Ciardi Fabio
Non solo un anniversario
2016/4, p. 21
È l’occasione per guardare avanti, rimanendo fedeli alla spinta carismatica iniziale. Occorrerà la medesima capacità di leggere i segni dei tempi e la stessa audacia e determinazione nell’individuare nuove vie, come la comunità delle origini.
Bicentenario di fondazione OMI
non soloun anniversario
È l’occasione per guardare avanti, rimanendo fedeli alla spinta carismatica iniziale. Occorrerà la medesima capacità di leggere i segni dei tempi e la stessa audacia e determinazione nell’individuare nuove vie, come la comunità delle origini.
«Celebro domani l’anniversario del giorno in cui, sedici anni fa, lasciavo la casa materna per andare ad abitare alla missione… Il mio letto di corde fu sistemato nel piccolo passaggio che conduce alla stanza che serviva da camera da letto dei miei primi due compagni; era anche la nostra sala di comunità. Una lampada costituiva tutta la nostra bella illuminazione e, quando bisognava andare a letto, la mettevamo sulla soglia della porta perché servisse a tutti e tre. La tavola era costituita da due assi giustapposte e posate su vecchi barili. Non avevamo perso nulla della nostra allegria; anzi, visto che questo nuovo stile di vita contrastava in modo abbastanza evidente con quello che avevamo appena abbandonato, ci capitava spesso di riderne di buon cuore. Era doveroso per me questo bel ricordo nel santo anniversario del nostro primo giorno di vita comune». Così sant’Eugenio de Mazenod ricordava il 25 gennaio 1816. Dopo la sua morte i membri della famiglia da lui fondata, i Missionari Oblati di Maria Immacolata, presero a celebrare quel giorno come anniversario della loro nascita.
Tempo
di grazia
A 200 anni dalla fondazione è iniziato l’anno commemorativo. Uno dei tanti anniversari di una delle tante famiglie religiose. Siamo assuefatti, il più delle volte essi non hanno una minima influenza ecclesiale né tanto meno risonanza pubblica, a meno che non si tratti di rare grandi istituzioni di carattere sociale. Eppure, per chi fa parte di quella famiglia religiosa, in questo caso gli Oblati, la memoria delle origini può costituire un tempo di grazia.
A cominciare dalla scelta della data. Come ogni altra fondazione, anche la nostra è frutto di un processo che ha visto diversi momenti significativi. Il Fondatore, ad esempio, amava ricordare il giorno in cui aveva firmato il compromesso per l’acquisto della casa dove sarebbe andato a vivere con i primi compagni, quello nel quale aveva pronunciato i voti, quello dell’approvazione pontificia... È stata la generazione successiva alla sua a decidere di legare la data di fondazione all’inizio della vita comune. Fu una scelta significativa, che mette in luce la centralità della comunità nel progetto missionario dell’Istituto. Eugenio de Mazenod, fin dagli inizi, ha pensato un corpo di missionari che vivessero in comunità apostoliche e si distinguessero per la carità fraterna. «Viviamo in comunità con una regola soave… – scriveva poco dopo la fondazione –. Regna fra noi lo spirito della carità e della più perfetta fraternità. Abbiamo l’ambizione di conquistare anime a Gesù Cristo». Già durante la prima missione al popolo notava lo stretto legame tra comunione ed evangelizzazione: «Tra noi missionari siamo quel che dobbiamo essere, abbiamo cioè un cuore solo, un’anima sola, un solo pensiero: è straordinario!». La memoria del 25 gennaio non è dunque soltanto una data “celebrativa”, ma un appello a ritrovare quell’iniziale esigente indissolubile legame di unità.
Il card. Parolin, Segretario di Stato Vaticano, ha trasmesso al superiore generale gli auguri di papa Francesco, scrivendo tra l’altro: «Sua Santità si unisce a voi nel rendere grazie all’Onnipotente per le numerose benedizioni riversate sull’Istituto in questi 200 anni e per i frutti abbondanti che le vostre fatiche hanno portato. Perché possiate essere ancor più fedeli al carisma del vostro fondatore, sant’Eugenio de Mazenod, vi incoraggia tutti ad approfondire il vostro impegno personale con Gesù Cristo e ad essere uomini che testimoniano continuamente la gioia del Vangelo “non solo con le parole, ma soprattutto con una vita trasfigurata dalla presenza di Dio” (Evangelii gaudium, 259). In questo modo sarete veramente co-operatori con Cristo ed evangelizzerete quanti hanno maggiormente bisogno della sua misericordia e del suo amore». Parole dovute, di circostanza, agli Oblati sono sembrate un autentico personale invito al ringraziamento e a un rinnovato impegno.
Il ringraziamento sgorga spontaneo quando si guarda ai 200 anni passati. Benché il Fondatore parlasse della sua famiglia come “piccola società”, anche noi Oblati abbiamo “una grande storia da raccontare”. È la storia di 14.743 Oblati professi perpetui; numerazione che inizia con sant’Eugenio e giunge a Jeniston Benedict Therispustam, un Oblato dello Sri Lanka, che ha fatto l’oblazione perpetua l’8 dicembre 2015. Una storia che ha portato i nostri missionari, fin dai tempi del Fondatore, nei diversi continenti.
L’impegno
missionario
Nell’immaginario collettivo la prima grande epopea fu quella tra gli amerindiani e gli esquimesi del Nord America. Grazie ad essa gli Oblati furono definiti “i missionari del Polo Nord”. Fino a pochi anni fa tanti giovani erano attratti proprio dal racconto di quella prima missione, che rimane un fiore all’occhiello della Congregazione. Ancora negli anni Ottanta un certo Giovanni Santolini, da Genova, chiese al superiore generale di essere accolto dagli Oblati per andare al Polo Nord. Fu poi destinato al Congo, dove ha dato la vita per la missione. “Pensavo di raggiungere una terra con 40 gradi sotto zero – amava ripetere –, sono finito a 40 sopra… stesso numero di gradi, stessa missione!”.
Lo spirito e l’impegno missionari continuano ad animare i più di 3.800 Oblati presenti in 68 Paesi. Essi riconoscono come prioritaria ed essenziale l’evangelizzazione dei cristiani meno raggiunti dalle strutture pastorali della Chiesa e di coloro che non hanno mai conosciuto e accettato il Vangelo. Si trovano missionari tra i pionieri delle nuove frontiere della missione, quali le comunicazioni sociali e il dialogo interreligioso. Ci sono comunità che lavorano in ambiente completamente musulmano, e senza cura di comunità cristiane, come nel Sahara o nel Sud delle Filippine. Pio XI, il “papa delle missioni”, forse ancora oggi come allora, definirebbe gli Oblati “missionari delle missioni difficili”.
L’impegno
per la santità di vita
Assieme alla comunità e alla missione, l’impegno per la santità era un terzo pilastro della costruzione voluta da sant’Eugenio.
L’efficacia di un carisma si misura infatti anche dalla santità che suscita, prima nei membri che lo vivono, poi nelle persone verso le quali si pone a servizio. Non è certamente quantificabile ciò che il carisma di sant’Eugenio ha operato nelle Chiese a cui gli Oblati hanno dato vita e che hanno servito. Anche la santità dei membri dell’Istituto rimane nel segreto di Dio. Essa si è tuttavia espressa nella canonizzazione del fondatore, nella beatificazione di 24 Oblati e in quella di altri 7 che avrà luogo quest’anno. Sono missionari che hanno fatto nascere nuove Chiese, come padre Giuseppe Gérard, uno dei primi Oblati mandati dal Fondatore in Sud Africa; sono martiri, come il polacco Giuseppe Cebula, quelli della Spagna, del Laos. Tra i venerabili ci sono vescovi delle missioni indiane nel Grande Nord canadese, un asiatico fondatore di due istituti religiosi contemplativi, un Fratello oblato ed altri ancora. L’impegno alla santità si ripercuote anche nell’apostolato, facendo sorgere numerose case di spiritualità e di ritiro per i cattolici e perfino per i non cristiani, come gli Ashram in India e in Sud Africa.
La fecondità del carisma appare inoltre nei 46 Istituti maschili e femminili fondati da Oblati in questi 200 anni: famiglie contemplative, congregazioni religiose, istituti secolari, che comprendono circa 16.000 persone consacrate con voti. Numerosi i laici chiamati a condividere attivamente la vita, la spiritualità e la missione degli Oblati.
La devozione a Maria, evidente nel nome di famiglia, si esprime anche nella cinquantina di santuari mariani serviti dagli Oblati in tutto il mondo. Essi sono luoghi di accoglienza, di evangelizzazione, di rinnovamento e di preghiera nei quali Maria diventa via a Cristo e modello di vita cristiana.
Guardare avanti
nella fedeltà alle origini
Dopo aver invitato gli Oblati a ringraziare per la loro storia, papa Francesco li invita a guardare in avanti, rimanendo fedeli alla spinta carismatica iniziale. Occorrerà la medesima capacità di leggere i segni dei tempi, che ha caratterizzato la nascita della Congregazione, quando, proprio il 25 gennaio 1816, sant’Eugenio insieme ai primi cinque compagni scriveva di essere «vivamente colpiti dalla pietosa situazione dei piccoli centri e dei villaggi della Provenza che hanno quasi completamente perso la fede», e di avere «constatato per esperienza che l’indurimento dello spirito e l’indifferenza di questa gente rendono insufficienti, e anzi inutili, i soccorsi ordinari…». Occorre la stessa audacia e determinazione nell’individuare nuove vie, come la comunità delle origini quando, sempre in quel 25 gennaio, giunse «alla convinzione che le missioni sarebbero il solo mezzo con il quale si potrebbe arrivare a far uscire dal loro stato di abbrutimento questa gente abbandonata». Il papa suggerisce anche la stessa modalità: «impegno personale con Gesù Cristo ed essere uomini che testimoniano continuamente la gioia del Vangelo».
Un anniversario è tempo propizio per ripensare il carisma. Non si può pretendere di fissarlo una volta per sempre; esso rimane dinamico e aperto al nuovo. Ogni generazione è chiamata a rileggere la storia del proprio fondatore e a reinterpretarla, partecipando al suo intrinseco dinamismo, per saper leggere il presente e preparare in modo creativo il futuro.
Personalmente, quando mi viene chiesto: «Qual è il vostro carisma?», non posso fare a meno di raccontare la storia di un giovane, Eugenio de Mazenod, che sperimenta in sé l’amore misericordioso di Dio, manifestatosi in Cristo Crocifisso, il Salvatore. Da lui redento si sente chiamato a divenire strumento di redenzione: cooperatore di Cristo Salvatore. Alla luce di questo mistero, con gli occhi nuovi della fede, gli occhi stessi del Salvatore perché con lui identificato, guarda alla Chiesa e la riconosce come Sposa di Cristo, frutto del suo martirio. Vede il suo stato di abbandono, sente il grido di lei che chiama a gran voce i suoi figli e si dichiara pronto a rispondere. È mosso a compassione alla vista dei poveri, per i quali Cristo ha versato il suo sangue, e decide di dedicarsi ad essi per far loro conoscere, mediante il ministero dell’evangelizzazione, chi è Cristo, così da aiutarli a prendere coscienza della loro dignità di figli e figlie di Dio. Unisce a sé altri sacerdoti e poi dei fratelli laici, con i quali sceglie di vivere i consigli evangelici, sull’esempio degli Apostoli, per attuare con radicalità e pienezza la vocazione cristiana alla santità e per lanciarsi insieme nel ministero dell’evangelizzazione di tutto l’uomo, di tutti gli uomini, specialmente dei più poveri e dei più abbandonati. Scopre gradatamente la presenza di Maria nella sua vita e nel suo ministero. Si riconosce strumento del suo amore di misericordia per gli uomini e si sente chiamato a portare a lei, Madre di Misericordia, i figli di Dio dispersi. Con i suoi fratelli inizia così a dirigersi verso coloro che più difficilmente sono raggiunti dalla pastorale ordinaria della Chiesa, dove altri non vogliono o non possono andare, con uno stile di evangelizzazione audace, d’avanguardia, capace di aprire vie nuove, nelle quali impegnarsi fino all’estremo, senza lasciare nulla di intentato. Contribuisce così, in comunione con le altre vocazioni presenti nella Chiesa, al disegno di Dio: radunare uomini e donne nella grande famiglia di Dio, condurre l’umanità verso l’unità chiesta da Gesù al Padre, così da giungere ad essere “tutti uno”.
È un’esperienza che anch’io cerco di condividere.
Fabio Ciardi