Cozza Rino
Il coraggio di chiedere cose difficili
2016/3, p. 34
Il problema oggi per la VC non è la mancanza di vocazioni, come si è soliti dire, ma la sua vita opaca, il suo respiro che non ha più molta familiarità con ciò che è evangelico, perché attanagliata da una anemia spirituale che l’ha portata a installarsi nella mediocrità.

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La vita consacrata e i giovani d’oggi
IL CORAGGIO DI CHIEDERE
COSE DIFFICILI
Il problema oggi per la VC non è la mancanza di vocazioni, come si è soliti dire, ma la sua vita opaca, il suo respiro che non ha più molta familiarità con ciò che è evangelico, perché attanagliata da una anemia spirituale che l’ha portata a installarsi nella mediocrità.
«Perché i giovani migliori voltano le spalle alla vita religiosa?». È una domanda che si poneva J.M.Tillard, perito conciliare, e che completava dicendo: «Oggi le personalità più forti e quelle più avide di un dono radicale al Signore le passano accanto sfiorandola». Il senso di questa affermazione si trova ampiamente espresso nel suo libro di teologia della vita religiosa «Davanti a Dio e per il mondo», il cui pensiero, in chiave sociologica, trova riscontro oggi in varie attuali valutazioni e riflessioni di attenti e qualificati osservatori di fenomeni socio-religiosi.
Ad attrarre le persone eccellenti, soprattutto quando sono giovani sono le sfide impegnative. Ma alla vita religiosa mancano proprio queste, vale a dire il coraggio e la capacità di chiedere cose difficili, di proporre cose alte. Il Papa rivolgendosi, a Filadelfia, ai vescovi, ai preti e religiosi e religiose della Pennsylvania disse: «Sappiamo mettere alla prova i giovani che hanno grandi ideali?». La vita consacrata «non è nata per le basse quote, per vivere raso terra, tra i miasmi della mediocrità. Il soffio dello Spirito soffia ad alte quote».
Oggi i religiosi e le religiose per presentarsi come «uomini e donne capaci di una scossa in grado di svegliare il mondo intorpidito», devono portarsi decisamente a essere «testimoni di un modo diverso di fare, di agire, di vivere», traduttori del «tra voi non sia così». Stiamo parlando dei valori del Regno. Diversamente la vita religiosa corre il rischio – anzi è ciò che sta già avvenendo – di «ridursi a una caricatura light, disincarnata e gnostica», che ha fatto dire a un giovane, in un convegno, la vita è troppo preziosa per spenderla per poco.
La sfida
del fare verità
Benvenuta l’attuale crisi della vita religiosa, «senza questa non si farà la verità». Ma «il processo di fare verità non è tale se non porta all’autocritica, a una profonda verifica, a riparare i falli commessi nel passato e a prevenire errori nel futuro». Una critica non mimetizzata, ma espressa ad alta voce con parole forti, chiare che non ammettono deroga, da tutti comprensibili, come quelle di papa Francesco quando dice, ad esempio: «Nella vita consacrata chi non serve e chi non prega, vale un fico secco».
Il punto da cui la verifica dovrebbe prendere l’avvio chiedendosi: forse la vita religiosa sta perdendo i propri riferimenti? Oppure: la vita delle nostre comunità ha la freschezza di una “buona notizia”?
Se la vita consacrata è radicata nel Vangelo ed è chiamata ad essere esegesi vivente del Vangelo, la sua prima fedeltà è a questo, per cui tutto quello che da esso si possa giustificare sarà giustificabile per la vita consacrata. Al contrario quello che non si possa giustificare secondo il Vangelo non sarà giustificabile per la vita consacrata.
Ciò che rende critica oggi la capacità fecondativa della vita religiosa non è la mancanza di vocazioni, come si è soliti dire per scusarsi, ma è la sua vita opaca, il suo respiro che non ha più molta familiarità con l’evangelico, perché «attanagliata da una anemia spirituale che l’ha portata a installarsi nella mediocrità». La mancanza di vocazioni allora non è la causa ma l’effetto di tale situazione; è opera delle stesse mani dei religiosi e religiose.
Non dipenderà poi dal fatto che in tempi di indigenza vocazionale si è abbassata l’asticella per consentire l’accesso anche a coloro che bussano alla porta in cerca di rassicurazioni per la vita e/o alla «ricerca di una autorealizzazione che non tiene conto delle esigenze della vita fraterna in comunità, espressione di un individualismo invadente che vede tutto dal punto della autoreferenzialità?». Gente alla ricerca di un’organizzazione o di un gruppo abbastanza forte da compensare la debolezza della propria identità, spesso con la complicità di quei formatori, formatrici e leadership che sembrano dire: «in tempo di carestia tutto fa brodo?». Persone che poi contribuiranno a creare un ambiente formativo sciatto, carente di vita interiore dei suoi membri, povero di entusiasmo, scadente nella testimonianza evangelica.
Tutto questo va a spegnere ogni voglia di annuncio e di missione, e rende le comunità «mesti ritrovi di persone deluse e nervose, spesso suscettibili e arrabbiate». In questa situazione anche «coloro, che entrano con entusiasmo, si trasformano e si spengono, adeguandosi». In tal senso riporto alcune domande tolte da una lettera inviata dalla responsabile di un monastero al p. Generale del corrispondente ramo maschile: «Padre mio, […] ti sei mai chiesto perché le nostre comunità stanno diventando sempre più il ricettacolo di casi più o meno psicotici? Perché dentro non ci sono più persone equilibrate?». La testimonianza è presa dal libro «Guardate al futuro», il cui autore, A.Cencini, riportandola scrive: «scelgo questa, tra le tante accessibili perché mi sembra segnalare […] un fenomeno generale riguardante un po’ tutti».
Il fantasma da combattere è l’immagine della vita consacrata come rifugio davanti a un mondo complesso. La storia è costellata di vicende in cui la scelta della vita religiosa da parte di gente mediocre è stata scambiata con la sicurezza: «mettersi sotto un “padrone” può essere più comodo e rassicurante che vivere in un mondo in cui dobbiamo avere a che fare gli uni con la libertà degli altri».
A questo proposito, che cosa dicono i rettori dei seminari? In un incontro regionale, è stato affermato che la generazione attuale dei giovani in formazione troppo spesso non manifesta chiari progetti di cambiamento e si cura più della propria realizzazione personale con spostamento dalla pastorale sociale a quella liturgico-sacramentale. Persone che si compiacciono di una forma di vita ordinata, basata su leggi e divieti, piuttosto che sui valori da trasmettere. Per altri è la scelta di una vita che pensano immetta in uno status che dà la possibilità di essere socialmente riconosciuti.
Ma se si vuole che «la vita consacrata sappia vivere uno stile alternativo e contro-culturale, che non alteri la sua funzione profetica, e non offuschi il suo carattere simbolico», non si può prescindere – direbbe papa Francesco – «da uno stile di vita fatto di generosità, distacco, sacrificio, oblio di sé, creatività, autenticità che rifugge dal giocare a fare i profeti». È questo che rende capaci di amore, di amicizia, di solidarietà, di compassione e di tolleranza: dimensioni fondamentali della nostra umanità.
La qualità
più che la quantità
Altra sfida: «cercare una figura storica più significativa per l’uomo d’oggi». È venuto meno un modello di vita religiosa per il fatto che ogni “vita” che rimane chiusa in se stessa, prima o poi invecchia, ma non è venuta meno nella Chiesa una tensione spirituale energica, una prospettiva ideale qual è il tendere ad essere memoria vivente delle attitudini di Cristo. Questo ci porta a dire che dall’attuale situazione si può uscire solo con la sorpresa del “di più”, che è qualità e non quantità.
«Mi aspetto – scrive papa Francesco – che ogni forma di vita consacrata si interroghi su quello che Dio e l’umanità di oggi domandano», con il coraggio di lasciarsi alle spalle le vie già frequentate e avventurarsi su strade sconosciute, senza lasciarsi tentare dalla «conservazione tranquillizzante» di una vita fatta di tradizioni, attitudini, formule, devozioni ormai ripetitive e di routine, piuttosto di impegnarsi a reimpiantare i carismi nel terreno dell’odierna cultura.
Il motivo dipende dal fatto che questo modello di vita religiosa, come si presenta nei suoi aspetti visibili, non incuriosisce più. È un modello che «si è creato dentro a una prospettiva di vita nata da una particolare visione del mondo, della realtà e, forse, anche di Dio». Prospettiva che l’ha spiazzata rispetto al cammino della storia, impedendole di immergersi negli interrogativi dei nostri contemporanei.
Oggi siamo al tempo in cui, sia per la mancanza di forze che di intelligenza spirituale, è venuto meno il fiuto di trovare nuove strade, perché non sufficientemente consapevoli che molte lontane ortodossie non affascinano. È tempo di una vita consacrata animata dalla ricerca costante di un Dio che si lascia incontrare e che ci coinvolge nel suo farsi presente nel mondo d’oggi; una vita consacrata in tensione dinamica e di partecipazione; disposta a lasciarsi rifare, ricreare da Dio
Oltre a quanto detto, la vita religiosa è anche vittima di un processo istituzionale – malato in quanto religioso – portato ad essere maggiormente interessato a una vita consacrata professionalizzata per offrire servizi, con quel tanto di religiosità, per tacitare le coscienze e far sentire a posto. Ma le risposte misurate sull’efficienza e la razionalità da “impresa” non tengono più.
In queste risposte c’è il pericolo di trovarsi con persone senza motivazioni “intrinseche” perché all’istituzione ridotta a impresa bastano le motivazioni “estrinseche”, cioè quelle che servono all’"azienda" piuttosto di quelle che portano a essere prolungamento dei gesti di Cristo, eco delle sue parole.
Non stupisce allora che nella vita religiosa ci siano comunità con «un apostolato povero di passione e ricco solo di sterile attivismo alienante che si confonde con la creatività e che relativizza la vita fraterna in comunità, la vita di preghiera e la stessa idea di vita consacrata». «Attivismo che porta a un indebolimento motivazionale, alimentato da frustrazione, astio, delusione, indifferenza».
Non pochi Istituti
scompariranno
«Non pochi Istituti sono destinati a scomparire in breve tempo». E questo a partire da quelli che continuano a fare ciò che sempre hanno fatto: e sono i più, auto-giustificati da una malintesa “fedeltà” che li ha dispensati dall’entrare nell’inquietudine esploratrice di nuove possibilità attraverso le residue “minoranze creative”, perché appagati dai risultati vocazionali in altre culture, senza avvedersi che la globalizzazione li porterà un po’ alla volta a ritrovarsi nella stessa situazione dell’Europa, cioè ridotti a delle realtà biologicamente sterili, e in quanto tali difficilmente capaci di guardare con fiducia al futuro. In questa situazione è spontaneo, da parte degli Istituti, adottare quel meccanismo di difesa che è la negazione del pericolo, all’origine del processo collettivo di natura prevalentemente inconscia, di negazione della morte, che poco a poco invade e penetra nella vita come un lento e lungo processo di eutanasia.
Nel cambio d’epoca è naturale che sopravvivano i più forti nell’ “eccedenza di significato”, in riferimento a ciò per cui la vita consacrata è nata. Con questo si intende dire che se il significato della vita religiosa è dato dall’evangelismo, essa starà in vita se la tensione con cui lo vivrà non sarà inferiore a quella delle altre forme di vita evangelica (nuove comunità, movimenti, ecc.) che, specie dal Concilio in poi hanno fatto dell’evangelismo la propria ragion d’essere.
Rino Cozza csj