Boni Elena
Il lavoro e le famiglie
2016/5, p. 8
Che cosa si è inceppato nel meccanismo del lavoro in Italia? Quali conseguenze per la vita quotidiana delle famiglie? Proviamo a proporre una riflessione “dal basso”, certo incompleta, ma con l’intento di sottolineare alcuni problemi molto attuali.
Il problema principale degli italiani
IL LAVORO
E LE FAMIGLIE
Che cosa si è inceppato nel meccanismo del lavoro in Italia? Quali conseguenze per la vita quotidiana delle famiglie? Proviamo a proporre una riflessione “dal basso”, certo incompleta, ma con l’intento di sottolineare alcuni problemi molto attuali.
Il lavoro sembra essere diventato il problema principale degli italiani dopo la crisi economica del 2008. La mancanza di lavoro affligge un gran numero di singoli e di famiglie, la disoccupazione giovanile raggiunge livelli impensati, e poco ci consolano le statistiche positive sulle assunzioni degli ultimi mesi. Se la disoccupazione resta il problema principale, non meno gravi sono altri problemi che affliggono quanti, invece, il lavoro ce l’hanno. Dopo la grande stagione delle lotte sindacali e delle conquiste collettive, a partire dagli anni Novanta del Novecento assistiamo a una progressiva riduzione delle tutele complessive per i lavoratori, unita spesso al blocco dei salari. In sostanza, la carenza di lavoro ha portato a un peggioramento delle condizioni del lavoro stesso e a una proliferazione di contratti atipici, a termine, precari: contratti privi di quelle tutele e garanzie che garantiscono al singolo, alle famiglie e, in definitiva, all’intera società un’esistenza dignitosa e serena, e la possibilità di guardare con fiducia al futuro.
Che cosa si è inceppato nel meccanismo del lavoro in Italia? Quali conseguenze per la vita quotidiana delle famiglie? Proviamo a proporre una riflessione “dal basso”, certo incompleta, ma con l’intento di sottolineare alcuni problemi molto attuali.
Pensioni
e previdenza
La vera, grande riforma che ha investito il lavoro italiano negli ultimi decenni, è la riforma delle pensioni. La cosiddetta “legge Fornero” nel 2012 ha innalzato l’età pensionabile, portandola per la maggior parte dei lavoratori ai 65-70 anni e determinando per alcuni sfortunati (i cosiddetti “esodati”) l’impossibilità di raggiungere affatto una pensione. Senza dare giudizi di merito, evidenziamo che dal punto di vista delle famiglie, ci sono alcune conseguenze immediate.
Primo: sono scomparsi i nonni. Gli adulti di età compresa fra i 55 e i 65 anni, ovvero l’età in cui demograficamente sarebbe “naturale” diventare nonni, si trovano ancora al lavoro. Quando andranno finalmente in pensione, cominceranno in molti casi ad avere problemi di età e di salute, per cui difficilmente potranno accudire nipoti e nipotini. Ma qualcosa non torna: in Italia il sistema di accudimento per la prima infanzia è basato in larghissima parte sul contesto famigliare. Se le nonne rimangono al lavoro fino a 70 anni, sarebbe logico aumentare la rete dei servizi per la prima infanzia, ovvero asili nido e scuole materne. Che però è affidata per lo più alla buona volontà dei Comuni o delle istituzioni religiose, essendo inesistente una rete statale di servizi 0-3 anni, e largamente incompleta quella dei servizi 3-6 anni.
Secondo: l’accudimento dei “grandi anziani” è necessariamente demandato a persone esterne. Sono ormai moltissimi gli anziani ultra 80, 85 e anche 90enni che hanno bisogno di cure continue, perché ormai non più autosufficienti. Ma i figli di questi anziani sono ancora al lavoro, e non possono provvedere direttamente all’assistenza materiale e spirituale dei genitori. Fioriscono le badanti: lavoratrici straniere poco qualificate, più o meno in regola con i documenti e con i contributi, a volte davvero bravissime, che però costano molto: in una grande città si va dai 1.000 euro al mese (in nero) ai 1.400 euro (in regola), più il vitto e l’alloggio. Teoricamente il costo dovrebbe essere compensato, almeno in parte, dall’assegno di accompagnamento elargito dall’INPS per le persone non autosufficienti. Ma anche qui, qualcosa si inceppa: l’INPS che ha per anni elargito una grande quantità di assegni di invalidità e di accompagnamento, ora ha stretto troppo le maglie, e sono sempre più frequenti i casi di “grandi anziani” o addirittura di disabili gravi ai quali è riconosciuta l’invalidità al 100%, spesso anche il beneficio ex “legge 104”, ma è negato l’assegno di accompagnamento.
Terzo: il lavoratore anziano si trova in condizioni di salute non più ottimali. Avrebbe bisogno di ridurre il carico di lavoro – soprattutto in alcune attività pesanti –, l’orario e, magari, di avere maggiori controlli e cure mediche. Invece si sono ampiamente ridotti i permessi per visite e cure mediche, mentre i costi dei ticket per la sanità pubblica sono notoriamente aumentati in tutta Italia. Invece per la maggior parte dei lavoratori, sia giovani che anziani, ottenere il part-time è difficilissimo, costoso in termini retributivi e previdenziali, e assolutamente svilente dal punto di vista professionale.
Infine, si pone il drammatico caso degli esodati: persone che non lavorano più e non hanno i requisiti per andare in pensione. La platea è molto più ampia di quanto non emerga dalle statistiche, che si occupano solo degli ex-lavoratori dipendenti: vi sono anche moltissimi lavoratori autonomi che, avendo chiuso l’attività per motivi economici o di salute e non avendo raggiunto il numero minimo dei contributi (magari perché versati, negli anni, su più casse previdenziali diverse, come spesso avviene nel settore privato) non andranno mai in pensione. È evidente che il mantenimento di queste persone ricadrà sulle famiglie, sui figli o sui nipoti (probabilmente disoccupati). Sarebbe stato così difficile, per esempio, introdurre la possibilità per tutti di trasferire i contributi versati da un fondo all’altro, così da ridurre il numero di questi “esodati perpetui”?
Giovani, precarietà
e disoccupazione
Se gli anziani non vanno più in pensione, i giovani non trovano più il lavoro. E nonostante il recente Jobs act, quando lo trovano, il lavoro è precario, malpagato, svolto a condizioni proibitive; e dura poco. I Centri per l’Impiego sono oberati di iscrizioni e richieste e faticano a combinare la domanda con l’offerta di lavoro. Proliferano le agenzie che propongono, per lo più, contratti interinali o il cosiddetto “lavoro somministrato”, da attuarsi tramite cooperative o altri soggetti di mediazione. Il costo sociale è molto alto: si tratta della differenza tra il costo orario di una prestazione lavorativa (solitamente elevato), e il guadagno netto del lavoratore (di norma, molto basso). Ma il lavoratore, come potrà mai formarsi o mantenersi una famiglia, con un salario di 3 euro l’ora e un contratto precario, in città dove un modesto appartamento costa in affitto 1.000 euro al mese, e in vendita 3-4.000 euro al metro quadro? Per non parlare dei mutui bancari, impossibili da ottenere se in famiglia non sono presenti due persone con il lavoro a tempo indeterminato.
La precarietà del lavoro genera una drammatica precarietà esistenziale. Spesso sottovalutata è la necessità di formarsi, aggiornarsi e cambiare continuamente: così molti giovani-adulti (non parliamo di 20enni, ma di 35-40enni) non se la sentono di fare un figlio, perché hanno paura di perdere il “treno” del lavoro. È vero che la legislazione ha progressivamente esteso i diritti quali maternità e congedi parentali a quasi tutte le categorie di lavoratori; ma è vero anche che una mamma precaria rischia di non vedersi rinnovato il contratto, al rientro dalla maternità; e che se il primo figlio è talvolta “tollerato”, il secondo o il terzo non è “perdonato” quasi da nessun datore di lavoro, e il rischio di perdere il lavoro o di finire professionalmente accantonate è altissimo. La possibilità per i padri di usufruire dei congedi è di fatto vanificata dalla consuetudine: nell’industria, ad esempio, un padre che prende due mesi di “maternità”, magari per consentire alla moglie precaria di tornare al lavoro altrimenti perde il posto, è tagliato fuori per anni dai premi elargiti sulla base delle presenze...
Inoltre la precarietà costringe a fare enormi sacrifici per frequentare corsi, cercare lavoro, fare colloqui, preparare concorsi pubblici, mantenere – per i più fortunati – due o più lavori contemporaneamente perché nessuno di questi dà prospettive durature nel tempo. In questi equilibrismi spazio-temporali i rapporti famigliari si fanno più difficili, i bambini e gli anziani sono trascurati, non c’è tempo per un impegno di volontariato, sia esso ecclesiale, civile o politico. Nessun precario si può permettere di avere una salute che non sia ottima...
Flessibilità
orari e non solo
I pochi “giovani” che lavorano, seguono ritmi da manager, ma guadagnano stipendi da operai.
Il nuovo mercato del lavoro impone, infatti, due parametri: precarietà e flessibilità. Chi ha la fortuna di trovare lavoro dovrebbe adattarsi a orari impossibili, con un preoccupante aumento del lavoro serale, notturno e festivo anche in settori – come il commercio o i call center – in cui non se ne ravvisa una reale necessità. Fioriscono le proposte di asili nido aperti 24 ore su 24 per permettere ai genitori di svolgere turni serali, notturni e domenicali: ma è questo che vogliamo per i nostri bambini? Anche le maestre saranno costrette, allora, a lavorare la sera, la notte e la domenica: e ai loro figli, chi baderà?
Conseguenze molto negative ha avuto anche la “forzata” riduzione delle giornate lavorative da sei a cinque la settimana. La smodata mania di “avere il sabato libero” non solo ha svilito il significato religioso e festivo della domenica, ma ha costretto tutti ad allungare l’orario di lavoro giornaliero. Se tutti i nonni lavorano ancora e tutti i – fortunati – genitori lavorano fino alle 17, allora tutte le scuole dovrebbero garantire il tempo pieno, magari col prolungamento post-orario... E quanti posti di lavoro si perderanno nelle attività sportive e culturali per bambini, che solitamente si svolgono di pomeriggio?
Dietro il fenomeno
la buona politica?
Perché in Italia si riflette troppo poco su questi problemi? Perché gli italiani faticano a superare una visione individualista, corporativa e di gruppo, e a maturare una seria riflessione collettiva sul legame tra lavoro, società e famiglia?
Ci piacerebbe che i nostri lettori, quando sentiranno al tg la notizia del prossimo sciopero oppure l’esito della prossima statistica sul lavoro, si domandassero: “Quali conseguenze avrà questa legge sulle famiglie dei lavoratori coinvolti? E se in questa condizione di lavoro si trovasse mio nipote, mia sorella, mio padre... che cosa succederebbe in famiglia? Sarebbe una situazione sostenibile? Come...?”. Sono, in fondo, le domande con le quali dovrebbe procedere la buona politica; sono le domande che dovrebbe farsi ogni buon legislatore, prendendosi magari anche la responsabilità di darsi qualche risposta. Sono, anche, le domande che ci suggerisce la dottrina sociale della Chiesa, basandosi sul passo del Vangelo: “Come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro” (Lc 6,31).
Elena Boni