Avrà ancora un futuro?
2016/2, p. 13
La vita contemplativa ha un futuro perché è vita cristiana
vissuta all’estremo. Non potrà perciò scomparire, anche se
dovrà rinnovarsi. Il monachesimo occidentale deve
continuare a ritemprarsi in Oriente e integrare
maggiormente la dimensione ecumenica e interreligiosa
come hanno già fatto alcuni monasteri.
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La vita contemplativa in Europa
AVRÀ ANCORA
UN FUTURO?
La vita contemplativa ha un futuro perché è vita cristiana vissuta all’estremo. Non potrà perciò scomparire, anche se dovrà rinnovarsi. Il monachesimo occidentale deve continuare a ritemprarsi in Oriente e integrare maggiormente la dimensione ecumenica e interreligiosa come hanno già fatto alcuni monasteri.
“La vita contemplativa ha ancora un futuro in Europa?”. È l’interrogativo inquietante che si pone Pierre Raffin, o.p., vescovo emerito di Metz, in un articolo pubblicato dalla rivista belga di vita consacrata Vies consacrées (n. 3, luglio-settembre 2015). Ma prima di rispondere, si domanda che cosa si intende con vita contemplativa. Si tratta, scrive, di una vita centrata sulla ricerca di Dio e, di conseguenza, sulla preghiera e la lode divina; è una forma di vita che non è finalizzata ad un’opera particolare, anche se può comportare l’accoglienza, l’animazione spirituale di un santuario, di un’istituzione scolastica, come avviene per esempio in Germania, Austria o in Ungheria.
In certo senso, osserva mons. Raffin, la vita contemplativa è più semplice di quella apostolica – ciò non vuol dire che sia più facile – perché si propone un solo obiettivo l’unum necessarium che non dipende dalle condizioni dei tempi. Ciò spiega perché fino al passato recente la vita contemplativa è stata meno toccata rispetto alla vita apostolica dalla crisi delle vocazioni. E significa che, se la situazione è preoccupante, non è però senza speranza. Nella vita contemplativa ci si impegna unicamente per Dio. È Dio ad essere anzitutto in questione, è lui che chiama chi vorrà. Tenere aperto questo o quel monastero può essere importante sul piano religioso e umano, ma la prima finalità consiste nell’esprimere e celebrare la gloria di Dio.
Guardando alla situazione delle comunità si costata che alcune, a dire il vero piuttosto rare, hanno degli ingressi regolari e quindi il loro avvenire, a breve o medio termine, non è compromesso. Altre hanno ingressi solo di tanto in tanto e, se si approfondisce lo scarto tra i nuovi arrivati e quelli precedenti, l’equilibrio della comunità diventa fragile. Ciò significa che quando gli ingressi sono molto distanziati, bisogna seriamente porsi la domanda circa la continuazione della comunità. Del resto, è ragionevole accettare ancora dei candidati quando gli ingressi sono molto scaglionati? In effetti, non bisogna preoccuparsi solo del futuro della comunità, ma di quello dei candidati, ossia della possibilità per loro di essere convenientemente iniziati alla vita contemplativa e di rimanere nel medesimo luogo.
Per paura di scomparire, alcune comunità ricorrono a dei candidati stranieri. Se si tratta di soggetti che vengono dall’immigrazione, che sono nati e vivono da lungo tempo nel paese, ciò non fa problema. Se, al contrario, si fanno venire direttamente dall’Africa o dall’Asia, il problema è del tutto diverso. Si tratta di iniziative da evitare a qualsiasi costo perché si privano le chiese locali di soggetti che dovrebbero rispondere a casa loro alla vocazione. Se si fanno venire in Europa per salvare delle istituzioni, si sradicano dal loro ambiente naturale.
La nostra speranza nell’avvenire della vita contemplativa, sottolinea il vescovo, deve essere sostenuta dalle lezioni della storia e dal fatto che ci sono ancora delle comunità che tengono bene. Questa speranza deve essere inoltre corroborata dalla nascita di comunità che, senza essere monastiche in senso stretto, vi si avvicinano. Infine dall’attuazione dell’aggiornamento previsto da Perfectae caritatis che non ha ancora dato tutti i suoi frutti.
Le lezioni
della storia
Se si guarda alla storia plurisecolare della Chiesa, scrive mons. Raffin, si nota subito che la vita monastica ha conosciuto degli alti e bassi, delle epoche in cui l’Europa godeva di una fitta rete di monasteri (che hanno fatto di san Benedetto l’indiscutibile patrono dell’Europa), e altre, al contrario, in cui la vita monastica era minacciata di scomparire. All’inizio del sec. XIX, in Francia, all’indomani della Rivoluzione non rimaneva praticamente più nessun monastero nel paese. Alcune comunità, sopravvissute praticamente nella clandestinità, ripresero la vita comune appena fu possibile in edifici spesso in rovina. Altre riapparvero venendo dall’estero dove si erano rifugiate. A volte, come a Solesme si trattò di una vera rifondazione, per iniziativa di un uomo provvidenziale come Dom Guéranger. Alla fine del secolo, nel 1898, toccherà a Citeaux a risorgere dalle sue ceneri, grazie a Dom Chautard, il celebre autore dell’Anima dell’apostolato, un libro che conobbe una diffusione straordinaria anche al di fuori del mondo monastico.
In Francia, nel 1903, le leggi anticlericali della Repubblica costrinsero di nuovo le comunità all’esilio, e i loro edifici furono confiscati. Ciò fino al 1920. Ma, nello stesso tempo, questa prova favorì la nascita o rinascita di comunità fuori della Francia. Dal male ne è venuto il bene.
Nei paesi dell’est europeo, sotto il giogo comunista, la vita religiosa era proscritta. Dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e della cortina di ferro, la vita religiosa poté riprendere. L’abbazia di Sept-Fons fondò Novy Dvur, nella Repubblica ceca, il Carmelo rifiorì a Pecs nel sud dell’Ungheria grazie al concorso del Carmelo di Dachau, Frileuse e Matz-Plappeville.
La storia della vita contemporanea come quella della Chiesa, scrive mons. Raffin, è fatta di morti e risurrezioni; scompare per rinascere altrove. Anche se i cinquant’anni che ci separano dalla fine del Concilio in Europa hanno conosciuto spesso delle difficoltà, sono stati però anche anni caratterizzati da un certo numero di fondazioni che hanno avuto successo in altri continenti.
Le nuove
fondazioni
Un ulteriore segno di speranza, secondo mons. Raffin, sono anche le nuove fondazioni. Tra queste cita in primo luogo, almeno per quanto riguarda la Francia, la comunità di Taizé, nata durante la seconda guerra mondiale, a pochi chilometri dall’antica abbazia di Cluny. Pur non dicendosi monaci, i membri vivono un genere di vita che si avvicina alla vita monastica: la preghiera liturgica e quella silenziosa occupano un posto centrale nella loro giornata; non hanno altro apostolato che accogliere i giovani di diverse confessioni del mondo intero per la preghiera e condividere con loro la Parola. Il fondatore, fr. Roger era protestante e lo è rimasto fino alla fine, anche se la sua fede era molto vicina a quella della Chiesa cattolica. Con i suoi compagni di fondazione egli mirava ad un cristianesimo che superasse le divisioni storiche. Attualmente la comunità di Taizé è in gran parte cattolica, ed è meglio percepita dai cattolici e dagli ortodossi che dai protestanti. Quando nell’ottobre del 1986 papa Giovanni Paolo II si recò a Taizé dichiarò: «Si passa da Taizé come si passa accanto a una sorgente. Il pellegrino si ferma, si disseta e continua il suo viaggio. I fratelli della comunità nella preghiera e nel silenzio vogliono consentirci di bere l’acqua viva promessa da Cristo, di conoscere la sua gioia, di discernere la sua presenza, per poi ripartire a testimoniare il suo amore e servire i nostri fratelli».
Quando nell’agosto del 2005, fr. Roger morì tragicamente, assassinato in pieno officio da una squilibrata, i suoi funerali furono celebrati secondo il rito della chiesa cattolica da un cardinale.
Oltre a Taizé, negli anni ’50 sono nate le Piccole suore domenicane di Betlemme. La loro fondatrice, Piccola sr. Maria, domenicana della congregazione di Tourelles, si installò con le sue prime compagne a Chamvres, nella diocesi di Sens. Più tardi si fissarono nel dipartimento della Seine-et-Oise, vicino a Pontoise, a quel tempo nella diocesi di Versailles. In seguito, dopo un lungo percorso, si separarono dall’Ordine domenicano. Attualmente si chiamano Monache di Betlemme. Nel 1976 furono raggiunte da alcuni fratelli desiderosi di vivere un progetto di carattere monastico.
Nel 1975 avvenne la fondazione dei Fratelli e Sorelle della Comunione monastica di Gerusalemme presso la chiesa parrocchiale di Saint-Gervais. Dopo un inizio difficile la comunità si stabilì in diversi centri urbani, attirando dei giovani che trovano in essa uno spazio di rinnovamento e di contemplazione. In questa comunità crescono delle vocazioni che avrebbero molta difficoltà ad adattarsi nelle altre comunità esistenti.
Un’altra nuova comunità cattolica è la Famiglia di San Giuseppe, fondata nel 1990 dal sacerdote Joseph-Marie Verlinde nella diocesi di Montpellier. Raggruppa in una stessa famiglia spirituale monaci e monache che seguono la Regola di san Benedetto, interpretata secondo lo spirito della santa Famiglia di Nazaret. Della comunità fanno parte anche dei laici oblati che vivono la medesima spiritualità nel cuore del mondo.
Il futuro, commenta mons. Raffin, ci dirà se queste comunità sono solidamente fondate e se i loro fondatori sono dei fondatori autentici.
I giovani
d’oggi
I giovani d’oggi, secondo mons. Raffin, sono altrettanto generosi quanto quelli di ieri, ma non c’è niente nella loro educazione umana e religiosa che li prepari a compiere una scelta del genere. Il criterio che la Regola di san Benedetto richiede per verificare le disposizioni di un postulante è di sapere se veramente cerca Dio. Questo criterio vale anche per la vita contemplativa in genere.
Certamente, sottolinea il vescovo, c’è una ricerca spirituale autentica nei giovani d’oggi, ma ci si domanda se è così forte da mobilitare tutta un’esistenza. La vita contemplativa, se vissuta seriamente, è fatta di atti ripetitivi che suppongono da parte del soggetto la capacità di perseverare. Ma nella cultura contemporanea si va in senso contrario: si cerca di rompere la monotonia con un cambiamento continuo. D’altronde nella società contemporanea la vita contemplativa è poco conosciuta nella sua realtà profonda. Si conoscono gli antichi monasteri che sono dei monumenti da visitare senza sapere come i monaci li abitavano. Inoltre si ignorano i monasteri d’oggi che, nella maggioranza dei casi, non sono impostati secondo il piano classico di ieri.
La nostra chiesa di Francia, per non parlare delle altre chiese d’Europa, ha bisogno di un sussulto spirituale, sottolinea mons. Raffin, di un evento come la Storia di un’anima di Teresa di Lisieux che nei primi anni del sec. XX, suscitò l’apertura di numerosi Carmeli nel nostro paese. Il nostro Dio, sottolinea il vescovo, chiede di essere amato, lodato e servito, ma troverà dei cristiani che hanno il coraggio di intraprendere questa bella avventura?
I frutti
del Perfectae caritatis
L’aggiornamento richiesto dal Perfectae caritatis 50 anni orsono, scrive mons. Raffin, ha prodotto frutti eccellenti nei monasteri, ma non è ancora terminato e senza dubbio dovrà tener conto delle difficoltà delle giovani generazioni. Le regole monastiche, come quelle di san Benedetto, hanno sfidato i secoli, ma le dichiarazioni o le costituzioni che ne precisano l’applicazione sono state riscritte negli anni postconciliari. La vita comune è stata semplificata. Non esiste che una sola classe di monaci; alcuni sono sacerdoti perché chiamati dall’abate, altri, diaconi o laici che sono monaci in senso pieno; il lavoro manuale è la regola comune, ma alcuni lavorano manualmente più degli altri perché trovano così il loro equilibrio. Il rinnovamento liturgico è stato accolto con gioia. La concelebrazione per i monaci sacerdoti ha ridato tutto il suo posto alla messa conventuale che è il culmine della giornata monastica. Anche la soppressione dell’Ora di Prima ha ridato alle Lodi tutto il loro posto e ha richiesto una nuova distribuzione dei salmi. In molte comunità è stata adottata, in tutto o in parte, la lingua volgare, anche se il canto gregoriano è ancora utilizzato in diverse comunità. La mancanza di conoscenza della lingua latina non facilita le cose, ma ci sono dei monasteri che provvedono a insegnare il latino ai loro giovani monaci. Anche l’accoglienza degli ospiti raccomandata dalla Regola benedettina assume nuove forme e ha in genere un buon successo. A volte è stato necessario anche adattare il regime alimentare e il tempo di riposo per chi ha una salute meno resistente. Inoltre dovunque si pone il problema dell’aumento dei monaci anziani che non possono lasciare l’infermeria. I monasteri compiono a volte degli sforzi che sfiorano l’eroismo per accudire ad essi fino alla fine, ma purtroppo ciò non può essere chiesto a tutti e occorre pensare a delle soluzioni nuove.
«La vita contemplativa, conclude mons. Raffin, ha un futuro perché è vita cristiana vissuta all’estremo. Non potrà perciò scomparire, anche se dovrà conoscere un nuovo coordinamento. Il monachesimo occidentale deve continuare a ritemprarsi in Oriente come invita la Lettera di Giovanni Paolo II, Orientale lumen, deve integrare maggiormente la dimensione ecumenica e interreligiosa come hanno già fatto alcuni monasteri. Infine, l’Europa occidentale deve continuare a sostenere, in un modo o nell’altro, le fondazioni delle giovani Chiese. È osservando come vivono le comunità contemplative sparse nel mondo intero che si può apprezzare la vitalità cristiana di una Chiesa particolare.
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