Ferrari Matteo
Il tempo della mistagogia
2016/3, p. 19
La Cinquantina pasquale rimane il tempo della mistagogia, il tempo cioè nel quale ogni anno cercare di comprendere sempre più in profondità quell’esistenza cristiana nella quale già viviamo e che battesimo, unzione ed eucaristia delineano, custodiscono e alimentano.
Le letture bibliche delle settimane di Pasqua
IL TEMPO
DELLA MISTAGOGIA
La Cinquantina pasquale rimane il tempo della mistagogia, il tempo cioè nel quale ogni anno cercare di comprendere sempre più in profondità quell’esistenza cristiana nella quale già viviamo e che battesimo, unzione ed eucaristia delineano, custodiscono e alimentano.
Il Tempo pasquale nella Chiesa dei primi secoli era il tempo della mistagogia, il periodo cioè nel quale venivano “spiegati” a coloro che avevano celebrato l’iniziazione cristiana durante la Veglia pasquale i sacramenti del battesimo, dell’unzione e dell’eucaristia. Dopo e non prima della celebrazione dei sacramenti, attraverso catechesi di carattere biblico, gli iniziati venivano guidati alla comprensione del mistero nel quale erano già entrati e del quale già avevano fatto esperienza. Prima si viveva e poi si era guidati a comprendere ciò di cui si era fatta esperienza.
Battesimo, unzione ed eucaristia dipingono il senso più vero dell’esistenza cristiana come sequela di Cristo nella comunione della Chiesa. Così il tempo della mistagogia diventava non solo per i neofiti, ma per tutti i battezzati una occasione per entrare sempre più nel senso autentico di quell’esistenza cristiana nella quale già vivevano e che già avevano sperimentato. Anche per noi oggi la Cinquantina pasquale rimane il tempo della mistagogia, il tempo cioè nel quale ogni anno cercare di comprendere sempre più in profondità quell’esistenza cristiana nella quale già viviamo e che battesimo, unzione ed eucaristia delineano, custodiscono e alimentano.
Guida fondamentale in questo cammino di mistagogia sono come sempre le letture bibliche. Il lezionario di Pasqua, mentre ci annuncia la presenza viva del Risorto nella comunità dei credenti e ci rivela i molteplici volti della Pasqua, delinea anche i tratti irrinunciabili del volto della Chiesa (lettura degli Atti degli Apostoli – cf. OLM 100 e 74), le realtà che stanno alla base della sua vita e che le sono state donate dalla vittoria pasquale del suo Signore.
L’incontro
con il Risorto
(II domenica: At 5, 12-16; Ap 1, 9-11.12-13.17.19; Gv 20, 19-31)
La seconda domenica di Pasqua è caratterizzata in tutti i cicli liturgici (A-B-C) dal racconto della doppia apparizione del risorto ai discepoli riuniti insieme nello stesso luogo otto giorni dopo. In questo modo, trovandosi cronologicamente otto giorni dopo la domenica di Pasqua (Ottava di Pasqua), la comunità che si riunisce per celebrare l’eucaristia è chiamata a confrontarsi con quella esperienza fondante che narra il Vangelo di Giovanni dell’apparizione del risorto ai discepoli “otto giorni dopo” il primo giorno dopo il sabato. Il personaggio principale di questa esperienza fondante è rappresentato da Tommaso, il discepolo, che la sera del giorno di Pasqua non era presente. Egli diviene quindi il discepolo rappresentante di tutti i discepoli di tutte le generazioni, che quella sera non erano presenti con gli undici per fare esperienza del Signore risorto.
Potremmo dire che la seconda domenica di Pasqua è il luogo nel quale, in modo particolare, la Chiesa celebra il mistero della sua esperienza del Signore risorto. In questa domenica del tempo pasquale il tratto particolare della Pasqua che la Chiesa vive è la sua esperienza della presenza in mezzo a lei del suo Signore risorto. Da tale presenza, sperimentata ogni domenica nella celebrazione dell’eucaristia, dipende l’identità e l’esistenza stessa della Chiesa. Celebrando l’eucaristia domenicale, a noi, discepoli assenti la sera di Pasqua come Tommaso, è data la possibilità di mettere le nostre mani nelle piaghe del Signore risorto.
Se il brano di Giovanni 20,19-31 è presente nella liturgia di ogni ciclo liturgico, le altre letture invece cambiano. Ma tutte tendono a sottolineare ugualmente l’esperienza ecclesiale del Risorto. Nell’anno C potremmo partire, per trovare una pista di lettura della liturgia della Parola di questa domenica, dalla seconda lettura tratta dell’Apocalisse (Ap 1,9-11.12-13.17.19). Anche il brano degli Atti degli Apostoli (I lettura) ci mostra il volto della prima comunità cristiana segnata dalla presenza della vita del Risorto, che si rivela nel fatto che nella vita dei discepoli e nelle opere degli apostoli continuano quei prodigi e quei segni che avevano caratterizzato l’esistenza di Gesù.
È il Signore!
(III domenica: At 5, 27-32. 40-41; Ap 5, 11-14; Gv 21, 1-19)
La III domenica di Pasqua dell’anno C è caratterizzata dal cap. 21 del Vangelo di Giovanni. Quest’ultimo capitolo del quarto Vangelo, da molti considerato una semplice aggiunta, se letto con attenzione svolge una funzione importantissima. Infatti, possiamo scorgere in questo testo non solo una ulteriore narrazione di un’apparizione del Risorto ai discepoli, bensì la descrizione della vita della Chiesa dopo la Pasqua di Gesù. È importante leggere il cap. 21 in questa prospettiva anche per la sua interpretazione nel contesto liturgico del Tempo pasquale, nel quale la Chiesa celebra la sua vita “trasfigurata” e rinnovata dalla presenza del Risorto.
Nel brano degli Atti degli Apostoli (I lettura), la presenza del Signore risorto nella vita della Chiesa si manifesta nella testimonianza resa dagli apostoli e in particolare da Pietro. La forza che sostiene gli apostoli e li rende lieti di subire oltraggi per il nome di Gesù è lo Spirito, che rende presente nella vita dei credenti la Pasqua del Signore. Nel testo dell’Apocalisse (II lettura) viene richiamata l’unitarietà del mistero pasquale: l’agnello «è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione» (Ap 5,12) in quanto immolato. Così anche la presenza del Risorto nella vita della Chiesa di ogni tempo non può essere separata dal dono della sua vita sulla croce.
L’Agnello-Pastore
(IV domenica: At 13, 14. 43-52; Ap 7, 9. 14-17; Gv 10, 27-30)
La IV domenica di Pasqua in ogni ciclo liturgico è sempre dedicata alla figura di Gesù-Pastore e si legge ogni anno come brano evangelico un passo del cap. 10 del Vangelo di Giovanni. Il rischio è quello di parlare in astratto di Gesù come pastore e quindi dei pastori della Chiesa. Nel contesto di questo tempo liturgico non dobbiamo dimenticare che Gesù è presentato come pastore in rapporto alla sua Pasqua.
I quattro versetti che compongono la pericope evangelica del ciclo C sono costruiti molto finemente. Il testo stesso crea rapporti tra Gesù, il Padre e i discepoli. Certo, per cogliere tutta la ricchezza di questo testo dovremmo leggerlo nel suo contesto biblico, nel cap. 10 di Giovanni.
La seconda lettura è tratta dall’Apocalisse (Ap 7,9.14-17). Questo testo dell’ultimo libro delle Scritture ebraico-cristiane ci fornisce la chiave per interpretare il brano evangelico nel contesto del Tempo pasquale. In particolare, il passo che più ci interessa è quello che accosta l’immagine del Pastore a quella dell’Agnello. Gesù è Pastore perché è Agnello: cioè è divenuto pastore e guida perché ha donato la vita per l’umanità. La moltitudine immensa di salvati ha lavato la veste nel suo sangue. Ma la loro veste non è stata lavata in modo automatico e distaccato: essi stessi hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello passando attraverso la grande tribolazione, cioè facendo proprio il dono di vita che l’Agnello-Gesù ha già vissuto, sconfiggendo per sempre la morte. Questa visione finale della storia, che si conclude con la bellissima immagine di Dio che terge ogni lacrima dagli occhi dell’umanità, è lo sfondo sul quale collocare i versetti del Vangelo. Per questo ogni anno non manca mai una domenica nella quale si legge un brano del cap. 10 di Giovanni: perché uno dei frutti della Pasqua che irradia di luce nuova la storia è proprio la costituzione di Gesù come Pastore.
Nella pagina degli Atti degli Apostoli (I lettura) questo frutto della Pasqua viene contemplato nelle vicende della Chiesa nascente, che sperimenta – anche nelle contraddizioni delle vicende umane fatte di chiusure e contrapposizioni – la guida del suo Pastore, che apre strade inattese e insperate, colmando i cuori dei discepoli di gioia e di Spirito Santo.
Una cosa nuova!
(V domenica: At 14, 21-27; Ap 21, 1-5; Gv 13, 31-33. 34-3)
Nel “comandamento nuovo” che Gesù dona ai suoi discepoli nel contesto della cena che precede la sua passione e morte sta il fondamento della vita nuova che ci viene donata nel battesimo e che si alimenta e cresce con l’eucaristia. «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» indica quel rapporto tra la vita di Gesù e l’esistenza dei suoi discepoli che si stabilisce nel battesimo. Celebrare ogni domenica, nella comunità dei fratelli e delle sorelle l’eucaristia, non è altro che ritornare ogni volta nuovamente a questo fondamento che è il criterio di riconoscibilità dei discepoli di Gesù: «da questo sapranno che siete miei discepoli» (Gv 13,35).
Nella pagina degli Atti degli Apostoli (I lettura) troviamo la narrazione della missione di Paolo e Barnaba, in particolare di come essi cercarono di dare solidità e struttura alle comunità da loro fondate, istituendo in ogni Chiesa alcuni anziani (presbyteroi). In questo testo emerge un aspetto importante: ci viene narrato uno sforzo di evangelizzazione, accompagnato dalla preoccupazione di organizzare anche in modo “istituzionale” le comunità locali e tuttavia si afferma che quando i due apostoli ritornarono ad Antiochia, la comunità dalla quale erano partiti, «riferirono tutto ciò che Dio aveva operato per mezzo loro» (At 14,27). Anche questo è un aspetto pasquale al quale la Chiesa sempre si deve convertire: per imparare a vedere sempre, nella sua vita, la presenza dell’azione di Dio.
Il brano tratto dal libro dell’Apocalisse (II lettura) ci può aiutare a cogliere il contesto pasquale sullo sfondo del quale interpretare le parole di Gesù che troviamo nel vangelo.
Faremo dimora
presso di lui
(VI domenica: At 15, 1-2. 22-29; Ap 21, 10-14. 22-23; Gv 14, 23-29)
Anche nella VI domenica del Tempo pasquale la liturgia ci fa celebrare un “frutto” della Pasqua nella vita della Chiesa e dell’umanità. Il brano tratto dall’Apocalisse (II lettura) può aiutarci ad individuare proprio la chiave di lettura da assumere nella lettura liturgica della pagina del Vangelo di Giovanni. Il testo dell’Apocalisse infatti ci lascia intravedere un quadro alla fine della storia che non è così disincarnato dalla storia stessa, come spesso siamo portati a pensare: anche “oggi” – nell’oggi della comunità di Giovanni, ma anche nel nostro oggi – l’Agnello, Gesù Risorto, è già lampada ed è già nuova comunione e presenza di Dio per coloro che aderiscono a lui, vivendo la sua stessa vita e lasciandosi trasformare dallo Spirito che lo rende presenza viva e vivificante. Proprio di questa realtà nuova, che si compirà alla fine della storia, ma che è già presente e operante “oggi”, ci parla il vangelo di questa domenica. Il Padre e il Figlio che prendono dimora nei credenti, l’azione dello Spirito che ci ricorda tutto ciò che Gesù ci ha detto e molti altri temi della pagina evangelica possono rimandare al senso nella vita del cristiano del battesimo e dell’unzione.
Gli Atti degli Apostoli (I lettura) narrano un passaggio importante della vita della Chiesa nascente, che riguarda in modo particolare la possibilità per coloro che non appartengono al popolo di Dio, Israele, di accogliere il vangelo di Gesù e di entrare nella comunità dei suoi discepoli. È una pagina significativa anche per il fatto di mostrare una comunità primitiva mentre cerca di discernere aspetti importanti della sua vita e di cogliere le novità che lo Spirito apre davanti al suo cammino.
Una via
nuova e vivente
(Ascensione: At 1,1-11; Eb 9,24-28;10,19-23; Lc 24,46-53)
Nel mistero dell’Ascensione, che la Chiesa celebra quaranta giorni dopo la domenica di Pasqua, siamo chiamati a vivere un’altra realtà che fa parte integrante del mistero pasquale. Il mistero della risurrezione di Gesù, che in questo tempo abbiamo celebrato nei suoi vari aspetti, come abbiamo visto nelle varie domeniche, non è un fatto che riguarda unicamente il tempo di Pasqua, ma lo celebriamo in questo tempo liturgico perché diventi realmente la nota di fondo di tutta la nostra vita di discepoli del Signore. Ogni aspetto del mistero pasquale che abbiamo potuto gustare e vivere nel Tempo di Pasqua è un frutto della risurrezione di Gesù da saper discernere in tutta la nostra vita, ed è per noi nello stesso tempo dono e impegno.
Se questo è vero per ogni tappa del Tempo pasquale, la solennità dell’Ascensione ci spinge ancor più a riflettere su questo tema: la Pasqua, la vita del Risorto nel tempo della sua assenza! Sì, della sua assenza, perché un concetto troppo immediato di presenza ci può portare a non cogliere la serietà del nostro tempo e la novità della Sua presenza nell’assenza, facendo venir meno la nostra attesa e la nostra tensione verso l’incontro con il Signore dell’universo che ci attende all’orizzonte della storia dell’umanità, ciò che celebreremo al termine del Tempo ordinario.
In alcune Chiese in modo significativo troviamo dipinta nella contro-facciata l’Ascensione del Signore, e nel catino dell’abside, cioè al fondo della chiesa, la sua venuta ultima, la parousia. Così l’assemblea liturgica che si raduna in quello spazio per celebrare l’eucaristia sa di vivere nel tempo che sta tra questi due eventi (cfr. Eb 9,28).
Nella liturgia della Festa dell’Ascensione dell’anno C, oltre ai due testi di Atti e del Vangelo di Luca (I lettura e vangelo) che narrano l’evento stesso che è al centro della celebrazione liturgica, troviamo un testo tratto dalla Epistola agli Ebrei che è molto utile per farci cogliere il senso della celebrazione dell’Ascensione per noi oggi: noi non commemoriamo un fatto del passato, ma lo celebriamo perché esso è la radice del nostro presente e del nostro futuro. L’Ascensione, l’ingresso di Gesù nel santuario del cielo, è la via che ora per il suo sangue, che è la nostra vita in lui, noi dobbiamo percorrere nella fede, nella speranza e nella carità (Eb 10,22-24).
Il compimento
della Pasqua
(Pentecoste: At 2, 1-11; Rm 8, 8-17; Gv 14, 15-16. 23-26)
La Pentecoste non è la festa dello Spirito Santo! Se non usciamo da questa “semplificazione” non potremo mai entrare nella grandezza della solennità che celebriamo questa domenica. La Pentecoste è la celebrazione del compimento della Pasqua! Pensare di considerarla come una festa “dedicata allo Spirito Santo” è una prospettiva del tutto estranea alla liturgia.
Tutto ciò che abbiamo celebrato nel Triduo Santo e nel Tempo pasquale, nella Pentecoste rivela il suo compimento. Questa è una lettura di gran lunga più ricca che ci apre orizzonti immensi, capaci di riflettere nuova luce sulla nostra vita, sulla vita della Chiesa e dell’umanità. Il compimento della Pasqua, infatti, ci tocca, ci riguarda, perché proprio in noi la Pasqua di Gesù attende di “giungere a pienezza”: il cristiano riceve la vita nel battesimo e nell’unzione, la alimenta attraverso l’eucaristia per giungere alla piena maturità di Cristo.
Si tratta di una prospettiva che ci proietta nella storia del popolo di Israele, che celebra, cinquanta giorni dopo la Pasqua, la Festa delle Settimane per il dono della Tôrah da parte del Signore e nell’annuncio dei profeti che attendevano per il tempo del compimento l’effusione dello Spirito su ogni carne, come afferma un testo di Gioele (Gl 3,1), citato nel racconto della Pentecoste negli Atti degli apostoli (I lettura).
Ma cosa significa questa espressione, “compimento della Pasqua”, di cui troviamo eco nel racconto degli Atti e nel Prefazio dell’eucaristia di questa domenica? Certo il compimento della Pasqua è nel dono dello Spirito, che è il dono di Dio per eccellenza. Tuttavia potremmo chiederci anche che rapporto ha il dono dello Spirito con la morte e risurrezione di Gesù. Inoltre, per noi oggi che cosa significa che la Pasqua si compie nel dono dello Spirito? Le letture della liturgia di questa domenica ci guidano a scoprire alcuni tratti di questa realtà così centrale e importante!
Conclusione
Attraverso le letture che il lezionario pasquale propone il tempo pasquale sarebbe una grande opportunità per introdurre i credenti sempre in modo nuovo alla comprensione di quella esperienza cristiana che già stanno sperimentando e nella quale sono incamminati. Questo non si può fare se non passando attraverso la comprensione dei sacramenti dell’iniziazione. Il tempo di Pasqua sarebbe anche una formidabile occasione per imparare con quale linguaggio – in molti casi un linguaggio nuovo – parlare del battesimo, dell’unzione e dell’eucaristia. Infatti, può sembrare assurdo, ma ci mancano le parole per parlare agli uomini e alle donne di oggi di questi sacramenti. Il tempo pasquale è il luogo proprio nel quale andare ad apprendere come è possibile introdurre i credenti al mistero della vita in Cristo.
Matteo Ferrari
monaco di Camaldoli