Gli insegnamenti di nati e morti
2016/2, p. 5
Alcuni dati recenti sulla imprevista crescita di morti fra gli
anziani e l’atteso e ulteriore calo delle nascite
suggeriscono pensieri e riflessioni che hanno rilevanza
pastorale. Scompare in un anno il corrispettivo di una
città e nessuno sembra accorgersi. Il ruolo della Chiesa.
Italia e demografia
GLI INSEGNAMENTI
DI NATI E MORTI
Alcuni dati recenti sulla imprevista crescita di morti fra gli anziani e l’atteso e ulteriore calo delle nascite suggeriscono pensieri e riflessioni che hanno rilevanza pastorale. Scompare in un anno il corrispettivo di una città e nessuno sembra accorgersi. Il ruolo della Chiesa.
I morti crescono fuori misura; i nati diminuiscono fino a rendere oscuro il futuro del paese. Mentre si prolunga la discussione pubblica sulla stepchild adoption (l’adozione del figlio del partner omosessuale) che interessa poche migliaia di casi vi è solo un iniziale interesse sul possibile collasso del sistema paese per il combinato disposto fra i nati che non arrivano e il processo di invecchiamento della popolazione con l’impennata del numero dei morti nel 2015. È stato il demografo Gian Carlo Blangiardo su Avvenire dell’11 dicembre a indicare l’anomala crescita dei morti nello scorso anno. Se le tendenze dei primi mesi verranno confermate si raggiungeranno i 666.000 morti, con un aumento di 68.000 unità. Se ne prevedevano circa 16.000 in più, ma non gli altri 52.000 (nell’insieme 40.000 sono donne). Qualche giorno dopo emergono i numeri dei nati. Se ne prevedono 489.000, scendendo dalla soglia simbolica dei 500.000 (erano stati 502.000 nel 2014). Blangiardo commenta: «La conseguenza di tutto questo è che il bilancio demografico del 2015 offre il resoconto di un paese che, per la seconda volta nella sua storia, sembra destinato a sperimentare un forte calo del numero dei residenti. La stima per l’intero 2015 è di circa 150.000 unità in meno». Scompare il corrispettivo di una città come Ferrara o Reggio Emilia e pochi se ne rendono conto.
I morti,
troppi?
L’Italia è, dopo il Giappone, il paese con l’età media più alta e il più vecchio dentro l’Unione Europea. Se non vi è una inversione di tendenza, nel 2050 ci sarà un crollo della popolazione lavorativa, la forza di lavoro potenziale sarà del tutto insufficiente per reggere l’economia e lo stato sociale, in un momento in cui i figli degli immigrati supereranno quelli degli autoctoni: la popolazione con meno di 65 anni si ridurrà di 6,5 milioni e quella oltre i 65 aumenterà di 8,2 milioni. Ma già ora, «una società che non mette più al mondo figli è una società stanca, sfiduciata, incapace di pensare il proprio futuro. Non può essere generativa una società nella quale non si riesce o non si vuole più essere “genitori”. Investire risorse per un rilancio del grande significato simbolico della genitorialità è quindi una risposta non soltanto al bisogno di realizzazione, spesso purtroppo insoddisfatto, della personalità adulta, ma anche alle necessità di sopravvivenza della società» (cf. Progetto culturale della CEI, Il cambiamento demografico. Rapporto-proposta sul futuro dell’Italia, Laterza, Roma-Bari 2011, pp.163-164).
Partiamo dai morti registrati e previsti per il 2015. Sarebbero appunto 68.000 in più del previsto. Un balzo simile veniva segnalato solo nel 1943 e fra il 1915-1918: gli anni della seconda e della prima guerra mondiale. Non si tratta di una crescita fisiologica che si attesterebbe sui 16.000 morti in più, ma di un evento di cui per ora non si trovano spiegazioni adeguate. Un parallelo più recente è possibile riscontrarlo nei paesi dell’Est Europa nel passaggio fra economia socialista e di mercato. Facile immaginare come il radicale mutamento abbia avuto un effetto devastante sulla popolazione più anziana a cui l’amministrazione statalista garantiva poco, ma il sufficiente per vivere. Tornando all’Italia i mesi di maggiore scarto sono fra gennaio e marzo e luglio agosto 2015. Le prime verifiche a livello regionale (Emilia Romagna e Lombardia) confermerebbero i dati. Da un paio d’anni è in atto nel sistema ospedaliero una crescente condivisione di una prassi che privilegia le cure palliative all’accanimento terapeutico. L’intesa fra medici e familiari permette ai malati in gravi e non recuperabili situazioni di non affrontare mutilazioni o interventi gravemente e inutilmente intrusivi. Si fa anche l’ipotesi degli effetti della crisi economica e dei tagli allo stato sociale. Una serie di studi a livello europeo mostrano come i risultati positivi della sanità (in particolare sulla sopravvivenza dopo un tumore) non dipendono solo dal prodotto interno lordo (una maggiore ricchezza alimenta una maggiore tutela), ma anche dalla specifica spesa per la sanità. Là dove questa è sostenuta i risultati si vedono con un differenziale significativo rispetto ai paesi che spendono meno per la salute (cf. Regno-att. 10,2015,663). L’integrazione delle politiche sanitarie e la condivisione delle migliori pratiche chirurgiche e farmacologiche potrebbero permettere risultati più equilibrati. A parte l’immediato utilizzo politico e strumentale di Grillo contro il governo Renzi con l’imputazione della responsabilità dei morti, l’ipotesi di una correlazione fra morti e tagli al sistema sanitario va dimostrata, anche in ragione delle differenze territoriali che caratterizzano il nostro paese.
I nati
troppo pochi
Le nascite sono scese sotto le 500.000. Per garantire il ricambio della popolazione dovrebbero essere circa 150-200.000 in più. Il tasso di fecondità auspicato (numero medio di figli per donna fra i 15 e i 49 anni) sarebbe del 2,2. È oggi dell’1,37. Ma se ad esso si sottrae la fecondità più alta delle donne immigrate, si scende all’1,29. Il 2,70 del 1964 ha conosciuto il suo picco negativo nel 1995, con l’1,19.
«In Italia, da circa tre decenni, in maniera assai più concentrata che altrove, si è instaurato un circolo vizioso e involutivo, da cui il paese non sembra ancora in grado di uscire. Se si esclude una ristretta cerchia di addetti ai lavori, il paese non sembra neppure avere una consapevolezza adeguata alla drammaticità delle sfide che lo attendono». «La forma complessiva assunta dalla nostra organizzazione sociale […] è diventata ostile all’avere figli e al considerare la famiglia come il luogo degno di metterli a mondo» (op. cit. p. XVI).
Fenomeni di grande importanza e di segno positivo come l’allungamento dell’età della vita, la quasi scomparsa della mortalità infantile, la cura della salute, nella persistente assenza di un ricambio generazionale adeguato, si rovesciano in problemi. L’assommarsi della crisi economica con il mancato ricambio della forza lavoro pone seri interrogativi sulla tenuta dello stato sociale e sul livello di benessere raggiunto dal paese. E questo nonostante il permanere di intenzioni riproduttive ben più alte di quelle messe in esecuzione. In altri termini le ragazze e i giovani italiani desidererebbero avere più figli, ma una serie di motivazioni (personali, sociali ed economiche) li scoraggiano: entrano al lavoro molto più tardi, con lavori precari e non sicuri, con salari inadeguati, con il costo eccessivo delle case. Succede che rimangano in casa tanto a lungo da non avere più il coraggio di abbandonarla quando i genitori cominciano ad avere bisogno di cura. Conseguentemente la finestra della possibile fecondità si contrae. Con esiti problematici. Già oggi i nonni sono più numerosi dei nipoti e si sta operando il sorpasso dei bisnonni. Le cifre sono tali da lasciare intendere che nulla può rimanere immutato, pena l’esplosione dell’intera società ed economia italiana.
Donne, giovani
e matrimonio
Il cambiamento dell’identità femminile, con tratti assai positivi, non trova aiuti sociali per favorire la fecondità. Dagli asili nido che sono pochi ai tempi scolastici che non favoriscono quanti lavorano, alle case che non sono costruite in ragione dei figli. Fino a provocare nelle interessate la perdita d’interesse e della percezione dei meccanismi biologici. La ginecologa Stefania Piloni racconta: «Anche quando la coppia c’è, la stabilità economica pure, si tende a posticipare. Quando ho davanti una donna di 36 anni, fidanzata da sei, senza problemi finanziari e le chiedo se non sia il momento di pensare a un figlio, mi sento rispondere: “Ma io sono ancora giovane”» (cf. Corriere della Sera, 9 gennaio 2016). Il contributo delle donne immigrate, che era dell’ordine di 80.000 nati nei primi anni del decennio si è già contratto di circa 10.000, anche se rimane un punto di forza.
Le nascite sono frenate dalla profonda modifica in atto della stagione giovanile. Lo scadenziario preciso del passato (scuola, lavoro e formazione della propria famiglia) si è profondamente trasformato. Si è creata una nuova fase della vita che, a partire dal classico marcatore del diciottesimo anno di età (considerato giuridicamente la fine dell’età minorile), si estende per almeno un decennio. È un lungo periodo di indipendenza da ruoli e aspettative sociali, dominato sia dalla ricchezza delle possibilità, come dall’incertezza verso il futuro. Da qui il prolungamento della permanenza nella famiglia, sia per ragioni economiche, sia per la bontà della condizione, frutto di una alleanza fra generazioni adulte che abitano la stessa casa. Il lavoro inesistente o precario, il costo delle case e la resistenza ad un impegno affettivo stabile completano la restrizione della disponibilità alla fecondità. Massimo Livi Bacci ha indicato fra le disposizioni da prendere quella di ridare autonomia ai giovani, di dare più lavoro alle donne e di ridurre l’asimmetria nei ruoli uomo-donna.
Il tema del matrimonio torna centrale. Se in molti paesi europei la fecondità fuori del matrimonio ha raggiunto un peso similare a quella interna al matrimonio, da noi su cinque nati, quattro sono in capo alla famiglia. Secondo lo statistico Roberto Volpi la caduta valoriale del matrimonio è tra i motivi di fondo della contrazione delle nascite. «Oggi il matrimonio ha perso grandissima parte del suo valore. Vige il modello del “basta l’amore, basta il sentimento” per poter stare assieme. Il paradosso è che oggi il matrimonio lo vogliono quelli che non possono contrarlo, come gli omosessuali. Che un tempo lo aborrivano» (Libero 4 gennaio 2016). E continua: il matrimonio è decisivo. I figli si sono sempre fatti nel matrimonio, sostanzialmente. Perché il matrimonio assicura stabilità». Anche quando la fecondità è scelta da coppie non sposate. «Molti figli che nascono da coppie non unite in matrimonio sono frutto di progetti matrimoniali che verranno realizzati successivamente. Molte coppie di fatto hanno un figlio e poi si sposano». Va preso atto che, da noi, la chiave di volta dei processi demografici è nella famiglia. È lì che si determina il futuro demografico del paese. Non può essere un problema di programmazione dirigistica (come in Cina che è passata recentemente dal permesso di un solo figlio a due), non è neanche solo questione di risorse economiche, pur necessarie, ma va collocato nella famiglia, quale mediatore fondamentale di decisioni individuali che incidono sul bene della comunità.
Per un piano-
famiglia
Per questo i vescovi e i cattolici hanno sempre chiesto, fin dalla metà degli anni ’80, un piano nazionale per la famiglia, una strategia dinamica di lunga durata che metta la famiglia al centro della società e sia considerata come una dimensione di tutte le politiche sociali, economiche ed educative. Adottare cioè un modello similare a quello già attivo nell’Unione Europea. Quest’ultima ha definito una doppia strategia per le pari opportunità e l’uguaglianza di genere, per risolvere situazioni di discriminazione e indurre cambiamenti a largo raggio e duraturi per le questioni di genere. Investire su un piano familiare a partire dalla forma prevalente che questa ha nella situazione italiana significa superare l’organizzazione individualistica della vita che non risponde alle necessità relazionali delle persone e alle esigenze del sistema. E questo si può ottenere attraverso quattro elementi fondamentali: l’equità nell’imposizione tributaria e nelle politiche tariffarie, la conciliazione delle esigenze del lavoro e della famiglia, il favore concesso ai contratti relazionali (che recepiscono le esigenze familiari), sino alle politiche abitative a misura della famiglia. Il momento è propizio per dare una nuova centralità alla famiglia, per ridurre i danni crescenti di una impostazione individualista e per ripensare in forma creativa un nuovo welfare che abbia i caratteri della relazionalità, della sussidiarietà e della socialità.
Lorenzo Prezzi