Dall'Osto Antonio
Brevi dal mondo
2016/3, p. 37
La Chiesa e le strutture sanitarie. India ancora violenze anticristiane. Stati Uniti, le vocazioni entrate nel 2015. Città del Vaticano, la lebbra nel mondo.
LA CHIESA E LE STRUTTURE SANITARIE
Una rete mondiale
La Chiesa cattolica, dopo i governi nazionali, è la più grande fornitrice di servizi sanitari del mondo. Secondo quanto ha dichiarato il Pontificio Consiglio per la pastorale della salute, la Chiesa gestisce nel mondo 110.000 strutture sanitarie, come ospedali, cliniche, orfanotrofi, 18.000 farmacie, e 611 lebbrosari. La Chiesa, ha precisato il Pontificio Consiglio, gestisce globalmente il 26% delle strutture sanitarie.
In Africa, per esempio, la Chiesa opera in 16.178 centri sanitari, compresi 1.074 ospedali, 5.373 ambulatori, 186 colonie per lebbrosi, 753 ospizi per anziani, 979 orfanotrofi, 1.947 servizi sociali e diversi altri centri. Un caso particolare è il Kenia dove il 30% degli istituti sanitari sono gestiti dalla Chiesa cattolica. In questo paese la Chiesa dispone di un’ampia rete di 448 postazioni sanitarie (54 ospedali, 83 centri e 311 farmacie) e di oltre 46 programmi sanitari presenti nei centri abitati come quello per gli orfani e i bambini in condizioni di pericolo: nelle zone deserte o semideserte invece gestisce cliniche mobili per le comunità nomadi. Sono zone difficili che le altre organizzazioni, comprese quelle governative, non riescono a raggiungere.
Nel Nordamerica e in Europa la presenza della Chiesa è molto cambiata con il passare del tempo. Nel secolo 19° e all’inizio del 20° era la principale fornitrice di servizi sanitari. Poco alla volta però i governi si sono assunti in prima persona la responsabilità così che il ruolo esercitato fino ad allora dalla Chiesa è diminuito, anche se non scomparso. Per fare un esempio, in Germania, la KKVD (Katholische Krankenverband) gestisce tuttora 402 cliniche con circa 98.000 letti e 165.000 persone di servizio. Negli ospedali cattolici ogni anno vengono ricoverati più di 3 milioni e mezzo di pazienti, mentre 5 milioni sono curati in forma ambulatoriale.
Un processo simile a quello avvenuto in Nordamerica e in Europa sta verificandosi anche in Africa e in Asia. Al tempo del colonialismo, i poteri coloniali hanno contribuito molto poco alla cura sanitaria della popolazione. Ad assumersene la responsabilità sono state le diverse Chiese. Ma dopo l’indipendenza, i nuovi governi hanno preso coscienza che era loro dovere occuparsene con o senza il contributo delle strutture della Chiesa. Da quell’epoca la presenza delle Chiesa in questo campo è andata progressivamente diminuendo.
Il problema che oggi si pone, è che se la Chiesa vuole continuare ad esercitare un ruolo nel campo sanitario, deve cercare di integrarsi nel sistema nazionale, pur senza perdere la propria identità. Ma in alcuni paesi industrializzati, è del tutto scomparsa l’indicazione “cattolico”. Per esempio negli Stati Uniti si è sviluppato un vivace dibattito su che cosa significhi oggi essere un’istituzione sanitaria “cattolica”. In questo paese, soltanto 50 anni fa, gli istituti religiosi femminili gestivano il 98% degli ospedali. Attualmente esistono solo quattro gestori di ospedali cattolici con un’impronta religiosa. Le misure riguardanti il sistema sanitario nel paese hanno indotto le strutture cattoliche ad associarsi con altre organizzazioni non cattoliche e i loro collaboratori. Il problema oggi quindi sta nel trovare il modo di salvaguardare quell’ispirazione cattolica originale da cui erano nate. La risposta a questo interrogativo indica come il medesimo problema si porrà in maniera sempre più determinante anche altrove.
INDIA
Ancora violenze anticristiane
Secondo i dati diffusi dal Rapporto “India Christian Persecution”, edito dal “Catholic Secolar Forum” (CSF), organizzazione della società civile indiana, e pervenuto all’Agenzia Fides, nel 2015 in India sono stati censiti oltre 200 incidenti verificati di violenza anticristiana. Sette Pastori protestanti e un laico sono stati uccisi, mentre le vittime della violenza nel complesso sono circa 8.000, inclusi donne e bambini. Numerose chiese sono state devastate. Secondo il Rapporto, gli autori della violenza sono gruppi e formazioni estremiste e fanatiche induiste, che promuovono l’ideologia dell’Hindutva (“induità”), che vorrebbe eliminare dall'India i credenti delle religioni non indù. Sono gruppi ostili alle minoranze religiose musulmane e cristiane e diffondono una campagna di odio e di diffamazione che poi genera atti concreti di violenza.
Lo stato di Maharashtra, riferisce il Rapporto, è quello in cui l'ideologia è maggiormente diffusa, mentre il Madhya Pradesh è in cima alla lista per numero di episodi di violenza anticristiana. Seguono Tamil Nadu, Jharkhand, Chhattisgarh, Haryana, Odisha, Rajasthan, in un elenco che comprende 23 stati dell’Unione indiana.
Il Rapporto nota che una della accuse principali ai cristiani è quella di effettuare conversioni forzate e con mezzi fraudolenti. Per questo il governo del Madhya Pradesh ha modificato la cosiddetta “legge anti-conversione”, inasprendo le pene. Il laico cattolico Joseph Dias, responsabile del CSF, nota che “la conversione forzata non fa in alcun modo parte dell'orizzonte della fede cristiana: si tratta solo di lasciare libertà di coscienza e di religione, prevista dalla Costituzione”.
Sono invece cresciute le cosiddette “cerimonie di riconversione”, organizzate dai gruppi estremisti indù in numerosi stati indiani, in cui dalit e tribali cristiani vengono riportati in massa all’induismo.
Tra i gruppi fautori delle violenze, nota il testo, si è consolidato nel 2015 il Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), che ha “rafforzato la sua presa sul sistema politico del paese” che oggi conta oltre 15 milioni di militanti sparsi in oltre 50mila cellule locali, e conta membri anche nella polizia, nella magistratura, nella amministrazione statale. Infine si nota che anche a livello istituzionale, l'India non rinnova il visto di permanenza nel paese a missionari, religiosi e religiose che operano stabilmente accanto ai poveri e agli emarginati. (PA) (Fonte: Agenzia Fides 19/1/2016).
STATI UNITI
Le vocazioni entrate nel 2015
Il Centro statunitense di ricerca applicata all’apostolato (CARA) dell’università di Georgetown di Washington per la prima volta ha condotto una ricerca sulle nuove vocazioni maschili e femminili degli Stati Uniti entrate nella vita religiosa nel 2015. Alla rilevazione hanno risposto il 57% degli istituti interpellati sul piano nazionale. Più dei due terzi hanno dichiarato di non avere avuto nessun ingresso nel 2015, uno su sette di averne avuto uno, e uno su cinque due o più.
Le donne costituiscono poco più della metà dei nuovi ingressi (68%). Tra gli uomini, circa l’80% ha dichiarato di aver abbracciato la vocazione per diventare sacerdoti; i rimanenti, per il desiderio di vivere come fratelli professi perpetui.
L’età media dei nuovi entrati è di 30 anni, ma molti affermano di avere pensato alla vita religiosa già all’età di 19 anni e di essersi sentiti ispirati navigando online e di aver inizialmente conosciuto l’istituto religioso attraverso l’internet.
Per quanto riguarda l’origine etnica, il nucleo maggiore è rappresentato per l’81% da persone originarie degli Stati Uniti, poi seguono il Vietnam e il Messico; sette su dieci sono bianchi, uno su 8 ispanici, uno su 10 asiatici e uno su 20 neri.
Nove su dieci (93%) hanno dichiarato di essere cattolici dalla nascita e tre su quattro di avere ambedue i genitori cattolici.
La metà ha frequentato una scuola elementare cattolica e più di un terzo le scuole superiori cattoliche. L’educazione superiore cattolica ha esercitato un influsso sette volte maggiore nella decisione di entrare in un istituto religioso; sette su 10 sono entrati dopo aver conseguito la laurea.
Molti prima del loro ingresso hanno svolto delle attività in programmi e attività di carattere religioso; due su tre si sono dedicati al volontariato in una parrocchia o in altra struttura; e tre su quattro dicono di avere partecipato a dei ritiri.
Quasi tutti hanno risposto di essere stati incoraggiati ad abbracciare la vita religiosa da altri membri del loro istituto o dall’animatore vocazionale o dal padre spirituale. Due su tre affermano anche di avere ricevuto l’incoraggiamento dai loro genitori; meno invece dai fratelli e dagli altri parenti.
Praticamente tutti hanno affermato di essere stati “molto” attirati dal fascino della vita religiosa e dal desiderio di preghiera e di crescita spirituale. Sette su dieci, inoltre, dal loro istituto per la sua spiritualità e l’esempio dei loro membri. Nove su dieci asseriscono che nella loro decisione ha influito in qualche modo anche lo stile di vita comunitaria e della preghiera.
Circa il 75% ritengono ”eccellente” il loro istituto religioso per la fedeltà alla preghiera e alla crescita spirituale, per il sostegno ricevuto dai nuovi membri, e l’impegno nel servizio ministeriale, ma anche per l’opportunità offerta di crescere spiritualmente, per la fedeltà alla Chiesa e ai suoi insegnamenti.
Fattori di attrazione sono dichiarati anche i fondatori e le fondatrici, la spiritualità e il carisma dell’istituto.
Molto sottolineata, infine, la vita di comunità quale fattore stimolante per la vita religiosa.
CITTÀ DEL VATICANO
La lebbra nel mondo
La Chiesa missionaria ha una lunga tradizione di assistenza verso i malati di lebbra, spesso abbandonati anche dai loro stessi familiari, ed ha sempre fornito loro, oltre alle cure mediche e all’assistenza spirituale, anche possibilità concrete di recupero e di reinserimento nella società. In molti paesi è ancora grave la discriminazione verso questi malati, per la presunta incurabilità della malattia e per le tremende mutilazioni che provoca.
Secondo i dati dell’ultimo “Annuario Statistico della Chiesa”, la Chiesa cattolica gestisce nel mondo 611 lebbrosari, così ripartiti per continente: in Africa 201, in America 59 (totale), in Asia 328, in Europa 22 e in Oceania 1. Le nazioni che ospitano il maggior numero di lebbrosari sono, in Africa: Repubblica Democratica del Congo (30), Madagascar (25), Sudafrica (23); in America del Nord: Stati Uniti (2); in America centrale: Messico (11); in America centrale-Antille: Haiti (3); in America del Sud: Brasile (21), Perù (4), Ecuador (4); in Asia: India (253), Indonesia (25), Vietnam (14); in Oceania: Papua Nuova Guinea (1); in Europa: Germania (16), Spagna (3), Italia (1).Nell’ultima domenica di gennaio, quest’anno domenica 31, si è celebrata la Giornata mondiale dei malati di lebbra, istituita nel 1954 dallo scrittore e giornalista francese Raoul Follereau, definito “l’apostolo dei lebbrosi”, che lottò contro ogni forma di emarginazione e ingiustizia. Questa 63.ma edizione ha avuto per slogan: “Vivere è aiutare a vivere”. Secondo i dati dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), ogni anno oltre 213.000 persone, di cui molti bambini, contraggono questa malattia. La lebbra tuttavia oggi è una malattia curabile, la causa principale continua ad essere la povertà e l’assenza di servizi sanitari. Non si conosce con esattezza il numero dei malati di lebbra nel mondo, anche perché alcuni Stati non vogliono che si sappia della presenza di questa malattia nel loro territorio. È comunque un problema sanitario importante in vari paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. (Fonte, Agenzia Fides 30/01/2016)
a cura di Antonio Dall’Osto