Dall'Osto Antonio
Un difficile dialogo
2016/4, p. 33
Anche se non ci sono particolari forme di violenza, esistono però molti pregiudizi che risalgono all’epoca coloniale. Ci sono tuttavia forme di dialogo che possono avvenire attraverso la vita quotidiana. Ma per ora il problema non è molto sentito da ambo le parti.
Tra cristiani e buddisti in Myanmar
UN DIFFICILE
DIALOGO
Anche se non ci sono particolari forme di violenza, esistono però molti pregiudizi che risalgono all’epoca coloniale. Ci sono tuttavia forme di dialogo che possono avvenire attraverso la vita quotidiana, nell’ambiente in cui si vive. Ma per ora il problema non è molto sentito da ambo le parti.
L’Assemblea Speciale del Sinodo per l’Asia del 1998 ha affermato che il dialogo interreligioso è uno strumento “molto importante” nel rapporto con le altre religioni. I cristiani infatti, non possono pensare a Dio senza dialogare con le altre religioni. Ciò è particolarmente vero, per esempio, per il Myanmar (Birmania) dove il 74% della popolazione è buddista, mentre i cristiani rappresentano una piccola minoranza del 6%. Ma è vero anche in senso più ampio per il resto dei paesi asiatici. In Myanmar, il dialogo con i buddisti non è facile, benché non ci siano tra le due religioni particolari forme di violenza. Esistono tuttavia molte incomprensioni reciproche, dovute a diffidenza, dubbi e pregiudizi.
L’unico modo per superarle, scrive Lucas Tha Ling Sum, un sacerdote birmano attualmente impegnato per la sua tesi di dottorato presso la facoltà cattolica dell’Università di Lovanio, uno strumento importante è il dialogo.
Quali sono le difficoltà tra i buddisti e i cristiani? Per comprenderle è importante partire dalle prospettive con cui queste due religioni si guardano tra loro. In primo luogo il modo con cui i buddisti considerano i cristiani. Per i buddisti il cristianesimo in Myanmar è una religione straniera. Per due ragioni. La prima deriva dall’epoca del colonialismo britannico. Benché il colonialismo inglese sia un fenomeno del sec. 18° e sia terminato con la proclamazione dell’indipendenza nel 1948, l’impatto che ha lasciato nella gente è profondamente avvertito anche oggi. A dire il vero, alcuni missionari erano giunti da quelle parti ancor prima del dominio inglese, ma è stato soltanto durante l’epoca coloniale che giunsero nel paese numerosi missionari, portoghesi, francesi e italiani. Di conseguenza, il loro stretto legame con il colonialismo suscitò nei birmani una serie di dubbi, di diffidenze, pregiudizi e incomprensioni che continuano a resistere anche attualmente. Una delle principali ragioni è appunto l’identificazione che ritengono esistere tra i missionari cristiani e i colonizzatori, essendo estranea alla loro mentalità la distinzione che c’è da noi tra Chiesa e Stato. A loro parere, pertanto i missionari e i colonialisti hanno agito insieme, mano nella mano, per realizzare i loro scopi comuni. Per molti buddisti perciò tra essere occidentale e cristiano non esiste molta differenza. Ed è anche la ragione per cui la presenza del cristianesimo in Myanmar non può essere ritenuta, a loro parere, solo come qualcosa di spirituale, ma piuttosto come una minaccia politica. Un esempio significativo di questa mentalità si è avuto in occasione del tifone Nagis che si è abbattuto nel paese nel 2008 provocando 238.000 vittime e danneggiando circa 2 milioni e 400 mila abitanti. In quella circostanza, gli Stati Uniti avevano subito offerto degli aiuti, ma la giunta governativa li rifiutò per paura di essere politicamente influenzata. Soltanto più tardi decise di accettarli, ma non direttamente dagli Stati Uniti, bensì attraverso l’ONU.
Una seconda ragione di diffidenza dei buddisti è la conseguenza della prima: è di carattere culturale nel senso che il cristianesimo non fa parte della tradizione e cultura birmana. Ad alimentare questa convinzione cooperò, per esempio, il fatto che l’architettura delle chiese, le vesti liturgiche e le immagini nei testi di catechismo erano in stile straniero. E, inoltre, il fatto che i cristiani in Myanmar hanno spesso ricevuto donazioni e materiale di sostegno dagli altri paesi.
C’è infine anche un fatto teologico: il cristianesimo ha spesso proclamato di essere l’unica via per raggiungere la salvezza. Per i buddisti è una pretesa difficile da accettare. Per essi il cristianesimo è solo una religione tra le altre nel mondo, di carattere greco-eurocentrico.
Ma pregiudizi esistono anche nel modo con cui i cristiani guardano ai buddisti. Ci sono coloro che li considerano “pagani e superstiziosi”. Una delle ragioni principali è che i buddisti, nella grande maggioranza non adorano il Dio cristiano, ma praticano il culto nat (spiriti). Inoltre sono ritenuti dai cristiani come superstiziosi. Per esempio, se una persona si ammala, essi pensano che sia posseduta da un nat. La possessione degli spiriti, sia essa psicologica o metafisica, costituisce agli occhi dei buddisti un fenomeno reale nel Myanmar. Per questa ragione portano la persona da un monaco buddista perché compia gli esorcismi.
Non mancano inoltre dei cristiani i quali pensano che i buddisti debbano convertirsi se vogliono essere salvati. Non è questo però il pensiero ufficiale dell’insegnamento della Chiesa, ma è frutto di una mentalità ancora diffusa in certe chiese evangeliche nel paese.
Il dialogo come via
alla comprensione e alla pace
Secondo il documento Atteggiamento della Chiesa cattolica di fronte ai seguaci di altre religioni, emanato dal Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, nella Pentecoste del 1984, il dialogo non comprende solamente lo scambio di opinioni, ma implica anche i rapporti positivi e costruttivi con i singoli e le comunità delle altre fedi per giungere a una reciproca comprensione e a un vicendevole arricchimento. Ciò significa che il dialogo interreligioso suppone anche il desiderio di far conoscere meglio Gesù Cristo perché sia riconosciuto e amato. Ciò fa parte del dialogo della salvezza che Dio ha iniziato con l’umanità. In questo senso, il dialogo rientra nella missione della Chiesa. È importante tuttavia notare, sottolinea L. Tha Ling Sum, che dialogo e annuncio sono strettamente collegati tra loro, ma non intercambiabili. Il Pontificio Consiglio mette in guardia contro questo errore: «Il dialogo interreligioso e l’annuncio, anche se si pongono su livelli diversi, sono entrambi elementi autentici della missione evangelizzatrice della Chiesa. Sono entrambi legittimi e necessari. Sono profondamente correlati, ma non intercambiabili: il vero dialogo religioso presuppone, da parte dei cristiani, il desiderio di far conoscere meglio, di far riconoscere e amare Gesù Cristo; l’annuncio di Gesù Cristo deve essere portato avanti nello spirito evangelico del dialogo» (77). È un atteggiamento su cui anche la Conferenza episcopale dell’Indonesia ha attirato l’attenzione: «La troppa enfasi posta sul dialogo corre il rischio di non mettere sufficientemente in risalto l’annuncio. Il dialogo interreligioso è distinto dall’annuncio, ma non può essere in opposizione ad esso, poiché nel dialogo i cristiani testimoniano la loro fede e nell’annuncio incontrano rispettosamente negli ascoltatori della Parola, la Verità e la Bontà divina che viene dal Dio della salvezza e li conduce alla conversione non solamente come frutto della proclamazione. È lo Spirito di Dio soltanto che opera la conversione a Dio in Gesù Cristo mediante sia l’annuncio sia il dialogo interreligioso».
È necessario perciò trovare un sano equilibrio tra i due atteggiamenti. Secondo il documento pontificio Dialogo e annuncio, il dialogo è un’esplorazione e una testimonianza il cui scopo è di raggiungere una comprensione più profonda tra due fedi. L’annuncio, invece, è la testimonianza diretta del messaggio evangelico e della fede in Cristo, e un invito ad accogliere quella fede.
Come si può applicare questa esigenza nel contesto del Myanmar? Bisogna evitare, scrive L. Tha Ling Sum, di pensare che il dialogo sia riservato unicamente agli esperti, mentre invece può essere praticato in varie forme. Il Pontificio Consiglio parla di quattro generi di dialogo interreligioso e sottolinea come esso sia possibile a chiunque e a diversi livelli per ogni cristiano.
Anzitutto il dialogo di vita che avviene là dove la gente vive attraverso uno spirito di apertura e di prossimità, nella condivisione delle gioie e dei dolori, dei problemi e delle preoccupazioni. In questa forma di dialogo, ogni cristiano è invitato a portare lo spirito del vangelo nell’ambiente in cui vive e lavora: sul piano della vita familiare, sociale, educativa, artistica, economica e politica. Questo genere di dialogo ha il vantaggio che non richiede alcuna qualifica o competenza teologica. La vita è piena di gioie e di sofferenze. Ciascuno ha l’esperienza della felicità e della tristezza. Ora, condividere la gioia o il dolore è un segno di amore, di interessamento, al di là dell’etnia e della religione. In questo senso costituisce una testimonianza implicita del vangelo. Questo genere di dialogo di vita è unito all’amicizia, che costituisce una delle esperienze concrete dell’attività missionaria. Può essere vissuto in molti posti, a scuola, negli uffici, nei luoghi di lavoro, nell’ambiente ecc. Siccome offre una grande quantità di opportunità, merita una speciale attenzione.
In secondo luogo, il dialogo dell’azione di natura umanitaria, sociale, economica o politica in ordine alla liberazione e al progresso. Come scrive il sinodo per l’Asia, «la promozione umana è una dimensione costitutiva dell’annuncio del Vangelo. Questo ha una particolare importanza in Asia dove si trovano alcuni tra i paesi più poveri del mondo e dove il 50% della popolazione soffre di indigenza, povertà e sfruttamento» (159). «A mio parere, scrive Lucas Tha Ling Sum, i vescovi intendono dire che il dialogo dell’azione costituisce un mezzo efficace per testimoniare il messaggio cristiano sotto il governo militare del Myanmar».
Una terza forma di dialogo è quella degli esperti. Richiede degli specialisti perché implica un profondo scambio teologico. Questa forma è piuttosto difficile da realizzare in Myanmar oggi. «A mio parere, osserva Tha Ling Sum, si può dire che da ambo le parti, buddisti e cattolici, non sono ancora preparati ad entrare in questo livello di dialogo».
Infine il dialogo delle esperienze religiose. Avviene attraverso la condivisione della propria tradizione e di esperienze come la contemplazione e/o meditazione, la preghiera, la fede e i mezzi per cercare l’Assoluto o Dio. Attraverso questo dialogo, ambedue le parti possono arricchire le loro convinzioni, la loro eredità e i loro valori religiosi. Generalmente parlando, si può dire che la gente del Myanmar è devota. I buddisti, per esempio, amano recarsi alle pagode a pregare. Sia a casa come anche nelle pagode spesso praticano la meditazione. Nutrono un grande rispetto dei loro monaci e delle loro monache. Quando un pio buddista passa davanti a una pagoda si volge verso di essa e si inchina in segno di rispetto e di venerazione. È qualcosa di molto simile al gesto dei cattolici che fanno il segno della croce passando davanti a una chiesa.
Quando, per esempio, i cristiani partono per recarsi da una città all’altra in autobus, o appena lasciano la città, l’autobus si ferma un momento e uno dei passeggeri prega per il buon viaggio a nome degli altri passeggeri e offre la giornata al Signore. Dopo proseguono il viaggio. È un fatto normale in alcune parti del paese, specialmente nelle zone a maggioranza cristiana. Ciò indica che ci sono molti aspetti nelle esperienze religiose che sia i cristiani che i buddisti possono condividere.
Ma, prosegue Lucas Tha Ling Sum, la cosa importante dal punto di vista pratico, per tutte le quattro forme di dialogo, è che i cristiani entrino in questo dialogo con cuore aperto e sincero. Devono ricordarsi che il partner va rispettato e si deve dargli la possibilità di parlare. Per sua natura, infatti, il dialogo è una strada a doppio senso. Ognuno deve essere disposto a imparare dall’altra parte. Purtroppo in Myanmar quando si tratta di religioni, spesso in molta gente si riscontrano forme di trionfalismo, imperialismo e superiorità, sia tra i buddisti sia tra i cristiani. È una mentalità da cambiare perché costituisce una vera pietra d’inciampo per il dialogo. Dal punto di vista cristiano della proclamazione del Vangelo ciò costituisce un ostacolo alla testimonianza di Cristo “mite e umile di cuore”. Nel dialogo è estremamente importante non avere la voglia di convertire l’altro perché con questa segreta intenzione, nessuno può entrare in un dialogo sincero.
Nell’attuale rapporto tra buddisti e cristiani in Myanmar, conclude Lucas Tha Ling Sum, esiste ancora una vasta gamma di difficoltà. La prima è l’“ignoranza” che si costata da ambedue le parti. Ciò significa che sono pochi i buddisti e i cristiani che prestano attenzione quando si parla di religione.
Una seconda difficoltà è che tutti i buddisti appartengono al gruppo etnico Barman (o burmese), mentre la grande maggioranza dei cristiani fa parte dei gruppi minoritari come gli Shan, Kachin, Chin, Karen, Rakhai e Kaya. Un dialogo tra i buddisti e i cristiani significa perciò un dialogo tra il gruppo etnico Barman e gli altri sei gruppi. Molti di questi problemi etnici sono di ostacolo al dialogo religioso.
Terza difficoltà è che il cristianesimo in Myanmar è considerato da molti buddisti come una religione straniera. Dal punto di vista buddista perciò il dialogo tra buddisti e cristiani vuol dire dialogo tra il buddismo e una religione straniera.
Una quarta difficoltà sta nel fatto che molti cristiani non sono convinti dell’importanza e della necessità di dialogare con i buddisti.
Infine, quinta difficoltà, la libertà religiosa è spesso limitata, almeno in alcune parti del paese. E ciò costituisce una pietra d’inciampo per il dialogo.
Nonostante tutti questi ostacoli e queste difficoltà e sfide, conclude Lucas Tha Ling Sum, i cristiani in Myanmar devono lo stesso cercare di dialogare. Come ebbe a dire giustamente Hans Küng «non ci sarà pace tra le nazioni senza la pace tra le religioni, e non ci sarà pace tra le religioni senza un dialogo tra di esse». In Myanmar un dialogo vero e sincero è urgentemente necessario anzi indispensabile non solo per superare l’attuale impasse ma anche per costruire un clima di mutua comprensione, di rispetto e di pace tra il buddismo e il cristianesimo per il benessere del popolo nel suo insieme. Un dialogo genuino è un mezzo per trasformare la società e il mondo in armonia con la buona Novella di Gesù Cristo il quale vuole che tutti raggiungano la felicità eterna.
Antonio Dall’Osto