Salvarani Brunetto
Si apre un'era nuova
2016/3, p. 6
L’abbraccio fraterno tra il papa Francesco e il patriarca di Mosca Kirill il 12 febbraio scorso, a Cuba, ha sorpreso l’opinione pubblica, ma non troppo. Non era mai avvenuto, dal 1054, dopo la rottura fra la cristianità occidentale e orientale. È un gesto che inaugura una nuova epoca nell’ecumenismo.
Incontro tra il papa Francesco e il patriarca Kirill
SI APRE
UN’ERA NUOVA
L’abbraccio fraterno tra il papa Francesco e il patriarca di Mosca Kirill il 12 febbraio scorso, a Cuba, ha sorpreso l’opinione pubblica, ma non troppo. Non era mai avvenuto, dal 1054, dopo la rottura fra la cristianità occidentale e orientale. È un gesto che inaugura una nuova epoca nell’ecumenismo.
E venne un papa di nome Francesco. Nomen omen: con la sua elezione, il popolo del dialogo, non solo i cattolici – reduce da stagioni segnate più da delusioni che da attese compiute – ha risollevato il capo, tornando a coltivare speranze. Grazie a segnali emersi all’impronta, dalla cordialità inattesa di quel saluto al mondo dal balcone di san Pietro, tre anni fa, al suo strategico autodefinirsi vescovo di Roma, prima di papa: perché si è papi in quanto vescovi della Chiesa che presiede nella carità tutte le chiese (Ignazio d’Antiochia, Lettera ai Romani I,1); e non viceversa. Un’opzione carica di significati trasparenti soprattutto nella grammatica dell’ecumenismo, se le modalità con cui si percepisce il primato petrino sono a oggi, com’è noto, fra gli ostacoli più ingombranti in vista dell’unità delle Chiese: l’aveva già ammesso Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint (1995). Da allora, per Bergoglio sarà un susseguirsi inesausto di gesti, incontri, dichiarazioni, con uomini e donne di Chiese diverse, forte di una sensibilità largamente maturata in terra argentina.
Quell’abbraccio
fraterno a Cuba
Ecco perché l’evento cubano dello scorso 12 febbraio, il suo abbraccio fraterno con il patriarca di Mosca Kirill, lungamente atteso almeno da parte vaticana, ha sorpreso l’opinione pubblica, ma non troppo. Siamo stati abituati a essere spiazzati, infatti, dalla sua attività sul versante delle relazioni ecumeniche, dall’appuntamento cordiale con il pastore Traettino e la sua comunità pentecostale a Caserta alla visita alla chiesa valdese di Torino, fino a quella alla chiesa luterana di Roma, per restare appena a quanto successo nel nostro Paese. Ora, però, l’aggettivo storico cui gli osservatori hanno ricorso da subito, appresa la notizia, è pienamente dovuto, stante l’eccezionalità della cosa: un incontro fra il vescovo della prima e quello della terza Roma, infatti, non era mai avvenuto, dalla data fatidica del 1054, quella della definitiva rottura fra la cristianità occidentale e quella orientale. Verrebbe da dire che abbia funzionato lo stile Francesco, insofferente a qualsiasi protocollo: “Ho detto a Kirill: vengo dove tu vuoi. Tu mi chiami e io vengo”, aveva raccontato egli stesso a un giornalista russo al ritorno da un viaggio in Turchia, nel novembre 2014. L’avvenimento si è svolto in un contesto carico di paradossi: a L’Avana, capitale di un’isola che nell’immaginario collettivo rappresenta modernamente il cuore della resistenza comunista al capitalismo yankee, ora ribattezzata dallo stesso Bergoglio la capitale dell’unità; e in poche e fredde sale di un piccolo aeroporto, non luogo per eccellenza secondo la classica definizione di Marc Augé, oggi divenuto un luogo vivo, quanto mai carico di attese e di speranze. “Finalmente ci incontriamo!” ha esclamato il papa a Kirill; “Sì, le cose sono molto più facili adesso”, gli ha risposto il patriarca, arrivato il giorno prima per una visita a Cuba.
I due hanno deciso di sottoscrivere una dichiarazione comune, affrontando con franchezza alcune questioni decisamente spinose e controverse: “Ortodossi e cattolici hanno bisogno di riconciliarsi e di trovare forme di coesistenza reciprocamente accettabili”, vi si legge; e poi: “Invitiamo le nostre Chiese in Ucraina a lavorare per pervenire all'armonia sociale, ad astenersi dal partecipare allo scontro e a sostenere un ulteriore sviluppo del conflitto”. Quindi, contro ogni ipotesi di proselitismo: “Non siamo concorrenti, ma fratelli, non si può quindi accettare l'uso di mezzi sleali per incitare i credenti a passare da una Chiesa ad un'altra”. La concretezza e la varietà degli argomenti affrontati nel testo – dalle esigenze della giustizia sociale alla difesa della famiglia intesa come centro naturale della vita umana e della società, dai drammi in corso in Siria e Iraq alle persecuzione anticristiane diffuse in troppi contesti geografici – fanno pensare a un ecumenismo dei fatti, in cui la fraternità più volte evidenziata nell’occasione e le tante esigenze comuni in un mondo sempre più angusto spingono a mettere tra parentesi le differenze (che pure persistono) sul piano dottrinale e dogmatico. Come se Francesco e Kirill sentissero tutto intero il rischio che le storiche fratture infracristiane rappresentino, a questo punto della storia, una controtestimonianza così grave da non potersela più permettere. “Lontano dalle antiche contese del Vecchio Mondo”, recita infatti ancora la dichiarazione comune, Kirill nel suo viaggio cubano, e Francesco, primo papa dal sud del mondo, nell’andare in Messico, si sono augurati che il loro incontro favorisca “il ristabilimento dell'unità voluta da Dio”.
Il patriarca Kirill
e gli ortodossi russi
È, questa, un’occasione per conoscere più da vicino il cristianesimo ortodosso russo, di cui Kirill ha assunto le redini nel gennaio 2009, succedendo ad Alessio II, quando era appena sessantaduenne: sedicesimo patriarca di Mosca e primo dell’era postcomunista (dal 1989 era presidente del dipartimento affari religiosi esteri del patriarcato, e per questo aveva avuto molte occasioni per viaggiare e intessere buone relazioni ecumeniche). Patriarca di Mosca ma anche, secondo l’antica tradizione, di tutte le Russie, egli è il punto di riferimento non solo degli ortodossi di Russia, ma anche delle diaspore russe all'estero e della stragrande maggioranza degli ucraini di confessione ortodossa. Perché, a partire dal battesimo a Kiev, nel 988, del principe Vladimir, l'Ucraina è la culla del cristianesimo russo e questo dato storico-religioso resta onnipresente oggi nel conflitto recente e non ancora smaltito tra la Russia e l'Ucraina. In ogni caso, la chiesa russa ortodossa vanta un numero difficilmente quantificabile di fedeli (le cifre, indicative, vanno dai 100 ai 165 milioni, che corrisponderebbe alla maggioranza di tutti gli ortodossi al mondo), di cui trenta milioni residenti al di fuori della Russia, e su una religiosità di fondo diffusa nel Paese, anche se non sempre attivamente praticata.
Secondo un sondaggio di qualche anno fa oltre il 70% dei russi si considera ortodosso, ma solo uno su dieci si reca in chiesa almeno una volta al mese e metà sostiene di non pregare mai. È questa, dunque, una delle sfide principali che si è trovato a fronteggiare Kirill sin dalla sua elezione, quella di avvicinare fisicamente i suoi connazionali agli edifici ecclesiastici dopo averli ricostruiti materialmente, aprendo maggiormente la chiesa al sociale, ai poveri, ai diritti dell’uomo.
Un’ulteriore sfida riguarda il rapporto – in gran parte storicamente e ambiguamente subalterno – con il potere politico, incarnato oggi dal presidente russo Vladimir Putin, nato fra l’altro a San Pietroburgo come patriarca; e ancora, il dialogo, tutto da rilanciare, con le chiese sorelle dell’ortodossia, in particolare con il patriarcato ecumenico di Costantinopoli, guidato da Bartholomeos I. Per comodità, si potrebbe dire che nello schieramento favorevole a Costantinopoli convergono, oltre agli antichi patriarcati di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, quelli di Atene, Sofia, Belgrado e Tirana; mentre sono vicini a Mosca il patriarcato di Georgia, la chiesa polacca, quella ceca e quella romena. Il contrasto fra i due poli, è storia nota, fu utilizzato dall’Occidente negli anni della guerra fredda per contenere l’influenza sulle varie chiese autocefale da parte di quella russa, ritenuta, non senza buone ragioni, collegata a doppio filo con i temibili servizi segreti del KGB. Tra i motivi di contesa tuttora aperti, dalla giurisdizione sulla chiesa estone e sui fedeli in diaspora negli Stati Uniti e altrove alla citata e delicata questione ucraina deflagrata nel 2014.
Temi che, peraltro, difficilmente saranno in primo piano nel prossimo Sinodo panortodosso, costituendone piuttosto il non detto: un Sinodo cercato, voluto e ora, da poche settimane, finalmente annunciato ufficialmente per il prossimo 19 giugno, a Creta. Per la prima volta dal 787, data del settimo Concilio ecumenico, tutte le chiese ortodosse si riuniranno per affrontare argomenti quali il senso dell’autocefalia oggi, gli impedimenti al matrimonio, il digiuno, l’ecumenismo, la pace: ma soprattutto per fornire un’immagine di unità nella diversità (secondo il Metropolita di Pergamo Ioannis Zizioulas, considerato il più grande teologo ortodosso vivente, l’intera Ortodossia corre il rischio di introversione e ha bisogno di un’esperienza sinodale di ampio respiro, se non vuole rinchiudersi nei ghetti della propria autoemarginazione). Si sarebbe dovuto tenere a Istanbul nella chiesa di Sant’Irene, distante appena qualche decina di metri dal luogo dell’attentato terroristico del 13 gennaio scorso, ma l’ipotesi avrebbe trovato opposizione da parte del governo turco e dai mutati rapporti internazionali con la Russia dopo l’abbattimento a novembre 2015 del jet russo nei cieli turchi. La notizia è stata resa nota dallo stesso Kirill, al termine del suo viaggio di gennaio a Chambésy, in Svizzera, dove i leader ortodossi si erano riuniti per discutere i preparativi al Sinodo, precisando che la sede definitiva, dopo aver ipotizzato il Monte Athos e Rodi, sarebbe stata l’isola di Creta, che fa parte della giurisdizione del Patriarcato di Costantinopoli. E alla fine, l’auspicabile coscienza delle tante criticità in campo potrebbe anche far sì che il futuro Sinodo rappresenti un fondamentale contributo delle Chiese ai processi di pace su scala planetaria: così come fu, almeno parzialmente, per il Vaticano II, celebrato nel cuore della guerra fredda, fra il 1962 e il ’65.
Dalla pedagogia
alla teologia dei gesti
Tornando all’azione ecumenica di Francesco, in sintesi, sembrerebbe che egli stia effettuando il passaggio dalla pedagogia dei gesti di Giovanni Paolo II, che traduceva la traiettoria inaugurata da Nostra aetate, e dal dialogo delle culture di Benedetto XVI, in risposta all’irrigidimento causato dal timore di un conflitto di civiltà dopo il trauma dell’11 settembre 2001, all’odierna teologia dei gesti del papa venuto quasi dalla fine del mondo: ridisegnando così il paradigma dell’incontro fra le Chiese, puntando sui tratti dell’esperienza spirituale, della preghiera, dell’ascolto, del camminare insieme. In una parola: della teologia, non quella dei manuali ma della vita vissuta. Il che non esclude interventi di largo respiro, come quando, il 12/6/2015, a san Giovanni in Laterano, nel contesto del ritiro mondiale dei presbiteri, egli non solo confermò che la divisione fra i cristiani è uno scandalo, e l’ecumenismo non tanto un compito in più da fare, quanto un preciso mandato d’amore affidato da Gesù ai cristiani tutti; ma si spinse ad augurarsi che in tempi brevi ogni cristiano potrà festeggiare la Pasqua lo stesso giorno, segno tangibile per i fedeli e per tutti. Si inseriscono in tale traiettoria l’abbraccio dell’Avana, la consuetudine fraterna degli appuntamenti con il patriarca di Costantinopoli, fra l’altro citato esplicitamente nell’enciclica Laudato si’, e il preannunciato viaggio in Svezia il prossimo 31 ottobre, dove il papa prenderà parte a una cerimonia congiunta in programma a Lund fra la Chiesa cattolica e la Federazione Luterana Mondiale, per commemorare il cinquecentesimo anniversario della Riforma (2017). Esperienze che precedono e accompagnano il dialogo teologico, rendendolo meno traumatico, e liberandolo da derive ideologiche, freddezza diplomatica e logiche politiciste, in un cammino in cui Francesco sta immettendo come un senso di fretta, e una svolta umana dai riflessi ecclesiali, più che di diplomazia ecumenica; coinvolgendovi anche le voci del mondo e del popolo. Nella consapevolezza che, con ogni probabilità, le forme storiche del dialogo ecumenico che abbiamo conosciuto nel corso del Novecento si sono definitivamente esaurite, e che occorre andare oltre. Dove? La fluidità delle appartenenze confessionali, le alleanze trasversali che continuano a formarsi sulle più diverse tematiche, la novità consolidata del proliferare di Chiese indipendenti e di cristiani indisponibili a riconoscersi in una o nell’altra Chiesa storica, e vari altri mutamenti in corso, richiedono uno sforzo ulteriore, e il coraggio di abbandonare supposte certezze. Provando, appunto, a camminare insieme: forse andremo più lenti, ma di certo – come sostiene lo stesso Francesco – arriveremo più lontano…
Brunetto Salvarani