Sfide attuali della VC in Europa
2016/4, p. 39
Siamo chiamati ad abitare gli orizzonti, ad esplorare cammini, non
semplicemente a riciclarci, tanto per sopravvivere. In questa nuova
Europa dallo Spirito siamo chiamati a dare testimonianza evangelica,
trasparenza di Dio, attrazione verso Cristo e il Regno promesso.
Chi non anticipa il futuro, non troverà posto nel futuro.
Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.
Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
17a Assemblea generale dell’UCESM
SFIDE ATTUALI
DELLA VC IN EUROPA
Siamo chiamati ad abitare gli orizzonti, ad esplorare cammini, non semplicemente a riciclarci, tanto per sopravvivere. In questa nuova Europa dallo Spirito siamo chiamati a dare testimonianza evangelica, trasparenza di Dio, attrazione verso Cristo e il Regno promesso. Chi non anticipa il futuro, non troverà posto nel futuro.
La vita consacrata in Europa è una realtà complessa, multiforme, ricca di una grande storia e con feconde risorse per il futuro. Nonostante tutto, questo è tempo di gratitudine e stupore per la vita consacrata, di speranza e nuova profezia come ha detto Papa Francesco nella Lettera ai consacrati (21/11/2014; citeremo LC). Essa pulsa ancora, in misura ampia, di diaconia generosa e di intercessione, di interiorità e ascesi, di contemplazione e trascendenza, ma anche di prossimità e solidarietà, di martirio e parresia.
Ma che ci sia anche "crisi" nella vita consacrata europea appare certo. Il problema è interpretarne le ragioni e le cause, perché non ovunque la crisi ha la stessa faccia. In Europa Orientale i dati sono migliori che nell'Europa Occidentale: comunque in due decenni i religiosi in Europa sono diminuiti di oltre un terzo (siamo circa 250 mila). Non dimentichiamo che il 70% di essi si trova in cinque paesi Italia, Spagna, Francia, Polonia, Germania.
Non compensano le perdite le vocazioni in crescita nell'Est Europa: sempre numeri bassi restano, e il futuro non è del tutto privo di problemi. Ma anche lì si pongono problemi di sensibilità ecclesiale e di secolarizzazione in espansione. Devono vivere i cambiamenti e la globalizzazione con più rapidità di quanto ha fatto l'Occidente, dove i cambiamenti sono avvenuti nell'arco di oltre 60 anni.
È frequente e diffusa nell'Europa occidentale una certa "apologia del declino" (chiamata carismatica ars moriendi). L'impoverimento numerico e di motivazioni ha provocato precarietà e spaesamento: incerti e spaesati, nomadi in un mare di nebbia, i religiosi appaiono una folla di zombi nascosti nelle loro nicchie. Nell'Europa centrale e orientale la sfida è il discernimento vocazionale serio, e l'urgenza di inventare un nuovo modello (o più modelli) di vita consacrata, in dialogo con l'ethos culturale, ma anche fermentati da passione profetica e audacia evangelica. Per ora in realtà prevale il contrasto della differenza, e scarseggiano modelli originali. E sembra che la lunga tragedia della "glaciazione rossa" (i regimi comunisti) non sia stata seguita da una creatività geniale, come frutto del martirio e della fede raso terra. E il boom vocazionale sta già diminuendo, con il progredire del benessere.
In ogni caso e in ogni contesto, mai deve mancare l'originalità dello splendore evangelico che abita in noi. Vangelo, sequela, comunione, testimonianza, devono diventare ostinazioni, poli irrinunciabili. Nella fase attuale forse è l'anima profetica ad essere malata: manca il sogno e l'inquietudine. Non è segno positivo che il futuro da promessa diventi minaccia.
Mancano anche nuove proposte teologiche sulla vita consacrata: sia ad est che ad ovest. Certo di teologia ne abbiamo già avuta tanta in questi anni, e di buona qualità. Questa afasia di novità ispirativa indica che manca un vissuto geniale e inventivo, da interpretare e tematizzare: le proposte teologiche rischiano di essere esercizi di gnosticismo... E quindi manca ai teologi la materia prima e grezza su cui lavorare. E la "teologia della vita consacrata" non può che ripetere il passato prossimo o, peggio, "fantasticare" soluzioni miracolose e distopiche (verso altrove)... o idolatrare modelli deculturati del tutto sterili e obsoleti. Bisogna passare dalla efficienza e dall'orgoglio delle opere e dei numeri al primato dei segni e della comunione nell'ottica della compassione solidale e all'interiorità persuasiva.
1. Tra receptio e renovatio
Il rinnovamento postconciliare è stato un periodo di intensa attività sia di esplorazione che di rielaborazione. Non è facile trovare in altri gruppi della Chiesa qualcosa di simile al vasto cantiere di aggiornamento realizzato dalla vita consacrata, con prolungato impegno e partecipazione di tutti.
Questo fatto acquista più rilievo se si pensa che il tempo della receptio dell'evento e delle direttive del Concilio Vaticano II non è molto esteso. Poco sono 50 anni in paragone con i 4 secoli che ci sono voluti per attuare pienamente il Concilio di Trento. E per la vita consacrata si deve rilevare che vi hanno fatto da protagonisti non tanto i decreti di riforma quanto una diffusa creatività, una passione ecclesiale e storica che è esplosa anche in "nuove forme" di vita.
La receptio del rinnovamento del Vaticano II è stata policentrica e multiculturale, dentro una situazione culturale in rapida mutazione globale, ma anche – in un primo momento – senza l'apporto originale dell'est Europa (congelato nei regimi atei).
È stata una esplorazione di vie nuove: luoghi di presenza inediti e metodi di pastorale a rischio, sostenute da solide teologie interpretative dell'identità della vita consacrata e riletture delle ispirazioni carismatiche iniziali. Ma anche relazioni intraecclesiali in spirito di sinergia e dialogo con i contemporanei per riconoscere e interpretare inquietudini e nuove sensibilità. È stata una rielaborazione del patrimonio che costituisce l'identità specifica di ogni istituto. Quello che il codice definisce: "L'intendimento e i progetti dei fondatori, sanciti dalla competente autorità della Chiesa, relativamente alla natura, al fine, allo spirito e all'indole dell'istituto, così come le sane tradizioni" (can. 578).
Non si tratta solo di testi scritti e rilettura di memorie archivistiche, ma anche di nuove ermeneutiche, sia teoriche che esistenziali, di nuovi percorsi per dare realtà ai nuovi discorsi: e vi hanno partecipato mentalità e sensibilità ecclesiali non solo europee. Per questo, quando la caduta dei muri che segregavano nell'invisibilità e incomunicabilità l'est Europa ha reso possibile reincontrarsi con i fratelli e le sorelle a lungo rimasti occultati, è esploso il dissenso e la resistenza da parte loro. Non avevano condiviso quel travaglio, e si sono sentiti trascinati in un mondo a loro sconosciuto e assurdo: un tradimento dei loro sogni e dei loro fondamenti. E il rifiuto permane ancora.
E tutto questo in un mondo in continua e rapida mutazione, tanto da rendere presto vecchia la stessa Gaudium et spes, il testo conciliare più aperto. Cito alcune date fondamentali dei cambiamenti epocali: 1968 (maggio francese), 1989 (caduta del muro di Berlino), 2001 (le torri gemelle), 2008 (la crisi economica). Tutti eventi storici che hanno costretto a nuove sfide e nuove strategie. E inoltre, per la Chiesa, il cambio dei Papi, con le loro differenti sensibilità nelle opzioni pastorali e nello stile di testimonianza. Possiamo dire che il XX secolo è stato lungo nella Chiesa e si è chiuso davvero solo con le dimissioni di Benedetto XVI.
2. Con le periferie nel cuore
Ora con papa Francesco si ha l'impressione che sia aperta una nuova fase di receptio conciliare. Siamo spinti a riaprire il dibattito sulla povertà evangelica come tipica forma Ecclesiae e come forma Christi. Siamo di continuo sollecitati soprattutto a ritrovare l'arte della prossimità e della carità verso gli ultimi in un contesto di indifferenza globalizzata.
Chi più dei religiosi può sentirsi interpellato da questa insistenza sulla evangelicità di vita e sulla passione servizievole per ogni emarginato? È come se papa Francesco rilanciasse più avanti, dentro questa nostra storia e verso le periferie esistenziali, le capacità evangelizzatrici operanti nella Chiesa. Egli chiede di vivere come Chiesa in uscita - e magari anche incidentata - abbandonando pigre posizioni acquisite. Sollecita a riconoscere, servendo e contemplando, la carne di Cristo nel povero e nell'emarginato. E questo proprio quando l'anemia di forze e l'anomia di modelli-guida potrebbero favorire invece tra i religiosi un ritiro prudente su posizioni acquisite e l'esercizio della manutenzione senza rischi, salvando il salvabile. Egli scuote ripiegamenti e tristezze, chiusure e mani stanche. "Svegliate il mondo!", ha detto ai superiori generali.
La vita consacrata ha nella diaconia fra i poveri e i fragili una storia gloriosa, ricca di santità e di profezia. Anche negli ultimi decenni non ha mancato di tentare fraternità solidale e diaconia ingegnosa e intraprendente in mezzo alle nuove povertà, in tutte le periferie. Forse oggi l'intraprendenza può sembrare un po' meno vivace, ma resta vero che questa è una delle caratteristiche da tutti ammirata. Si tratta semmai di rischiare nuovi destinatari e nuove frontiere, esplorando ancora con audacia dentro gli scarti della storia, fra i reietti sociali, fra le mille forme di volti sfigurati e di dignità calpestate: "Marcati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare" (EG 273).
Le opere di tutti i generi sono lì a testimoniare una storia gloriosa, frutto di una capacità mai stanca di sporcarsi le mani, di mettersi in gioco, di inventare percorsi di guarigione e liberazione, di promozione umana e prossimità evangelica. Le variegate ferite degli ultimi spesso sono diventate feritoie per vedere oltre e più ampiamente, e hanno generato le forme di diaconia, per coscientizzare i distratti davanti al groviglio delle ingiustizie, per offrire il balsamo della solidarietà e della tenerezza, della dignità e della speranza a chi non ha mai conosciuto rispetto e fraternità.
La crisi delle nostre "opere di misericordia" – così numerose e storicamente importanti, anche per la storia della civilizzazione – ci sta ponendo problemi seri per il futuro. Ci sentiamo sparire il terreno sotto i piedi, perché attraverso di esse pensavamo che avevamo dignità e diritto ad esistere, a sentirci Chiesa, a rivendicare diritti e utilità. Con la loro sparizione sparisce un certo modello di vita consacrata, un modello ecclesiale, una storia di carità, di servizi, di intraprendenza anche femminile che ci manda tutti in tilt. Abbiamo forse confuso la testimonianza della carità con l'organizzazione di "onerosi servizi sociali". Molti trasferiscono quel modello, ormai usurato e sfocato in Occidente - dove è nato e si è consolidato - verso altri luoghi meno evoluti. Ma anche lì prima o poi ci si troverà fuori gioco: non tanto perché le opere di misericordia diventino inutili, ma perché il modello standardizzato non regge più (cf. Brasile). Bisogna inventarne altri, in risposta ai nuovi bisogni, alle nuove sfide, alle nuove emergenze: ma anche in sinergia con le nuove corresponsabilità, le nuove disponibilità.
Non riduciamoci alla conservazione miope e amministrativa di quello che già facciamo. È quanto suggerisce papa Francesco: "Aspetto da voi gesti concreti di accoglienza dei rifugiati, di vicinanza ai poveri, di creatività nella catechesi, nell'annuncio del Vangelo, nell'iniziazione alla vita di preghiera. Di conseguenza auspico lo snellimento delle strutture, il riutilizzo delle grandi case in favore di opere più rispondenti alle attuali esigenze dell'evangelizzazione e della carità, l'adeguamento delle opere ai nuovi bisogni" (LC II,4). Questa frase, molto realistica, è incorniciata da un invito iniziale a "creare 'altri luoghi' dove si viva la logica evangelica del dono, della fraternità, dell'accoglienza della diversità, dell'amore reciproco" (II,2).
3. Schengen in bilico, e oltre...
In Europa si sta arrivando ad una decisione molto pericolosa. La proposta in atto di sospendere la libera circolazione delle persone fra gli stati europei (il famoso trattato di Schengen), non rivela solo l'esasperazione della paura verso i nuovi migranti, la minaccia apocalittica e incontrollabile del terrorismo islamico, ma anche la chiusura entro vecchie identità che rischiano il meticciato senza essere preparate, e per questo le fantasie lavorano impaurite e aggressive.
C'è in evidenza la crisi della coscienza europea, come patria comune di popoli e destini. Nel giro di pochi mesi, siamo entrati in un vortice critico di una Europa che ha sussulti clamorosi contro l'egemonia strozzina della stabilità economica, del pareggio dei bilanci, della reciproca imposizione di vincoli finanziari senza anima. Con la devoluzione delle primavere arabe verso derive fondamentaliste di un islam fanatico e tagliagole (pensiamo all'Isis), sono cominciate anche le ondate di migrazioni caotiche dal Medio Oriente verso l'Europa, creando un caos imprevisto e ingovernabile.
Tutta l'Europa si è come svegliata con un incubo: prima represso pensando che si trattava di Italia, Spagna e Grecia, con le loro coste facilmente raggiungibili dai migranti. Ora le rotte dei migranti si prolungano dalla Turchia e dalla Grecia, attraverso i Balcani, fino a dentro il cuore del benessere europeo, alla Germania e verso Nord. E non si vede la fine, e neppure la soluzione: l'Europa sta chiudendo le frontiere, rinnegando la sua ospitalità, la sua solidarietà. Nuovi muri si costruiscono per bloccare i flussi, violenza e paure si diffondono come una nuova pestilenza. Stiamo assistendo - con incoscienza variabile - allo sgretolamento della unità europea, come ideali, comunione, sinergia.
E i religiosi non alzano la voce; e i vescovi europei neppure. Fa eccezione il papa Francesco, che grida forte e coraggioso. Eppure là dove ci sono emergenze e sofferenze, vittime e violenze, la vita religiosa - tutti, uomini e donne - dovrebbe essere presente, intraprendente, solidale, in sintonia e sinergia, ispirandosi al Vangelo, mostrando Chiesa ospitale e orientando la storia. Una presenza non sporadica, non per avere protagonismo mediatico, ma davvero per audacia evangelica.
Penso che in questo contesto che esplode ogni giorno fra di noi tutti, ci sia una prima sfida da intercettare, a vantaggio della Chiesa intera, e di riflesso anche della società attuale. Cioè assumere un protagonismo e portare un contributo efficace, non solo mettendoci in gioco con le opere e le risorse che abbiamo, ma anche come pro-vocazione audace e profetica. Si tratta di denuncia coraggiosa degli egoismi e delle paure, di proposta alternativa alle chiusure per una ospitalità che è com-passione operosa, per ridare fascino e geniale testimonianza alla nostra storia di ospitalità e di convivialità feconda delle differenze. Come dice papa Francesco: contestando "strutture di peccato collegate ad un modello di falso sviluppo fondato sull’idolatria del denaro, che rende indifferenti al destino dei poveri le persone e le società più ricche, che chiudono loro le porte, rifiutandosi persino di vederli" (Messaggio per la Quaresima 2016).
A me pare che oltre la generosità delle iniziative sparpagliate - che pure vanno lodate e ammirate - la vita consacrata nel suo insieme non abbia saputo farsi voce critica, e neppure fare sistema e rete, per una azione alternativa, dentro l'Europa degli egoismi e delle paure.
Oggi siamo all'alba di una dirompente ibridazione delle culture prima rimaste localizzate dentro stati e frontiere. Gli oltre 200 milioni di migranti attuali (nel mondo), cresceranno a dismisura nei prossimi decenni, secondo previsioni realistiche: e apporteranno con sé non solo mari di lacrime e sanguinanti cicatrici di sradicamenti violenti, ma anche risorse di diversità culturali e problemi vastissimi di integrazione e di nuove stagioni di meticciato. Come già è avvenuto con le invasioni barbariche nei secoli V-IX del medioevo. E poi si è ripetuto in altri contesti - in particolare in America nei secoli XIX-XX - con le varie ondate di migrazioni dall'Europa e che solo ora hanno trovato una forma compiuta di meticciato e amalgama multiculturale. Solo lentamente qui da noi in Europa si ricomporrà una sintesi creativa e feconda, e nascerà una nuova civilizzazione per ora non immaginabile. Ci vorranno vari decenni, se non secoli per arrivarci: ma ora siamo nel pieno della tribolazione e delle reazioni insensate e apocalittiche.
4. Ritrovare lo "stato di invenzione"
Chi ha vissuto la vita religiosa del pre-Concilio, sa benissimo per esperienza, quanto bouleversement ha prodotto l'impulso conciliare, al fine di realizzare la adequata renovatio richiesta dal Concilio. Più importante è stato anche il rinnovamento nelle grandi categorie di vita, spiritualità, teologia, diritto.
Il Concilio è stato di fatto un esempio paradigmatico della complessa relazione fra continuità e discontinuità. Le sue risposte alle sfide e alle sofferenze, ai traumi e alle utopie di quel momento – 50 anni fa, ma sembrano secoli! – sono solo in parte adeguate alla nostra situazione. Ma è ancora valida e ispirativa, per esercitarla, la sua arte del vivere la contemporaneità critica della fede.
Bisogna ritrovare lo stato di invenzione, che rendeva quegli anni davvero bollenti ed effervescenti. E forse proprio il papato di Francesco potrebbe offrire una nuova opportunità di esplorazione e invenzione: strategicamente egli ha per noi consacrati una particolare attenzione ispiratrice. Egli infatti tocca le corde più sensibili della nostra missione ecclesiale. Non si tratta di impadronirci dei suoi impulsi, ma di partecipare al suo progetto ecclesiale da protagonisti, liberandoci da certe sensazioni di caos e di apocalisse, che a volte paralizzano tutto. C'è troppa tendenza a piangersi addosso!
"Questa malattia non è per la morte" (Gv 11,4). Ci vuole una nuova docilità allo Spirito: Dio sembra aspettarci alle radici, come diceva Rilke. Perché la crisi non è forse solo di finalità, ma di fondamento. Non possiamo sequestrare il carisma e la sequela in otri vecchi, anche se sono stati fabbricati nei decenni postconciliari, con l'illusione che durassero a lungo. Sono molte le questioni che andrebbero toccate, e sono anche fondamentali.
Ho scelto di parlare solo di alcuni temi, per sollecitare ad esplorare gli orizzonti con spirito di ascolto e discernimento corale.
5. La Parola viva per rinnovare la sequela e la profezia
Tutti sappiamo bene che il ritorno alla centralità della Parola nella vita della Chiesa è una delle grandi novità del Concilio. Oggi si riconosce nella Dei Verbum uno dei cardini dell'influsso permanente e anche più decisivo della riforma conciliare. Questo vale anche per la vita consacrata, che il Concilio ha invitato ad una familiarità quotidiana con la Parola (PC 6; DV 25).
1. Centralità della Parola. È da questa ripresa di familiarità che è fiorita una nuova spiritualità: e sempre da qui rifiorirà: "Questo primato della santità e della preghiera non è concepibile che a partire da un rinnovato ascolto della Parola di Dio" (NMI, 39). Essa si esprime soprattutto con il recupero diffuso della esperienza antica della lectio divina. Pur chiamata con vari nomi, secondo luoghi e esperienze – lettura orante, meditazione biblica, incontro biblico, ascolto orante, e altro – essa va sostenuta, e nella formazione va insegnata, praticata e anche condivisa con i gruppi di laici che la praticano. Ma la centralità deve esprimersi anche in molte altre modalità: come ha descritto in dettaglio Verbum Domini (2010), in riferimento alle forme di vita, ai ministeri e alla evangelizzazione (parte seconda e terza).
Da questa familiarità deve venire il processo di purificazione delle molte pratiche di pietà diffuse nelle case religiose, specie femminili. Purtroppo persistono tenacemente forme barocche e intimistiche senza sostanza. Ma il processo va portato più avanti. Tutta la spiritualità che si vive e si promuove deve alimentarsi a questa "fonte pura e perenne di vita spirituale" (DV 21). "La Parola creatrice e liberatrice che ha preso corpo con Gesù Cristo, poi nelle Scritture, non cessa di incarnarsi in coloro che vivono del suo Spirito"(P. Claverie). Va ricordato che solo il fare la Parola rende possibile un ascolto obbediente e fecondo, altrimenti è gnosticismo.
Si tratta di ritrovare o reimmettere anche nella ispirazione carismatica di fondazione questa centralità. O almeno avvicinarla oggi con coscienza viva e viverla "operis veritate" (1Gv 3,18). Diceva Vita consecrata: “Dalla meditazione della Parola di Dio, e in particolare dei misteri di Cristo, nascono, come insegna la tradizione spirituale, l'intensità della contemplazione e l'ardore dell'azione apostolica... Dalla frequentazione della Parola di Dio essi [i fondatori] hanno tratto la luce necessaria per quel discernimento individuale e comunitario che li ha aiutati a cercare nei segni dei tempi le vie del Signore. Essi hanno così acquisito una sorta di istinto soprannaturale, che ha loro permesso di non conformarsi alla mentalità del secolo, ma di rinnovare la propria mente, ‘per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a Lui gradito e perfetto’ (Rm 12,2)” (VC 94). Una verità non solo da esaltare ma anche da re-imparare, per un discernimento contemplativo e attivo.
C'è un’involuzione in atto, un ritorno a vecchie ritualità e a forme spurie di pia exercitia, magari sotto ispirazione di supposte apparizioni di madonne o messaggi di santi. Per non dire dei vestimenti liturgici buffi, rituali devozionali barocchi, linguaggi e formule riprese con mentalità fanatica e senza criterio teologico o liturgico. Qui bisogna avere il coraggio di imporre una sana teologia liturgica. In queste tendenze la centralità della presenza della Parola di Dio è considerata "mania protestante" (!), e vale di più la formalità rituale arcaica e il numero delle candele, che la Parola viva di Dio.
2. La sequela Christi, in modo profetico. Il Concilio aveva sollecitato tutti i religiosi - ma logicamente vale per tutti i cristiani come tali (cf. GS 22) - a riportare l'identità all'autentica "Christi sequela in Evangelio proposita" (PC 2a). Questo era il primo e decisivo criterio della renovatio da intraprendere. Non si tratta di un "criterio" fra gli altri, ma del principio (principium, dice il Concilio) che sovrasta tutti gli altri, è fondamento, giudica e giustifica gli altri criteri. E papa Francesco lo richiama in continuazione, con una sua specificità di linguaggio: in particolare collegando spesso carne di Cristo e carne dei poveri. Ed egli insiste anche sullo spostamento dalla radicalità alla profezia: "La radicalità evangelica non è solamente dei religiosi: è richiesta a tutti. Ma i religiosi seguono il Signore in maniera speciale, in modo profetico".
In certe comunità si ha l'impressione a volte che Vangelo e sequela Christi vi siano presenti così per abitudine, come "presidenze onorarie", per routine quotidiana. Quello che conta – e che è al centro vero e sonoro – pare sia il proprio fondatore/fondatrice, qualche sua espressione barocca, i suoi oggetti personali, l'urna sepolcrale, la sua effigie, o altro. Parola e sequela Christi non sono dei soprammobili di convenienza: sono la motivazione più sostanziosa della vita, da vivere in dinamismo profetico.
Abbiamo ereditato una cristologia piena di suggestioni emotive, di devozioni barocche, di linguaggi romantici. Molti religiosi sono ancora lì, a quella cristologia delle prime catechesi parrocchiali, alle devozioni familiari, piene di pathos popolare. Una rilettura del nostro fondamento cristologico, guidato dalla Parola biblica e secondo la coscienza ecclesiale di oggi, è esigenza primaria. Esiste una grande ricchezza nella cristologia degli ultimi decenni. Conoscerla e assimilarla, per tradurla in vita, può provocare - e spesso ha provocato - una purificazione radicale. Cristo non ha fondato una nuova religione, ha portato una vita nuova. Bisogna insistere su un ritorno al radicalismo autentico, un linguaggio centrato sulla sequela Christi, cioè su Colui che è il profeta messianico del poveri.
Anche le intenzioni e i progetti dei fondatori e dei carismi vanno riletti alla nuova luce della Parola, ritrovando una sapienza evangelica e biblica prima oscurata da manipolazioni culturali. Bisogna imparare a distinguere bene la religiosità "mascherata" come ha fatto Paolo a Filippi con la donna indovina (At 16,16ss) e non identificarla con la fede che guarisce. L'esilio della Parola dalla prassi cristiana normale - frutto del divieto al popolo (dopo Trento) di avere in mano la Bibbia - ancora produce effetti deleteri. Bisogna continuare a mettere le fondamenta: e il dialogo ecumenico, specie nel contesto di una vivace presenza evangelica e protestante, avrà qui una sorgente di tutto valore, come diceva Vita consecrata: "La condivisione della lectio divina nella ricerca della verità, la partecipazione alla preghiera comune... [sono] segni della volontà di camminare insieme verso l'unità perfetta sulla via della verità e dell'amore" (VC 101).
3. Scuola di profezia. Questa riscoperta del primato della Parola anche nelle intenzioni più genuine dei fondatori si è accompagnata con la ripresa della prospettiva profetica per la vita consacrata. Non quindi un ascolto consolatorio, devoto, individualista della Parola, ma una familiarità che accenda cuore e progetti per i disegni di Dio manifestati nella sua Parola. "La vera profezia nasce da Dio, dall'amicizia con Lui, dall'ascolto attento della sua Parola nelle diverse circostanze della storia" (VC 84). Dalla Parola ascoltata e meditata si passa alla profezia di gesti e scelte, di denunce e annuncio, di esplorazione di vie nuove e di nuovi modelli di misericordia e di comunione.
C'è stato un tempo, nel rinnovamento conciliare, nel quale parlare di profezia, di natura profetica, di funzione profetica, suscitava qualche preoccupazione, anche in alto loco. Specie se si associavano profezia, poveri e martirio. Ma dopo il Sinodo 1994 e l'esortazione Vita consecrata con l'ampia sezione intitolata: "Una testimonianza profetica di fronte alle grandi sfide" (nn. 84-95), ogni sospetto è abolito. Quella "sezione" ha ampliato lo stesso orizzonte della testimonianza profetica della vita consacrata fino ad includervi anche il martirio, i tre voti e la vita fraterna, la spiritualità, la liturgia e perfino la lectio divina. Questa diffidenza non ha più vigore. Molti forse non se ne sono accorti: il magistero è a volte vero anticipatore.
Oggi nella lettura cristologica ed evangelica si mettono più in evidenza la misericordia, la preghiera, la vigilanza, la tenerezza, la riconciliazione, la sobrietà, la giustizia, la carità: tutti valori che i tre classici nostri "consigli evangelici" (castità, povertà, obbedienza) non sembrano del tutto evidenziare. Da qui si potrebbe dedurre che forse la "triade" classica (risalente ai tria substantialia del XIII secolo) potrebbe essere ripensata, per una nuova provocazione culturale? Papa Francesco parla con frequenza della misericordia, della tenerezza, della prossimità, del servizio: come espressioni evangeliche vincolanti della sequela Christi. Si potrebbe ipotizzare una differente scelta nella "professione dei consigli evangelici"?
Non sarebbe di grande valore – pari almeno a quelli espressi dalla professione dei tre consigli – fare oggi professione di misericordia in un mondo di violenza, di riconciliazione in un mondo diviso e ingiusto, di sobrietà e solidarietà in un mondo di sprechi irrazionali, di relazionalità empatica e solidale in un mondo di individualismo esasperato? Alcune nuove comunità "professano" solo castità e comunione dei beni, altre insistono sulla solidarietà con i poveri, altre si caratterizzano per una ecologia solidale, oppure per la fraternità orizzontale, o per una terapia di umanizzazione. È solo un di più assimilabile ad un "quarto voto"? Oppure si può pensare che queste proposte "sfidano" più chiaramente le "idolatrie" attuali e quindi hanno un impatto "evangelico" più provocatorio? L'antropologia teologica che è implicata nei tre voti classici corrisponde ancora alla nostra antropologia, alla sensibilità culturale attuale, parla ancora ad una cultura digitale e al mondo virtuale? Ho parecchi dubbi al riguardo.
6. La chiesa "fraternità": un modello alternativo
Sappiamo tutti che la spiritualità di comunione è uno dei punti chiave dell'impulso conciliare, però non in senso intimistico e romantico. Ma il Concilio ha usato anche altri vocaboli e immagini, offrendoci una ecclesiologia ricca. In particolare forse la prospettiva del popolo di Dio in cammino, era la terminologia più suggestiva. Oggi ritorna nel magistero di papa Francesco la centralità del Popolo di Dio, con la sua religiosità, con le sue sofferenze, e le sue utopie, con il suo sensus fidei: "Il popolo di Dio possiede un fiuto infallibile nel riconoscere i buoni pastori e distinguerli dai mercenari" (Udienza, 23/11/2014).
Dietro un differente lessico ci sono sensibilità e culture diverse. E poi anche le stesse parole, in contesti culturali differenti, possono acquisire forza e significati non conosciuti altrove. La preferenza del Sinodo 1985 e anche di Benedetto XVI, per il lessico della Chiesa comunione, non era esente da preoccupazioni teologiche ed ecclesiali legate alla crisi di identità e di unità dell'Occidente cristiano. Il termine popolo di Dio, oltre ad essere conciliare, per papa Francesco ha uno spessore esistenziale e teologico tutto particolare, a motivo della sua provenienza ecclesiale dall'America latina. Un simile vocabolo detto in contesto asiatico risuonerebbe diversamente; detto nell'Est Europa o in Africa, implica ancora altro significato.
Sia Benedetto XVI che Francesco preferiscono utilizzare il termine fraternità. Mi permetto di sfruttare questo termine. E da questa prospettiva ecclesiologica possiamo trarre ispirazione per sviluppare alcune applicazioni alla vita consacrata.
1. Vita fraterna. Solo noi più anziani ricordiamo la concezione della vita in communi agenda del Codice del 1917, dove prevaleva la rigidità della uniformità visibile e la regularis observantia, pignola e scrupolosa. Tutt'altra visione ha il PC 15a, quando parla di fraterna conversatio e chiede di evidenziare il vinculum fraternitatis. Sulla stessa prospettiva si muove il nuovo Codice, quando parla di: Vita fraterna, unicuique instituto propria... fraterna comunione... (can. 602). Non si tratta solo di recupero di un lessico antico, o del superamento del modello rigido e spersonalizzante anteriore. Si tratta di un modello di Chiesa, che la vita consacrata intende proporre e visibilizzare. Una Chiesa di fraternità, di dialogo, di prossimità, di servizio e corresponsabilità.
Non è una variante linguistica, è qualcosa di sostanza. Anche se si fa fatica a ricavare le conseguenze giuridiche, modificando modelli istituzionali o almeno aprendoli al nuovo che cresce. Molte sono state in questo tempo le esperienze di fraternità che i consacrati hanno voluto tentare di vivere. Al fascino della fraternità semplice, flessibile, ospitale, orante, dialogante, in mezzo alla vita di tutti, si sono ispirati tanti gruppi in questi anni. Ma vorrei fare un passo più avanti. Bisogna andare oltre la fenomenologia, per una nuova ecclesiologia.
La vita in fraternità è anche un modello ecclesiale da proporre. È sempre stato così, da Basilio a Francesco, da Agostino alle esperienze attuali: la fraternitas non era una illusione romantica, un pio desiderio generoso. Ma un modello alternativo di essere Chiesa, autentica, fedele, centrata sulle relazioni primarie, sincere, immediate, non gerarchizzate. E nello stesso tempo anche aperta alla differenza delle culture, alla sinodalità. In questo gioverebbe far ricorso più alla comunità pluralistica e missionaria di Antiochia degli Atti, che a quella enfatizzata di Gerusalemme, troppo simbiotica, monoculturale e narcisista.
2. Laboratorio di interculturalità. Si moltiplicano velocemente le comunità dove convivono e collaborano persone di differenti origini, culture, lingue, origini. In passato questo era molto raro. Oggi questo fenomeno si sta trasformando da occasionale a progettuale, necessario, voluto, pianificato. E quindi bisogna gestirlo e non solo subirlo: per fare questo molte cose vanno ripensate. Ma non basta stare insieme nella stessa casa per superare le barriere e le reciproche incomprensioni. Le comunità devono assumere il compito di una conversione permanente, di invenzione di un nuovo modello di convivenza: "In modo da riuscire per tutti un aiuto reciproco nel realizzare la vocazione propria di ciascuno" (CJC, can. 602).
Qui si impone un modo nuovo di vivere ed esercitare la leadership: non si può nascondere la diversità per paura di compromettere l'unità. Non si può enfatizzare la diversità fino al punto da frammentare tutto per paura di ferire qualcuno. Proprio di un leader è l'arte di motivare le diversità verso la sinodalità, la sinergia, la dinamica della collaborazione e della corresponsabilità. La classica figura del superiore che fa da vigile urbano, "canalizzando" il traffico dell'osservanza regolare, non regge più. Deve sentirsi impegnato a vivere la diversità riconciliata, non con mero accostamento delle diversità, ma nella "convivialità delle differenze". Facendo convergere tutto nei progetti, nelle mete, nelle iniziative, come nella preghiera, nella corresponsabilità, nella solidarietà.
Esistono di fatto molte comunità interculturali e multiculturali, ma manca lo sguardo contemplativo reciproco, il desiderio di fare chiesa insieme, l'impegno a diventare laboratori di ospitalità solidale attraverso procedimenti a rete. Perché siamo abituati a gestire sistemi chiusi, procedure standard di efficienza e funzionalità. Ma la comunità religiosa non è una azienda e non può vivere per schemi "eterodiretti". Deve essere capace di autogoverno, gestendo le dinamiche interne e proprie. Il problema di fondo è che mancano modelli collaudati di responsabili con questa mentalità. Servono fraternità con inediti codici di esperienza e di appartenenza: la sinodalità e la koinonia non vanno confuse con una perpetua presenza simultanea di tutti, con la puntualità di tutti allo stesso orario, con il livellamento amorfo, e neppure con l'indifferenza reciproca per amore di pace.
È più difficile, se non impossibile, quando si tratta di attività/opere complesse, dove forse si richiede oggi più management da funzionari che ispirazione orientatrice da leadership. Troppo spesso il superiore delle case internazionali sembra esercitare il ruolo dell'albergatore che offre ricovero dietro pagamento, e non quello del samaritano che scende dalla cavalcatura e fascia le ferite... (cf. Lc 10,34). Non ci si improvvisa in questo nuovo ruolo, bisogna avere dentro il cuore una risorsa di empatia e di servizio, per rendere soggetto le persone e non l'organizzazione. E questo non è dato automaticamente con la nomina canonica...
3. Una chiesa povera e per i poveri. È rimasta famosa questa espressione di papa Francesco, detta nell'incontro con i giornalisti pochi giorni dopo la sua elezione. In questi 35 mesi di pontificato si è visto che è davvero una opzione fondamentale, ed emerge di continuo nei gesti e nelle esortazioni, nelle critiche pungenti che ama fare e nelle preoccupazioni che esprime. Nella sua esortazione apostolica Evangelii gaudium si nota questo fil rouge che attraversa tutto il testo, perché egli è convinto che "nel cuore di Dio c’è un posto preferenziale per i poveri" (EG 197). Egli vuole una "Chiesa in movimento di uscita da sé, di missione centrata in Gesù Cristo, di impegno verso i poveri. Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali! Questa mondanità asfissiante si sana assaporando l’aria pura dello Spirito Santo, che ci libera dal rimanere centrati in noi stessi, nascosti in un’apparenza religiosa vuota di Dio" (EG 97).
Tutta la storia della vita consacrata è segnata da questa centralità, espressa in varie maniere, secondo circostanze ed emergenze. S. Giovanni Paolo II aveva affermato che "servire i poveri è atto di evangelizzazione e, nello stesso tempo, sigillo di evangelicità e stimolo di conversione permanente per la vita consacrata" (VC 82). Tutte le riforme nella millenaria storia della vita consacrata hanno avuto nella scelta della povertà e dei poveri uno dei fulcri decisivi. Anche oggi questa situazione dei poveri, degli impoveriti e degli emarginati si presenta con molteplici differenze, secondo luoghi e contesti. Ma è una sfida e una chance, e bisogna riprendere questo protagonismo inventivo che tanto lodiamo per il nostro passato. È una questione di amore e di qualità relazionali: "Chi ama poco vede pochi poveri attorno a sé". La misericordia è geniale, intuitiva, creativa.
Ma la risposta o le risposte non possono essere semplicemente quelle delle opere ereditate dal passato, che pure hanno ancora senso e sono necessarie. Bisogna inventare nuove soluzioni, avviare nuove "opere" come risposta alle nuove urgenze. Ci deve essere lo splendore di una vita sobria, onesta, gratuita, senza sprechi. Ma anche una amministrazione senza illegalità, una gestione senza l'affanno dell'accumulo idolatrico. Più eloquente ancora è una scelta di vivere da poveri e abbracciare la causa dei poveri: "Non sono poche le comunità - riconosceva Giovanni Paolo II - che operano e vivono tra i poveri e gli emarginati, ne abbracciano la condizione e ne condividono le sofferenze, i problemi e i pericoli" (VC 90).
Oggi con questa "globalizzazione dell'indifferenza" e i sistemi finanziari senza etica né umanesimo, bisogna spingersi anche alla denuncia delle ingiustizie. Favorire una nuova alleanza contro l'individualismo mercificato dal capitalismo finanziario. Papa Francesco ha fatto un audace discorso all'incontro con i Movimenti Popolari (28 ottobre 2014), quando ha manifestato la sua solidarietà con i poveri che protestano contro le cause strutturali della povertà e ha invitato a promuovere il protagonismo e la dignità dei poveri stessi. Lo stesso tono ha avuto con i vari incontri nel viaggio in Sud America (luglio 2015). Ripete in maniera sempre pungente cose simili ogni volta che incontra gruppi intenti a promuovere la coscientizzazione dei diritti degli emarginati e degli "scarti" della società.
Come in passato i religiosi hanno saputo realizzare risposte strutturali e permanenti per la promozione dei poveri e degli emarginati, così oggi bisogna inventarne di nuove. Bisogna riprendere iniziative, primerear, direbbe Papa Francesco: "Prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi" (EG 24). I carismi possono diventare fantasmi ossessivi o totem intoccabili: devono invece essere "il profumo del Vangelo" (EG 39). Perché "ogni volta che ci incontriamo con un essere umano nell’amore, ci mettiamo nella condizione di scoprire qualcosa di nuovo riguardo a Dio. Ogni volta che apriamo gli occhi per riconoscere l’altro, viene maggiormente illuminata la fede per riconoscere Dio" (EG 272).
Giochiamoci il futuro
Siamo chiamati ad abitare gli orizzonti, ad esplorare cammini, non semplicemente a riciclarci, tanto per sopravvivere. In questa nuova Europa in bilico fra chiusure e solidarietà, dallo Spirito siamo chiamati a dare testimonianza evangelica, trasparenza di Dio, attrazione verso Cristo e il Regno promesso. Chi non anticipa il futuro, non troverà posto nel futuro. I religiosi sono da sempre testimoni del futuro atteso e anticipatori simbolici di quello che tutti attendiamo nella fede: un "regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace" (Prefazio, per la festa di Cristo Re).
S. Giovanni Paolo II invitava a "riproporre con coraggio l'intraprendenza, l'inventiva, la santità dei fondatori e delle fondatrici come risposta ai segni dei tempi emergenti nel mondo di oggi" (VC 37). Ma per fare questo c'è bisogno di riconoscere alla vita consacrata uno "statuto giuridico" aperto e capace di rispettare e apprezzare una certa genialità di esplorazione e di invenzione. Se la si irrigidisce entro schemi fissi, per paura di perderne il controllo, o perché il fascino del passato ci impedisce di pensare in modo nuovo e creativo, si rischia di farle fare la fine del vino nuovo messo in otri vecchi. Un disastro assicurato per il vino e per l'otre...: "Si perdono vino e otri" (Mc 2,22).
Certi esercizi di sopravvivenza non sono che un gioco di specchi: rimandano sempre la stessa figura, rimpicciolita all'infinito. Appunto come certe comunità e Istituti, che credono di fare cose nuove riciclando vecchie abitudini, solo superficialmente riverniciate. Tanto le cose buone valgono sempre...! Come dicevano quelli della parabola: "Il vino vecchio è gradevole!" (Lc 5,39).
"Ecco io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?" (Is 43,19). Lo Spirito sta facendo appelli a cose nuove, anzi già le suscita, con la sua creatività e chiamando a nuove stagioni i nostri carismi, dentro il travaglio di una Europa che si contorce per le doglie di un parto doloroso e imprevisto. Che non capiti anche a noi di constatare con il profeta Isaia: "Abbiamo concepito, abbiamo sentito i dolori quasi dovessimo partorire: era solo vento; non abbiamo portato salvezza alla terra e non sono nati abitanti nel mondo" (Is 26,18).
Bruno Secondin, ocarm