Protese come antenne
2016/4, p. 18
Noi dobbiamo essere «come antenne pronte a cogliere i
germi di novità suscitati dallo Spirito Santo, e aiutare la
comunità ecclesiale ad assumere questo sguardo di bene e
trovare strade nuove e coraggiose per raggiungere tutti».
I cento anni delle Figlie di san Paolo
PROTESE
COME ANTENNE
Noi dobbiamo essere «come antenne pronte a cogliere i germi di novità suscitati dallo Spirito Santo, e aiutare la comunità ecclesiale ad assumere questo sguardo di bene e trovare strade nuove e coraggiose per raggiungere tutti».
Ripercorrere i cento anni di una fondazione è impresa non facile. Non tanto per la scarsa documentazione esistente, quanto piuttosto perché è impossibile comprendere a pieno il vissuto di chi ha fondato e risalire alle incertezze dei seguaci della prima ora, pionieri in un'avventura affascinante per l'idealità, ma colma di carenze, forse anche poco chiara nelle finalità. Altresì difficile raccontare di tutte le tappe che hanno reso "compiuto" il centenario di una congregazione.
Dal passato
al futuro
Celebrare questo evento significa guardare al passato per proiettarci verso il futuro. Era il 15 giugno 1915: tutto è iniziato nella povertà di un laboratorio femminile. L'idea di don Alberione era precisa: "Le Figlie di san Paolo sorgevano per dedicare la loro vita alla buona stampa. E intanto, però, erano senza tipografia, e cominciarono a fare camicie e mutande per i fornitori militari", scriveva don Timoteo Giaccardo, uno dei Paolini della prima ora (21 giugno 1923). "Le Figlie avevano bisogno di tutto: cominciando dall'istruzione tecnica". Ma del resto "Il Signore aveva preso dei pescatori e disse loro: d'ora in avanti sarete pescatori di uomini" (Giaccardo, 15 giugno 1924).
Il nostro esserci da 100 anni ci fa sentire piccole e disarmate, come allora. Camminiamo su strade sempre nuove e diverse, anche se uguali nella sostanza: portare la carità della verità a tutto l'uomo. Oggi, valorizziamo le reti sociali (Facebook , twitter, Istagram), perché dal 1915 siamo in cammino adattandoci ai cambiamenti culturali, sociali e tecnologici. Ma da sempre salvaguardiamo la comunicazione come fatto umano, più che tecnologico, pur essendo dentro un villaggio globale. E se l' evolversi delle tecnologie dà un volto sempre nuovo alla nostra missione, rimaniamo ancorate alla fede che il beato Giacomo Alberione e Maestra Tecla Merlo hanno avuto sin dalle origini.
Nel fare memoria dei cento anni del nostro carisma, troviamo che il duplice invito di papa Francesco: "Svegliate il mondo" e "siate una chiesa/congregazione in uscita", vada per noi associato a quanto, molti decenni fa, ci diceva don Alberione: "L'umanità è come un fiume che va a gettarsi nel mare della vita. Come cammina questa umanità, quale direzione prende, quali scelte fa? Quante volte vi domandate: dove va questa umanità smarrita?"
"Svegliare il mondo" è una frase suggestiva che va sminuzzata: sveglia il mondo chi vive intensamente la propria vocazione, chi non resta fermo a guardare ma si mette in moto per capire meglio, per vedere con maggiore acutezza, per guardare con lo sguardo di Dio questa umanità. Sveglia il mondo chi vive il Vangelo e riconosce i suoi "germi di novità".
Come svegliare l'umanità? Nel contesto socio-culturale di oggi, più che di grandi strutture, noi dobbiamo fermarci a incontrare le persone agli svincoli della città, piantando "agili tende nei crocevia dell'umanità" (Lettera ai consacrati Scrutate). E dentro la tenda, vivere di silenzio, ascolto, preghiera. Tre vie sicure per contrastare la strumentalizzazione che spesso oggi si fa delle parole e per risvegliare nell'umanità la consapevolezza di ciò che resiste/dura nel tempo, ciò che dona pace e apre al futuro, ciò che conta veramente.
Noi, con la nostra vita fatta di silenzio, ascolto e preghiera, possiamo dire che «in questa società del parlare senza ascoltare, dell'essere perennemente connesso e quindi "esposto" al chiacchiericcio, la preghiera protegge la parola e combatte la banalità dello stesso mondo del comunicare» (Silvano Petrosino)
La sfida
di oggi
Mentre una grande parte della cultura della comunicazione sembra assopita su ciò che appare, sull'immagine, su ciò che non è duraturo, noi, con la nostra vita, possiamo dire che nel mondo c'è tanto bene silenzioso, ma reale, verso cui andrebbe rivolta maggiore attenzione.
Tante persone sembrano disorientate e assetate di "essenzialità". Noi siamo ancora chiamate a incontrare gli altri, averne cura, prendere «viva parte ai tanti dolori che ci sono nel mondo» (Maestra Tecla); a rendere visibili volti altrimenti invisibili, dare risonanza a ciò che ha senso e importanza, senza disperdersi nel magma mediatico perché «creando comunicazione tra mondi, persone, religioni, incrementiamo una cultura di pace» (prof. Andrea Riccardi).
E se don Alberione, molti decenni fa aveva dato un volto alla "donna" associandola allo zelo sacerdotale (erano i primi decenni del secolo scorso e la donna non godeva dei diritti di cui è portatrice oggi), anche noi oggi dobbiamo rendere visibili drammi e problemi che assillano l'umanità. È una nostra caratteristica: già dagli inizi venivamo spronate a percorrere sentieri inusitati per le suore: studiare teologia, diffondere la Sacra Scrittura, prendersi cura della buona stampa, accogliere la sfida del cinema, trovare nuove strade per raggiungere quell'umanità che "come un fiume si getta nell'eternità" (Alberione). Ma con al centro dell'operare e del pensare, sempre la persona.
Vivendo le tre vie sicure di cui sopra, dobbiamo lasciarci ferire/colpire dalla Parola per entrare nel profondo di noi stesse, scoprire i germi di novità che attendono di essere fecondati, prendere coscienza delle risorse che abbiamo e della strada che si apre davanti a noi: In cammino FSP secondo il "Mi protendo in avanti" di san Paolo.
La nostra missione "è prenderci cura della parola", quella con la P maiuscola, e quella con la p minuscola. Nelle edizioni, nelle relazioni, nelle corrispondenze, per noi è fondamentale avere cura delle parole, non dette a casaccio, non dette per offendere, per restringere le vedute.
"La parola anche quella senza la maiuscola è sempre rivelatrice", scrive Agnes Quaglini in un opuscolo ad uso interno. «Di per sé è poca cosa, non è che un rumore, una voce, ma la parola che comunica porta un’idea, un pensiero, un sentimento, è come un ponte tra l’io e il tu, l’io e gli altri. La parola umana è creatrice di comunione. Allora si fa tensione verso, utopia dell’incontro, desiderio di contatto, di dialogo, di comunicazione vera» (Agnes Quaglini, Comunicatori di un messaggio d'amore, manoscritto).
Nel mondo di oggi, più che mai, fiumi di parole inondano le nostre case: oltre alle nostre conversazioni, la tv, la radio, i social media. È un oceano di parole, sovente prive o quasi di senso, vuote di nutrimento e piene di distrazioni. Ebbene, in questo contesto di imbarbarimento/banalizzazione/"brutalizzazione"/ della parola noi Paoline abbiamo il compito di prenderci cura della Parola e delle parole. "Prendersi cura" significa guardare alla Parola con empatia, significa leggere testi di approfondimento della Scrittura, seguire corsi, leggere anche saggi che manifestano dubbi.
La cura è un atteggiamento esistenziale che porta con sé emozioni, conoscenza e genera comportamenti a cui ci si può educare esprimendo sollecitudine verso la Parola/parola.
Prendersi cura è la capacità di rispondere alle necessità altrui: “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste se ne prende cura" (Mt 6).
“Prendersi cura”, vuol dire stare accanto vigilare, vegliare, custodire. "Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? (Sal 8).
Noi che ascoltiamo la Parola, siamo chiamate a una tale intimità con la Parola che mediante essa ci apriamo verso l'umanità. «Chiunque voglia predicare, deve prima lasciarsi commuovere dalla Parola e farla diventare carne nella sua esistenza concreta» (esortazione Evangelii gaudium), il che equivale a dire che la Parola deve farsi esperienza di vita.
«La persona consacrata trova nell'ascolto della Parola di Dio il luogo in cui si pone sotto lo sguardo del Signore e da Lui impara a guardare se stessa e il mondo» (Lettera Contemplate n.35).
Don Alberione ci ha insegnato, fin dalle origini, che gli strumenti del comunicare sono dono di Dio e ci faceva dare lode a Dio per le invenzioni del progresso umano. Ci presentava la stampa come “creatura” che dà lode a Dio: «Queste macchine meravigliose divengono care e venerande come è sacro e venerando all’oratore sacro, il pulpito. Quanto sono belle le macchine destinate agli evangelizzanti il bene. L’apostolo della stampa buona innanzi alle macchine prova qualcosa di più che non S. Francesco quando sentiva uscire dall’anima l’inno a Frate Sole».
Ebbene, oggi, papa Francesco, nel suo Messaggio per la 50° Giornata delle comunicazioni (8 maggio 2016), ricorda che «La comunicazione, i suoi luoghi e i suoi strumenti hanno comportato un ampliamento di orizzonti. Questo è un dono di Dio, ed è anche una grande responsabilità».
Il papa aggiunge: «L'ambiente digitale è una piazza, un luogo di incontro, dove si può accarezzare o ferire, avere una discussione proficua o un linciaggio morale».
Noi dobbiamo essere «come antenne pronte a cogliere i germi di novità suscitati dallo Spirito Santo, e aiutare la comunità ecclesiale ad assumere questo sguardo di bene e trovare strade nuove e coraggiose per raggiungere tutti» (Francesco, Udienza ai partecipanti all'incontro promosso dalla Conferenza Italiana degli Istituti Secolari, Roma, 10 maggio 2014).
Siamo invitate a rafforzare cittadelle in cui il pensiero e lo studio possano custodire l’identità umana e il suo volto di grazia nel flusso delle connessioni digitali e dei mondi dei network. Del resto, «L'accesso alla rete comporta una responsabilità per l'altro, che non vediamo ma che è reale e va rispettato per la sua dignità» (papa Francesco).
Le tappe
storiche
Il già citato don Giaccardo, scriveva: «Un anno dopo l'apertura della Scuola tipografica Piccolo operaio (Società San Paolo), ebbe inizio l'Istituto Figlie di San Paolo che si chiamava Laboratorio femminile» (don Giaccardo, 1923).
Poi, arrivò l'esperienza di Susa (22 dicembre 1918), dove le Figlie dovevano far rinascere la Valsusa, il giornale diocesano sospeso da 3 anni a causa della guerra. Alberione aveva rilevato la Tipografia Gatti dal vecchio proprietario e le Figlie, aiutate da un giovane della Scuola tipografica, iniziarono ad essere le suore della Buona stampa. E la gente del luogo incominciò a chiamarle Figlie di San Paolo.
La gente osservava, commentava, approvava o disapprovava o respingeva quelle suore che bussano a ogni porta. Un apostolato nuovo e uno stile di vita religiosa che si discostava dalle forme tradizionali non tardarono a suscitare diffidenza. Ma, nella fede e nell’obbedienza, le case in Italia aumentavano di numero: in soli tre anni le Figlie di San Paolo erano già presenti in 11 città: Salerno, Bari, Verona, Cagliari, Udine, Palermo, Reggio Emilia, Napoli, Ancona, Novara, Treviso.
Vennero poi gli anni dell'esplosione della congregazione con le fondazioni all'estero e le esperienze all'avanguardia, come ad esempio, in Italia, l'avventura del cinema. Già nel 1939 ebbe inizio la REF (Romana Editrice Film). Il primo film: Abuna Messias, è un vero successo e alla mostra del cinema di Venezia vince il premio “Coppa Mussolini”.
Critiche e lamentele arrivano a don Alberione, ma lui è andato avanti e i molti altri film escono: Piccolo ribelle, Inquietudine, Mater Dei…
Nel 1952 si contavano già 50 cortometraggi catechistici, a cui seguiranno 10 film biblici. In seguito, con la Sampaolo Film si è passati a diffondere pellicole di alto spessore morale e culturale a passo ridotto, attraverso le agenzie presenti sul territorio.
L’ardore delle prime sorelle si esprime pure in coraggiose iniziative editoriali nel campo dei periodici. In Italia, le FSP danno vita nel 1931 a Famiglia Cristiana (che presto, tuttavia, è affidato dallo stesso Fondatore alla Società San Paolo) e al settimanale femminile Così, e la rivista Via, Verità e Vita per la catechesi, affiancata dalla produzione di filmine e dischi catechistici.
Si pensi poi anche alla radio, attraverso la quale le Figlie intravedono un nuovo vasto campo di apostolato tra i popoli lontani dalla fede. Il primo tentativo si ha in Giappone, grazie a don Paolo Marcellino che ottiene dal governo giapponese l'autorizzazione ad aprire una stazione emittente. Con il coraggio del profeta inizia la costruzione di un grande edificio che dovrà essere la sede della Radio culturale nipponica. Le collaboratrici preziose di don Marcellino in quei primi e straordinari passi sono proprio le Figlie di San Paolo. Esse con incalcolabili sacrifici si sobbarcano una parte della grande spesa economica e soprattutto collaborano nel lavoro diretto con le loro prime aspiranti e postulanti giapponesi.
Intanto la comunicazione diventa sempre più un fenomeno sociale che interagisce con molti altri aspetti della vita. In questo contesto nasce un’attività apostolica prestigiosa in ambito ecumenico, quella del Centro “Ut unum Sint” (1950), per promuovere l’unità dei cristiani.
Per questo, promuove Missioni della fede, edita una collana specifica Ut unum sint nell’immediato pre-concilio (1959-1962) e la rivista ecumenica Ut unum sint (1960); organizza corsi biblici per corrispondenza (1960). (questa iniziativa, scomparsa in Italia, è “rinata” in Corea, dove contribuisce alla formazione biblica di migliaia di persone, cattolici e non).
Le profonde trasformazioni che segnano la società negli anni ’60 e ’70 e le novità apportate dal Concilio Vaticano II provocano anche all’interno della congregazione grandi cambiamenti. Ma sono gli anni ’80 a segnare un periodo di rinnovamento, che inizia debolmente ma che va consolidandosi a mano a mano che si porta avanti l’impegno di animazione sui valori carismatici attraverso momenti di intensa formazione: incontri, corsi, seminari, conferenze.
Intanto, però, la vita religiosa vive un cambiamento epocale: diminuiscono gradualmente le vocazioni, si cominciano a ridimensionare le opere apostoliche, cresce l’inadeguatezza di fronte a una società sempre più secolarizzata.
Ma per dare nuovo slancio apostolico, nel 1994 le Figlie di San Paolo promuovono il Progetto missionario con l’obiettivo di suscitare una nuova apertura all’universalità della missione. Così, con lo spirito delle origini si aprono, da quell’anno, case in Africa (Sud Africa, Zambia, Costa d’Avorio, Angola, Sud Sudan); in America Latina (Repubblica Dominicana e Paraguay); in Asia (Singapore, Tailandia, Vietnam); in Europa (Romania, Repubblica Ceca, Russia).
Cristina Beffa