E' tempo di nuove esplorazioni
2016/4, p. 30
Oggi siamo in un nuovo secolo e millennio. Ciò non
significa soltanto cambiamento di date ma di schemi
esemplari, specialmente quelli che riguardano la persona, la
vita religiosa, i servizi prestati, il modo di sentire
l’istituzione, l’autorità, e i modi di rendere esplicita e
feconda la koinonia.
Risposte a nuovi interrogativi
È TEMPO DI NUOVEESPLORAZIONI
Oggi siamo in un nuovo secolo e millennio. Ciò non significa soltanto cambiamento di date ma di schemi esemplari, specialmente quelli che riguardano la persona, la vita religiosa, i servizi prestati, il modo di sentire l’istituzione, l’autorità, e i modi di rendere esplicita e feconda la koinonia.
L’invito a «esplorare vie nuove per attuare il Vangelo nella storia» viene dal sinodo sulla vita consacrata (VC 84). Poi, in Ripartire da Cristo n.12 è data la motivazione: «oggi in modo particolare le persone consacrate, sono obbligate a porsi non pochi interrogativi sul senso della propria identità e del loro futuro», intendendo dire che nell’identità è insita l’esigenza di dinamicità, evoluzione, a partire dall’ammettere che se il nostro intimo essere è l’essere “chiamati”, è chiaro che diventi fondamentale sviluppare l’attitudine all’ascolto di ciò che la storia va dicendoci.
Perché molti degli antichi carismi faticano a proiettarsi nel futuro mentre ne sorgono, vigorosi, dei nuovi?
La domanda ha in sé questa risposta: usciranno dalla crisi quei carismi che sapranno vivere il momento presente come fatto paradossalmente provvidenziale e con quella alacrità che solo un fatto nuovo può suscitare, mettendosi di fronte all’inedito liberi da pre-comprensioni e pre-definizioni che vengono da mondi che non esistono più, consapevoli che «le nuove forme di vita consacrata sono nate da gente innamorata della Chiesa senza condizioni e tuttavia critiche e libere dinnanzi ad ogni sorta di discorso a priori».
Il cambio d’epoca
e i nuovi paradigmi
Oggi siamo in un nuovo secolo e millennio che non significa soltanto cambiamento di date ma, in particolare, cambiamento di schemi esemplari, specialmente quelli che riguardano la persona, la vita religiosa, i servizi prestati, il modo di sentire l’istituzione, l’autorità, e i modi di rendere esplicita e feconda la koinonia.
Al concilio Vaticano II, quando vari vescovi della curia romana dissero al card. Bea, difensore dell’ala innovatrice: «questa non è la dottrina tradizionale», rispose: «ma è la vita di oggi a non essere tradizionale». Di qui la necessità per essere “sale della terra anziché statue di sale” di sottoporre a critica storica molti dei presupposti culturali che la vita religiosa si è portata dietro da altri tempi.
«È arrivato il tempo in cui la fraternità non dipende da un solo tipo di vita comunitaria monastico-conventuale».
A dirlo è stato p. Maccise dopo una lunga esperienza di governo del suo Ordine. La stessa cosa disse l’ex Ministro dei Domenicani, p.T. Radcliffe. L’uno e l’altro con parole diverse hanno invitato a svincolare il nucleo centrale della vita religiosa dalle sovrastrutture per riproporre nell’oggi l’essenziale, perché il mondo un po’ autistico entro cui si muove, le impedisce di dare attualità, presenza, incidenza storica agli appelli del Vangelo in risposta alle attese dell’uomo d’oggi.
Per avanzare dovremmo imparare dalla scienza la cui forza non sta tanto nel riferimento al tradizionale, al saputo, ma al dubbio, alla ragione, alla sperimentazione, senza distrarsi, come fa la vita religiosa, con discorsi estetici sui suoi ideali, invece di analizzare in profondità la situazione».
La vita religiosa per uscire dal posto marginale che di fatto ha, nella coscienza collettiva della Chiesa ha bisogno di forme espressive rivelatrici di nuove tracce di senso che rendano evidente la sua funzione di “segno”, non essendo sufficienti quelle di un tempo. Oggi è opinione diffusa che ad esprimere in novità l’identità carismatica al di sopra dell’identità istituzionale si arriverà attraverso forme diversificate di fare comunità. Istanze in tal senso sorgono da varie parti. Negli ultimi anni, molti Capitoli – a mia conoscenza – si sono espressi in questi termini: «si favoriscano nuove forme di condivisione fraterna»: sono una presa d’atto del fatto che «si sta definendo un nuovo modello di vita consacrata attorno a nuove priorità».
Non si nega, anzi è bene che tra le differenti modalità di essere discepoli ci sia una forma che intende vivere la comunione in senso “locale” e stabile, ma altra cosa è identificare la koinonia unicamente con vita sotto lo stesso tetto quasi a dire che se c’è la seconda necessariamente c’è anche la prima; oppure che in ogni caso questa sia per tutti la forma che oggi meglio visibilizza lo stare con il Maestro.
È tempo allora di prendere le distanze da una certa concezione canonica della “comunità” più attenta alla fisicità delle situazioni che alla spiritualità; alla forma piuttosto che all’essenza. Servono forme in grado di liberare i valori intrinseci da quelli strumentali, uscendo dalle strettoie storico-giuridiche che essa stessa si è imposte. La domanda da cui partire potrebbe essere: la vita degli apostoli e poi delle prime comunità cristiane sono prototipi di vita in comune o di vita in comunione?
È necessario prendere atto della relatività storica di ogni forma e che da ogni crisi se ne esce solo in avanti.
Prendo qui in considerazione tre dimensioni da ri-esplorare, espresse con delle domande.
La vita religiosa è capace di risposta alla nuova domanda antropologica?
Nell’attuale società le pratiche di futuro sono da ricercare anzitutto entro una nuova concezione dell’uomo. È cambiata la persona. Si è passati dall’essere “sudditi” a “concittadini” per cui oggi l’uomo accosta l’antropologia spogliata dalle strutture di pensiero e di potere proprie di un tempo. Per la vita religiosa si tratta di riequilibrare un pensare ancora sbilanciato sul versante strutturale-gerarchico per portarsi a ricombinare in modo creativo e responsabile il principio di fraternità, la quale per essere vera deve farsi carico di una fraternità non di “figli” ma di uguali. Francesco d’Assisi era consapevole che il Signore gli avesse dato dei fratelli e non dei figli.
Questo nuovo modo di vivere la fraternità richiede d'essere reso forte da una espressione di autorità che favorisca la maturazione di ogni membro, dia potere alle persone e non lo tolga, le renda autonome, le formi alla libertà e alla creatività. Al centro dell’attuale cultura c’è la collaborazione responsabile e generosa, non c’è la delega a qualcuno perché pensi e decida, ma l’individuo come principio e come valore «capace di assumersi fino in fondo le proprie responsabilità, offrendosi per un progetto che supera gli ambiti puramente individuali».
Sento ricorrente questa domanda: non sarà che in questo momento di spaesamento nella vita religiosa è in aumento solo l’interesse organizzativo ed è in calo la capacità di dare spazio alla persona tutta intera, la quale oggi più che mai fugge dal tentativo di essere amministrata prevalentemente secondo finalità imposte dall’alto?
Quale tipo di organizzazione istituzionale non è propria della vita religiosa?
Il card.Martini ebbe a dire: «Non ci stiamo forse limitando mediante i vincoli dell’istituzione che sa di burocrazia e per nulla di profezia?»; e papa Ratzinger: «è tempo di meno organizzazione e più Spirito Santo».
Il termine burocrazia rimanda a un assetto istituzionale che facilmente pecca di centralismo e curialismo. Ma la vita religiosa non è un’ istituzione, è famiglia di Dio concepibile quale modello dì relazioni tra persone e laboratorio di comunione.
L’attuale cultura si oppone a tutte le istituzioni che non sono mai state sfiorate dall’illuminismo. A partire da questo ogni giorno di più nel corso della post-modernità, la società non tollera poteri autocratici o loro imitazioni più o meno camuffate. E la religione non ha titolo per impegnarsi a rafforzare tali poteri, a legittimarli o a sostenerli. Gesù si è reso conto di ciò prima dell’illuminismo e lo ha lasciato detto: «Non così dev’essere tra voi» (Mc 10,42).
Sarebbe inoltre fruttuoso esaminare anche il problema dell’uso teologico del pensiero sociale contemporaneo, non per conformare le strutture della Chiesa a quelle della democrazia, ma per discernere in che modo le strutture della democrazia possano servire concretamente a creare quelle della Chiesa tutta “popolo di Dio”. In questo potrebbe essere utile riferirsi a s.Paolo per il quale non c’è comunità senza interdipendenza di doni. Vale a dire che in una comunità ognuno ha autorità sugli altri e conseguentemente ognuno deve essere reciprocamente «obbediente», per il fatto che questo modo di “stare assieme” si sorregge sul principio della sussidiarietà e della corresponsabilità.
La vita religiosa a quali relazioni speciali e feconde sintonie è chiamata?
Dal Concilio in poi, viene detto che la vita religiosa non è nata per essere differente ma per ri-orientare la vita cristiana alle sue origini, vivendo il Vangelo come funzione critica all’interno del contesto storico. I religiosi allora non sono eroi solitari ma compagni di viaggio che nella condivisione della vita di tutti, sono invitati a essere buona notizia tra la gente. Questo è il dono che i religiosi/e possono e devono fare alla Chiesa: essere sovrabbondanza di trasparenza evangelica perché in questo sta l’essenza della loro vocazione piuttosto che nell’essere visti come personaggi del tempio, della legge, del diritto, delle istituzioni.
La vita religiosa sta oggi sperimentando quanto sia vero che una identità isolata prima o poi non regge più. Il card. Martini ebbe a dire: «più nessuno è in prima fila», intendendo dire che non c’è qualcuno che debba solo insegnare, ma tutti, andando a braccetto, imparare gli uni dagli altri. Nella esortazione apostolica Evangelii gaudium è detto che oggi nella Chiesa «ci sono istituzioni ecclesiali, comunità di base e piccole comunità, movimenti e altre forme di associazione, ricchezza della Chiesa che lo Spirito santo suscita per evangelizzare tutti gli ambienti e settori» (EG n.12). Esperienze discepolari impegnate sia nel metodo di comunicazione del messaggio evangelico, ma di più nel ripensare il messaggio stesso nell’ambito socio-culturale in cui si cala, ospitando una visione dinamica e non più statica della verità. Sono questi nuovi soggetti ecclesiali «molto appellanti non attraverso documenti, dichiarazioni, teorie, ma per la trasparenza di quella vita fraterna dove lo stare assieme ha un significato di unione interiore piuttosto che il senso locale temporale», lasciando così intravedere che la koinonia non è legata unicamente a strutture istituzionali e che non è aumentando la quantità dell’essere insieme “locale” che si approfondisce il radicalismo evangelico.
In sintesi
Per le prime comunità cristiane l’ideale non è stato quello di costruire una fraternità diversa, separata, un mondo a parte alla maniera di quella degli Esseni, da cui Gesù prese le distanze, ma una comunità che sapesse estendere a tutti l’ideale evangelico della fraternità. Dunque l’elemento irrinunciabile e caratterizzante la vita consacrata è la vita in comunione, quella che è data dal tipo di rapporti reali e dunque non una comunione a distanza o attraverso relazioni scandite in incontri istituzionali, professionali, funzionali, ma quella che si trasmette viso a viso attraverso persone felici e realizzate.
Allora la vita religiosa per poter essere presente nell’attuale esperienza storica ha da assumere, inventare, dare nuovi volti, nuove espressioni alla dinamica simbolica della sua vocazione, lasciando riemergere quella creatività che tutti gli Istituti hanno posseduto perché originati da questa, resistendo alla tentazione finora acconsentita, di ricercare ancoraggi soltanto all’interno dei propri spazi. Ne consegue che un unico modello di vita comunitaria non è più possibile, e in ogni caso non proponibile per questa generazione attestata su nuovi modelli culturali. Allora bisognerà essere aperti a nuovi esempi di comunità religiosa, che oltre a visibilizzare lo stare assieme, testimonino quella fraternità, che associa l’«esperienza di Dio condivisa, la preghiera, la celebrazione comunitaria della fede e della vita, la comunicazione dei beni, la pratica comunitaria della riconciliazione, la missione partecipata».
La credibilità della vita religiosa futura dipenderà da tutto ciò, sviluppato però in nuove forme sociali rispettose di alcune caratteristiche della cultura post-moderna, come la rivalutazione dell’individuo, con l’accento posto sull’esperienza personale, il pluralismo, la presa di distanza da convenzionalismi.
Rino Cozza csj