Brena Enzo
Evento di comunione
2016/3, p. 31
Evento che segna regolarmente la vita degli istituti, il Capitolo si rivela luogo in cui si incarna la fede e l’autenticità delle proprie convinzioni legate alla vocazione, al carisma, alla vita comunitaria e alla missione.

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La celebrazione del Capitolo
EVENTO
DI COMUNIONE
Evento che segna regolarmente la vita degli istituti, il Capitolo si rivela luogo in cui si incarna la fede e l’autenticità delle proprie convinzioni legate alla vocazione, al carisma, alla vita comunitaria e alla missione.
Il capitolo generale è un appuntamento che raccoglie i consacrati in assemblea a intervalli regolari per vigilare sul cammino di un ordine, congregazione o istituto e verificare quanto il carisma si incarna nella vita comunitaria e nei progetti apostolici. È un provvidenziale evento di Grazia che passa sempre attraverso le persone, con la loro storia, la loro intelligenza e sensibilità, la creatività e capacità di rischiare il futuro sulla Parola.
L’esperienza ci insegna, tuttavia, che non sempre il Capitolo è un evento di comunione. Molto dipende dall’orizzonte, dagli atteggiamenti e dal metodo con cui lo si vive. Su questo tema proponiamo in sintesi un’interessante riflessione di fr. Enzo Biemmi fsf.
Un orizzonte
condiviso
Un capitolo deve avere un’ispirazione, un orizzonte, una passione che l’attraversa.
Negli anni successivi al concilio Vaticano II i capitoli erano finalizzati alla revisione di Costituzioni e Regole di vita di ordini e istituti, per aggiornarli alla luce del rinnovamento conciliare. La motivazione era, per certi versi, obbligata.
Negli anni successivi si è aperta la stagione dei Capitoli “tematici”: si rivisita il carisma attraverso la particolare angolatura di un tema. È la scelta della maggior parte degli istituti, che in un tema individua l’elemento unificatore in grado di guardare al carisma alla luce dei segni dei tempi, di proiettarsi nel futuro garantendo fedeltà al carisma delle origini.
«Non si può comunque nascondere – afferma Biemmi – che il rischio di installarsi in modalità ripetitive è stato reale, particolarmente negli anni recenti, nei quali è subentrata una certa stanchezza e un abbassamento della speranza per le difficoltà e le crisi che tutte le forme di vita consacrata stanno sperimentando: aumento dell’età, diminuzione delle vocazioni, gestione sempre più faticosa delle strutture, abbandoni, crisi spirituale».
Di fronte a questi sintomi di stanchezza, a volte di rassegnazione, Biemmi segnala tre fattori che possono ridare prospettiva e capacità di sogno.
Anzitutto, il magistero di papa Francesco e il suo stile di comunicazione hanno dato innegabilmente uno scossone alla Chiesa e alla vita consacrata. Sta accadendo qualcosa di raro: la profezia è portata avanti da chi esercita il governo. Quella “Chiesa in uscita”, che guarda il mondo dalla periferia e non dal centro, è una visione in grado di dare nuovo slancio ai carismi che, ricorda Biemmi, tendono a strutturarsi e a divenire ripetitivi.
Un secondo fattore favorevole è l’interculturalità. I carismi stanno sempre più passando dalle culture occidentali alle culture africane e asiatiche. E questo si rivela, ci piaccia o meno, crogiolo che purifica e ridà vita al carisma stesso. A ciò si aggiunge anche la condivisione del carisma con i laici, ormai patrimonio di quasi tutte le congregazioni. Nonostante il tanto parlare di condivisione culturale ed ecclesiale, bisogna ammettere che, perché possa avvenire pienamente, sarà forse necessario che tutti noi siamo morti.
Il terzo fattore è la profezia. Lo ricordava papa Francesco ai superiori generali: ciò che connota la vita consacrata non è la radicalità, ma la profezia. La radicalità è richiesta a tutti, poiché tutti sono amati radicalmente da Dio. I religiosi sono chiamati a essere profeti di ciò che lo Spirito riserva a tutti, ma non è ancora pienamente in atto. «Non siamo chiamati a essere perfetti, ma a far vedere nella nostra carne che Dio è più generoso di quello che immaginiamo, che riesce a farci stare insieme nelle nostre diversità, che si serve di persone raggiunte dalla sua misericordia per portare misericordia». Questi elementi «risvegliano la vita consacrata e creano comunione più di ogni altra cosa. Il primo modo per creare comunione è quello di alimentare una capacità di sogno, di speranza, di prospettiva».
Atteggiamenti
per la comunione
Biemmi suggerisce tre gruppi di atteggiamenti per illuminare la dinamica capitolare: gli atteggiamenti con cui si arriva al Capitolo, quelli con i quali si vive, quelli con i quali si esce.
«Un capitolo non viene mai scritto su una lavagna bianca», poiché una famiglia religiosa vi porta tutta la sua storia. Arrivando al Capitolo, ognuno porta con sé delle aspettative. Si va da un eccesso di attese, tipico di chi partecipa per la prima volta e spera di cambiare qualcosa, al disincanto di chi l’ha già vissuto e si è reso conto che non basta decidere perché qualcosa cambi davvero.
Anche le relazioni sono già segnate da una storia, positiva o negativa. Più un istituto è piccolo, più ci si conosce e si è condizionati da pregiudizi, cliché, resistenze nei riguardi di qualcuno. Sono dinamiche presenti in tutte le congregazioni.
Si arriva al Capitolo con visioni differenti, legate alla cultura, alle sensibilità teologiche e spirituali che, spesso, sono molto distanti se non addirittura contrapposte.
Questi elementi dicono la necessità per tutti, all’inizio di un Capitolo, di una purificazione, per creare uno spazio di libertà nello Spirito. È questo il motivo per cui si comincia il tempo capitolare con un ritiro spirituale. «Senza questa purificazione, il conto si pagherà durante lo svolgimento del Capitolo stesso. Ma è durante tutto il Capitolo che va curata questa continua purificazione, che costituisce la condizione indispensabile per il discernimento».
Non si entra in Capitolo per fare battaglie, con soluzioni già decise. «Tutti sono invitati da una parte a dire francamente le proprie convinzioni e preoccupazioni, dall’altra ad ascoltare senza prevenzioni quelle degli altri». Questa duplice disposizione di assertività (libertà di parola) e di apertura (disponibilità ad ascoltare le posizioni diverse) costituisce lo spazio del discernimento nell’ascolto dello Spirito. Tacere, per un certo senso errato di comunione, costituisce certamente una grave perdita per sé e per gli altri.
Una volta entrati nella dinamica capitolare, gli atteggiamenti che favoriscono la comunione si raccolgono attorno a due fuochi: ricentrarsi su ciò che unisce e camminare a partire da ciò che ci differenzia.
«Quello che veramente ci unisce non è dentro di noi, ma fuori di noi. La comunione parte da un duplice decentramento». Il Capitolo riflette tensioni e fatiche che caratterizzano la vita delle comunità. Ebbene, «non si risolve il problema delle relazioni comunitarie cercando la soluzione all’interno delle dinamiche comunitarie: gireremmo all’infinito su noi stessi». È necessario convergere sempre su due poli per mantenere lucidità di discernimento: la stessa fede nel Signore Gesù e la stessa passione e missione per l’uomo che tutti condividiamo. «Decentrandoci su questi due poli troveremo non l’unità ma una progressiva unificazione, non per nostra virtù, ma per la forza allo stesso tempo centripeta e centrifuga del nostro amore per Gesù, vissuto insieme, e del nostro amore per tutti i piccoli e i poveri della terra, portato avanti come fratelli e sorelle universali».
La condivisione di fede e di passione per l’uomo salva dall’autoreferenzialità, dal concentrarsi sui propri problemi e limiti: più ci concentriamo sull’amore di Cristo e degli altri, meno li sentiremo; più ci concentriamo su di noi, più ci daranno fastidio. Perciò, «non c’è altra strada che dislocarci, investendo le nostre energie nel comune amore per Cristo e i fratelli».
Il cammino della comunione si costruisce sulle differenze accolte più che su una frettolosa o scontata omologazione. Partire dalla distanza che ci separa significa «accettare che l’unità non è mai data all’inizio» ma un punto di arrivo, una costante tensione. «L’unità data all’inizio dura poco tempo. Quella raggiunta attraverso un percorso che parte dalla legittimazione delle distanze (di età, cultura, formazione, carattere, sensibilità...) dura nel tempo».
Se in un Capitolo non si accetta la distanza/differenza, essa si vendicherà divenendo un continuo ostacolo sul nostro cammino; se la si riconosce e la si accoglie, diventerà una preziosa alleata.
Poiché la verità non la possiede nessuno, «ci dobbiamo concedere e riconoscere reciprocamente e con magnanimità il diritto di avere un posto nel discorso comunitario». Ognuno deve avere la possibilità di dire ciò che pensa, che lo preoccupa, il suo punto di vista. Se questo non accade (per rinuncia personale, per prevaricazione da parte di qualcuno, per timidezza, per una falsa concezione di rispetto...) allora si metteranno in atto pericolosi meccanismi di resistenza passiva e attiva.
Per riuscire a vivere l’atteggiamento precedente, è necessario rinunciare alla presunzione, alla pretesa più o meno intenzionale di considerare il proprio punto di vista o la propria esperienza come la regola della fede o la norma della verità. «Ognuno ha il diritto di dire il suo pensiero, e se questo viene ascoltato, ognuno deve farsi un dovere di ascoltare quello degli altri, e non voler continuamente imporre il proprio».
Vivere un atteggiamento di questo tipo fa nascere qualcosa di nuovo. «La comunione come traguardo (e non come dato partenza) si raggiunge quando tutti accettano di andare verso un appuntamento che non coincide con il punto di vista di nessuno». Più si è liberi dalla presunzione di sapere già, più si generano le condizioni per approdare a qualcosa di nuovo, a un evento di grazia che aiuta a convergere sulla volontà di Dio, non sulla nostra. «La ricerca del consenso non elimina i conflitti, ma se ne nutre continuamente. Più si dà il tempo a ognuno di dire ciò che pensa, più si rende possibile l’appuntamento di tutti verso un punto nel quale non abita ancora nessuno».
E come si può uscire dal Capitolo rafforzati nella comunione?
Anzitutto, è necessario un atteggiamento di accettazione del limite. È normale uscire dal Capitolo un po’ frustrati, con la sensazione che si sarebbe potuto fare di più. «Questa imperfezione è una grande lezione ed è il cammino stesso dell’incarnazione. Accettare il limite è la condizione prima per fare passi avanti. Noi non possiamo dominare la storia. Possiamo però starci dentro disposti a servirla».
Un secondo atteggiamento utile, uscendo dal Capitolo, è la disponibilità a fare la verità. «Quanto viene discusso e deciso deve essere accompagnato dal desiderio profondo di sperimentarlo, di farlo diventare vita, altrimenti non sarebbe che puro esercizio letterario. Solo facendola, la verità intravista ci verrà incontro».
Un metodo
adeguato
Di grande importanza, sottolinea Biemmi, è la metodologia adottata nel Capitolo. E cita papa Francesco: «Una individuazione dei fini senza un’adeguata ricerca comunitaria dei mezzi per raggiungerli è condannata a tradursi in mera fantasia» (EG 33).
La fase di preparazione del Capitolo, anzitutto, deve coinvolgere tutti i membri dell’istituto in modo semplice e diretto. Evitare, quindi, questionari complessi, un carico sproporzionato di incontri per le comunità, magari tenendo poco o niente conto di quanto emerso.
Poi, un Instrumentum laboris semplice, breve, con poche domande di fondo, così da guidare i lavori capitolari in modo da facilitare – e non complicare! – il lavoro.
Importantissimi sono: il regolamento del Capitolo, una metodologia corretta per i lavori nei gruppi tematici o nelle commissioni, la chiarezza del documento finale e il procedimento con cui si arriva a scriverlo, discuterlo e approvarlo, la modalità di svolgimento dei processi decisionali e delle votazioni. «La cura della metodologia è la forma che assume la carità nel costruire comunicazione e comunione».
Altrettanto importanti le tappe del processo di discernimento. Sulle questioni a tema: vedere (a che punto ci si trova?), giudicare (a quali conversioni siamo chiamati da Dio?), agire (quali passi concreti fare per concretizzare ciò che Dio ci fa comprendere?).
La scorciatoia più pericolosa è far coincidere il vedere con l’agire, senza il momento più importante della conversione. Che, alla fine, è il passaggio tipico che interpreta la dinamica pasquale, caratteristica della vita consacrata. «Fare di un Capitolo un evento di comunione è essere consapevoli che non c’è comunione che a caro prezzo: il prezzo che ciascuno è disposto a mettere in conto perché la vita consacrata sia profezia non della concordia del paradiso terrestre, ma della comunione delle distanze, per la grazia del Vangelo».
Enzo Brena