Susini Mirella
Nel dialogo islamo-cristiano
2016/5, p. 15
L’esperienza vissuta a Tibhirine, di dialogo tra credenti cristiani e musulmani, è stata un’esperienza profetica. Essa insegna che la misericordia, oltre ad essere oggetto di beatitudine, rientra anche nell’ambito di quel “beati” rivolto ai “cuori puri” perché capaci di uno sguardo di misericordia.
I martiri di Tibhirine e la misericordia
NEL DIALOGO
ISLAMO-CRISTIANO
L’esperienza vissuta a Tibhirine, di dialogo tra credenti cristiani e musulmani, è stata un’esperienza profetica. Essa insegna che la misericordia, oltre ad essere oggetto di beatitudine, rientra anche nell’ambito di quel “beati” rivolto ai “cuori puri” perché capaci di uno sguardo di misericordia.
In questi giorni ricorre il XX anniversario del rapimento e del martirio di sette monaci trappisti uccisi in Algeria presumibilmente il 21 maggio 1996, vicenda di cui mi occupo oramai da anni.
Presso il loro monastero ha avuto luogo – dal marzo 1979 al marzo 1996, quando sono stati rapiti – un’esperienza particolare nell’ambito del dialogo tra Cristianesimo e Islam, esperienza di cui ho trattato nel mio libro Cercatori di Dio. Il protagonista è stato un Gruppo che nel settembre 1981 ha assunto il nome di Ribât as-Salâm, in italiano Vincolo della Pace, secondo quanto si legge nella Bibbia cristiana: «avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4,3). Tale Gruppo di dialogo cristiano-islamico è stato portato avanti da alcuni credenti di buona volontà, dapprima solo cristiano-cattolici e, poi, anche musulmano-sufi. L’obiettivo era quello di riunirsi due volte l’anno per poter approfondire la conoscenza dell’Islam e di tutto quanto potesse contribuire a vivere nella pace di Dio con il popolo algerino, per lo più musulmano. In seguito all’adesione di alcuni sufi si è cercato, allo stesso tempo, di vivere insieme «una parola comune a voi e a noi», come si legge nel Corano» (Sura 3,64).
Grazie a un viaggio che ho fatto in Marocco nel 2007 insieme all’allora postulatrice dei trappisti suor Augusta Tescari, visitando a Midelt, in territorio berbero, la trappa gemella di Tibhirine, ho avuto accesso alla biblioteca del monastero di Tibhirine. In tale biblioteca ho trovato i Bollettini che questo Gruppo ha cominciato a redigere nel giugno 1984, dopo cinque anni dalla sua nascita (marzo 1979). In ogni Bollettino veniva riportato dettagliatamente tutto quanto si era vissuto nell’incontro che lo aveva preceduto per renderne partecipi anche quei membri che non avevano potuto parteciparvi. Nascono, quindi, per uso interno e vengono redatti in modo molto accurato. Con questi Bollettini ho potuto ricostruire i primi diciassette anni del Ribât sorto a Tibhirine nel 1979 e lì vissuto fino al marzo del 1996. Dopo il rapimento e il martirio dei sette monaci trappisti la storia del Gruppo è proseguita altrove, anche se Tibhirine rappresenterà, comunque e per sempre, la pietra miliare di questa esperienza.
Un’esperienza
di dialogo
L’esperienza dei monaci di Tibhirine e di questo Gruppo ha al centro il dialogo interreligioso tra cristiani e musulmani. Tale dialogo può essere letto attraverso la coordinata della misericordia, di una misericordia reciproca, di una volontà di porsi reciprocamente nell’atteggiamento che contraddistingue un cuore sensibile, umile e sapiente, che sa porsi a servizio della differenza dell’altro, rispettandola, imparando a conoscerla e ad amarla. La loro esperienza nasce nel 1979, proprio quando Giovanni Paolo II, rivolgendosi ai cristiani di Ankara (Turchia), affermava: i musulmani «condividono con voi la fede di Abramo nel Dio unico, onnipotente e misericordioso […]. Mi domando se non sia urgente, proprio oggi in cui i cristiani e i musulmani sono entrati in un nuovo periodo della loro storia, riconoscere e sviluppare i vincoli spirituali che ci uniscono». Nel Corano si legge: «Ecco chi sono i servi del Misericordioso: quelli che camminano umilmente sulla terra e che dicono “Pace”» (Sura 63,25). Questo versetto viene ricordato varie volte durante gli incontri del Ribât, quasi a voler delineare il percorso che bisogna intraprendere per essere capaci di misericordia: l’umiltà, una delle vie maestre per cercare la pace, presupposto dell’unità del genere umano, scopo del dialogo tra credenti.
La coordinata della misericordia, vissuta all’insegna dell’umiltà, a servizio del dialogo delinea, così, un primo rapporto che emerge dal dialogo interreligioso vissuto a Tibhirine: quello tra misericordia e pace. Nel corso dei vari incontri si è cercato di dare una definizione della pace. Si è affermato che essa è «armonia tra le razze e i popoli. Una pace che è una sorgente di misericordia reciproca tra le persone. Questa pace purifica l’atmosfera da tutti i veleni che sono la lotta di classe e la discriminazione razziale». La misericordia, dunque, viene vista come presupposto della pace, una misericordia reciproca capace di abbattere ogni muro di divisione, sociale e/o etnica. Viene considerata come il fondamento di rapporti basati sulla comprensione, sull’amore e sulla fratellanza. È quanto ha affermato un musulmano. Certo, per chi è abituato a vedere l’Islam solo come portatore di guerre fratricide, una tale affermazione può sorprendere non poco, ma questa è una delle tante «perle» del Ribât, che ha aiutato anche i suoi membri cristiani a crescere nella fiducia e nella misericordia reciproche. In un altro momento da parte cristiana si è affermato che le occasioni di incontro vissute a Tibhirine, definite «rare e preziose», sono state «come la pregustazione del regno d’amore, di giustizia e di pace a cui aspirano tutti i credenti. Da questa esperienza comune, gli uni e gli altri scoprono che è possibile ritrovarsi insieme al di là degli ostacoli numerosi e difficili che le convinzioni dei cristiani e quelle dei musulmani mettono sul cammino del dialogo […]. I pregiudizi sono svaniti, e le ferite della storia e della vita di ogni giorno sono ricoperte da un balsamo di misericordia. Cristiani e musulmani, senza confusione, senza riduzione, poveri nella mano potente di Dio, sono divenuti intimi gli uni agli altri. Tale esperienza sollecita l’intelligenza a cercare una comprensione nuova di ciò che vive e afferma l’altra tradizione religiosa; essa trasforma il comportamento quotidiano».
Condivisione
nella misericordia
Questi incontri sono stati letti da Christian de Chergé, il priore del monastero di Tibhirine, all’insegna di «un’ospitalità reciproca», «ospitalità che ha il suo punto di partenza alla “tavola dei peccatori”, proprio dove Gesù è venuto a cercarci (cf. Mt 9,13) e punto di partenza del “mistero promesso” della “comunione dei santi”, in quanto il pane moltiplicato che ci è già donato di spezzare insieme, cristiani e musulmani, è quello di una fiducia assoluta nella sola misericordia di Dio. Quando accettiamo di ritrovarci in questa condivisione, doppiamente fratelli perché “prodighi” e perché “perdonati”, qualcosa si può celebrare tra di noi della festa voluta da tutta l’eternità “per un solo peccatore che fa penitenza” (Lc 15,7). C’è tra di noi, già, una “tavola servita” per tutti, “i primi come gli ultimi”, mistero scritto e sempre da decifrare».
Il vincolo tra dialogo interreligioso e misericordia può essere spiegato in base a quella che è stata definita la «mistica della differenza». «Le differenze appartengono alla misericordia di Dio». Convinti – cristiani e musulmani – che la differenza sia voluta da Dio sin dalle origini del mondo, si sono sentiti chiamati reciprocamente ad accogliere questo progetto di Dio e a rispettarlo, perché Dio ha creato la differenza come presupposto per il raduno escatologico a cui il dialogo interreligioso guarda e al cui servizio si pone. Qui la «misericordia di Dio» spinge a farsi «sentinelle dell’aurora», pellegrini «estatici» che scrutano l’orizzonte, «condividendo la speranza di questa unità che Dio promette alle nostre differenze, saldi nella pazienza». La misericordia, allora, ha bisogno di speranza e di pazienza, dal Ribât definita come possibile componente «della stessa famiglia delle Beatitudini». E la pazienza, fondata su una «antropologia ottimista», è un modo di declinare l’amore: «L’amore va con la pazienza e la preghiera. Fa cadere tutte le barriere. Vedere l’altro con gli occhi del cuore come l’uomo che riconosce la sua fidanzata come la più bella tra tutte, perché egli la ama […]. Nel fondo della persona non c’è che la bellezza».
Misericordia
nel tempo di violenza
Anche quando la situazione in Algeria si è fatta più difficile, dopo il colpo di stato del gennaio 1992 e quando un certo Islam ha «indurito» il suo volto, i credenti riuniti presso il monastero di Tibhirine si sono esortati vicendevolmente a rimanere dei cuori misericordiosi: «In questo tempo di violenza che ci attacca tutti, entriamo nell’atteggiamento del Dio di tenerezza e di misericordia che è con ogni uomo sofferente. Abbiamo una sguardo di speranza di una comunione possibile nelle nostre differenze. Lasciamoci interpellare dall’esistenza dell’altro e dalle parole di vita che sono Parole di Dio per ciascuno». La misericordia, dunque, cammina di pari passo con la tenerezza. Ad esse si deve aggiungere, tuttavia, la compassione: nella Bibbia «il termine “compassione” rinvia alla triplice idea di consolazione, misericordia, tenerezza […]. Nella Bibbia come nel Corano l’idea di un Dio compassionevole rinvia continuamente all’idea di un Dio benefico perché creatore dell’essere umano e di un mondo che gli è appropriato […]. Allora si può considerare la compassione divina come una creazione – o una ri-creazione – continua da parte di Dio, di cui il perdono è sorgente di vita: la compassione, come tenerezza e misericordia, ha il potere miracoloso della vita. Per questo la compassione divina invita l’essere umano a mostrarsi compassionevole a sua volta verso il suo prossimo. […]. Per il rapporto che ha con la sofferenza altrui, la compassione è innanzitutto un’esperienza riuscita di alterità: nel lasciarmi toccare, alterare dall’altro (compassione passiva), io divento capace di raggiungerlo nella sua sofferenza e di impegnarmi per lui (compassione attiva): la sofferenza compatita diventa il luogo di una relazione e non più di isolamento. L’altro che soffre non mi appare più una minaccia, ma desta in me un’intelligenza del cuore decentrandomi dal mio “io”».
Tibhirine insegna che la misericordia, oltre ad essere essa stessa oggetto di beatitudine (cf. Mt 5,7), rientra anche nell’ambito di quel «beati» rivolto ai «cuori puri» (cf. Mt 5,8) perché capaci di uno sguardo di misericordia. «Ogni cuore ha in sé l’amore … C’è un seme d’amore messo nel cuore del Buon Samaritano, messo da Dio, certo … Per poter vedere tutti gli uomini come fratelli, c’è bisogno di qualcosa che viene da Dio … Se il mio amore non sarà sufficientemente puro, non avrò questo sguardo di misericordia su ogni essere umano …».
L’esperienza vissuta a Tibhirine, di dialogo tra credenti cristiani e musulmani, è stata un’esperienza profetica. Tra le tante coordinate che vi si possono rintracciare, credo che quella della misericordia offra una chiave di lettura specifica: la beatitudine di coloro che, con cuore misericordioso perché pacificato, accolgono la differenza come bellezza del progetto di Dio da curare con umiltà e tenerezza, speranza e pazienza, compassione e consolazione.
Mirella Susini