione eucaristica costituisce un valore essenziale, ritenuto invece tale solo dal 35% della generazione conciliare.
Gli interpellati della generazione più giovane guardano con maggiore ottimismo e gioia alla vita religiosa, rispetto alla generazione più anziana. Probabilmente perché non hanno ancora incontrato, come i più anziani, le delusioni e le frustrazioni che ogni vita comporta. Per questa ragione è tanto più importante ascoltare le loro vedute e le loro sensibilità. Sono persone che non vogliono lasciarsi paralizzare dal calo numerico: «Diventiamo meno numerosi, ma ciò non significa che la nostra donazione di ogni giorno debba diminuire o che la nostra comunità non abbia più un futuro», scrive un fratello.
Con quali problemi hanno avuto a che fare i più giovani negli Istituti religiosi? Ci sono molte opinioni e molti studi al riguardo. Un buon numero afferma di avere incontrato delle resistenze da parte dei genitori, fratelli e sorelle. Molti dicono di avere trovato uno scetticismo non solo nell’ambiente di lavoro, ma anche nella comunità parrocchiale e persino da parte del parroco o di un sacerdote a cui si erano affidati, nel costatare le loro perplessità per l’ingresso in un Istituto religioso. A. Eckerstorfer si domanda: «Si tratta solo di un segnale di allarme che riguarda il nord America oppure qualcosa del genere si applica anche alla situazione della nostra Chiesa che non è più capace di capire il significato di questo passo radicale di entrare in un Ordine religioso o – peggio ancora – lo ritiene superfluo?».
Conseguenze
per il nostro Ordine
Ritengo importante, scrive A. Eckerstorfer, che nel campo dell’accompagnamento siano i giovani stessi a parlare e non volere noi subito costringerli entro le nostre vecchie categorie o forzarli in senso pratico o anche ideologico, entro i nostri schemi. Sotto molti aspetti possono essere loro a indicare la via per un rinnovamento della nostra vita religiosa.
Dal citato studio negli Stati Uniti risulta che bisogna investire molto sui giovani. A me sembra, sottolinea ancora A. Eckerstorfer, che sia importante il contatto con gli studenti. Negli Stati Uniti ciò è più facile perché gli istituti religiosi gestiscono molti colleges e università e i frutti si vedono.
I giovani che entrano in un Istituto si sentono attratti da una liturgia ben curata, dalla possibilità di coltivare la preghiera privata e di poter disporre di testi spirituali. Si potrebbe pensare che dietro a questi atteggiamenti si nasconda una certa idealizzazione del passato. Non si avverte invece una autentica nostalgia del sacro, della priorità di una vita vissuta per il Signore, che naturalmente ha come conseguenza il servizio al prossimo? Il significato delle forme esterne e della ricchezza di contenuti dei riti non devono portare a nessun ascetismo, quanto piuttosto ad attuare ciò che il Vaticano II, mezzo secolo fa, ha voluto indicare parlando di aggiornamento, di ressourcement, di un ritorno alle fonti.
Ciò che per la generazione più anziana era ed è tuttora ovvio, i religiosi più giovani devono impararlo con fatica in una situazione non più omogenea. In definitiva, osserva A. Eckerstorfer, la diversità generazionale costituisce più un arricchimento che non una causa di conflitti. Come ha osservato una giovane suora: «la vita religiosa non avrebbe senso se non ci fosse una vita di comunità Per me la mia più grande maestra è stata finora la vita di comunità ed essa mi ha posto anche le più grandi sfide».
Il modo con cui la vita di comunità è vissuta negli istituti, conclude A. Eckerstorfer, fa già parte della loro missione. Come ha affermato un’altra suora ancora nei primi anni di vita religiosa, una vita di comunità equilibrata possiede una grande forza di irradiazione per la Chiesa e il mondo: «Nel nostro tempo in cui spesso manca l’equilibrio, il contributo che la vita religiosa può offrire consiste nel vivere totalmente e insieme per il Signore».
È necessario che le comunità abbiano una loro pastorale vocazionale e una persona designata a questo compito. Molto importanti, come affermano due terzi dei giovani, per loro, prima di entrare nella vita religiosa, sono stati l’accompagnamento, gli esercizi spirituali e le proposte di convivenze. Se si ha veramente a cuore la cura delle vocazioni, bisogna che i fratelli e le sorelle siano come degli esperti in questo campo. Attraverso la loro vita vissuta e quella delle loro comunità essi possiedono una grande riserva di energia nell’orientare i giovani. E più intensamente i religiosi attingeranno a questi valori e si terranno in contatto con i giovani in ricerca, tanto più s’accorgeranno di non avere solo qualcosa da dare, ma anche molto da ricevere, per se stessi e per il rinnovamento del loro Istituto.
Antonio Dall’Osto