Mastrofini Fabrizio
Una visita ai "Fratelli Maggiori"
2016/2, p. 1
Nel dialogo ebraico-cristiano c’è un legame unico e peculiare, in virtù delle radici ebraiche del cristianesimo: ebrei e cristiani devono dunque sentirsi fratelli, uniti dallo stesso Dio e da un ricco patrimonio spirituale comune sul quale basarsi e continuare a costruire il futuro.
Il Papa nella Sinagoga ebraica di Roma
UNA VISITA
AI “FRATELLI MAGGIORI”
Nel dialogo ebraico-cristiano c’è un legame unico e peculiare, in virtù delle radici ebraiche del cristianesimo: ebrei e cristiani devono dunque sentirsi fratelli, uniti dallo stesso Dio e da un ricco patrimonio spirituale comune sul quale basarsi e continuare a costruire il futuro.
«Da nemici ed estranei, siamo diventati amici e fratelli». Nel Tempio maggiore di Roma papa Francesco ha riassunto così gli ultimi cinquant’anni di relazioni tra cattolici ed ebrei. Recandosi in visita nel pomeriggio di domenica 17 gennaio alla più antica comunità della diaspora, il Papa ha reso omaggio al «dialogo sistematico» che è stato «reso possibile» dalla dichiarazione conciliare Nostra aetate. Il Vaticano II — ha spiegato — «ha tracciato la via» e, definendo «teologicamente per la prima volta, in maniera esplicita, le relazioni della Chiesa cattolica con l’ebraismo», ha fornito «un importantissimo stimolo per ulteriori, necessarie riflessioni».
Il saluto
di benvenuto!
«Benvenuto papa Francesco!»: così il rabbino capo Riccardo Di Segni ha dato voce all’abbraccio che poco prima, all’ingresso della sinagoga, aveva scambiato con il Pontefice. Un calore e una familiarità che hanno sottolineato quella che egli stesso ha definito una «nuova era» nei rapporti tra ebrei e cattolici: «La svolta sancita dal Concilio Vaticano cinquant’anni fa – ha detto nel discorso tenuto sulla tribuna del Tempio maggiore di Roma – è stata confermata da numerosi e fondamentali atti e dichiarazioni, l’ultima un mese fa, che hanno prima aperto e poi consolidato un percorso di conoscenza, di rispetto reciproco e di collaborazione».
Da parte sua papa Francesco ha evidenziato come insieme con le questioni teologiche non debbano essere perse di vista «le grandi sfide che il mondo si trova ad affrontare» oggi: come quelle provocate da «conflitti, guerre, violenze e ingiustizie», che «aprono ferite profonde nell’umanità e ci chiamano a rafforzare l’impegno per la pace e la giustizia». In proposito il Papa ha ribadito con forza che «la violenza dell’uomo sull’uomo è in contraddizione con ogni religione degna di questo nome». Pertanto «ogni essere umano, in quanto creatura di Dio, è nostro fratello, indipendentemente dalla sua origine o dalla sua appartenenza religiosa». Ed ha sottolineato poi che «né la violenza né la morte avranno mai l’ultima parola davanti a Dio, che è il Dio dell’amore e della vita». Di conseguenza «noi dobbiamo praticare in Europa, in Terra santa, in Medio oriente, in Africa e in ogni altra parte del mondo la logica della pace, della riconciliazione, del perdono, della vita».
«Mi state
a cuore»
Venendo poi a delineare il quadro delle relazioni tra mondo cattolico ed ebraismo, papa Francesco è partito da un dato della sua storia personale, peraltro ben conosciuto. «Le nostre relazioni mi stanno molto a cuore. Già a Buenos Aires ero solito andare nelle sinagoghe e incontrare le comunità là riunite, seguire da vicino le feste e le commemorazioni ebraiche e rendere grazie al Signore, che ci dona la vita e che ci accompagna nel cammino della storia. Nel corso del tempo, si è creato un legame spirituale, che ha favorito la nascita di autentici rapporti di amicizia e anche ispirato un impegno comune. Nel dialogo interreligioso è fondamentale che ci incontriamo come fratelli e sorelle davanti al nostro Creatore e a Lui rendiamo lode, che ci rispettiamo e apprezziamo a vicenda e cerchiamo di collaborare. E nel dialogo ebraico-cristiano c’è un legame unico e peculiare, in virtù delle radici ebraiche del cristianesimo: ebrei e cristiani devono dunque sentirsi fratelli, uniti dallo stesso Dio e da un ricco patrimonio spirituale comune (cfr. Nostra aetate, 4), sul quale basarsi e continuare a costruire il futuro.
Con questa mia visita seguo le orme dei miei predecessori. Papa Giovanni Paolo II venne qui trent’anni fa, il 13 aprile 1986; e papa Benedetto XVI è stato tra voi sei anni or sono. Giovanni Paolo II, in quella occasione, coniò la bella espressione “fratelli maggiori”, e infatti voi siete i nostri fratelli e le nostre sorelle maggiori nella fede. Tutti quanti apparteniamo ad un’unica famiglia, la famiglia di Dio, il quale ci accompagna e ci protegge come suo popolo. Insieme, come ebrei e come cattolici, siamo chiamati ad assumerci le nostre responsabilità per questa città, apportando il nostro contributo, anzitutto spirituale, e favorendo la risoluzione dei diversi problemi attuali. Mi auguro che crescano sempre più la vicinanza, la reciproca conoscenza e la stima tra le nostre due comunità di fede».
Non poteva mancare un riferimento alla drammatica vicenda vissuta dagli ebrei nel ventesimo secolo. «Il popolo ebraico, nella sua storia, ha dovuto sperimentare la violenza e la persecuzione, fino allo sterminio degli ebrei europei durante la Shoah. Sei milioni di persone, solo perché appartenenti al popolo ebraico, sono state vittime della più disumana barbarie, perpetrata in nome di un’ideologia che voleva sostituire l’uomo a Dio. Il 16 ottobre 1943, oltre mille uomini, donne e bambini della comunità ebraica di Roma furono deportati ad Auschwitz. Oggi desidero ricordarli con il cuore, in modo particolare: le loro sofferenze, le loro angosce, le loro lacrime non devono mai essere dimenticate. E il passato ci deve servire da lezione per il presente e per il futuro. La Shoah ci insegna che occorre sempre massima vigilanza, per poter intervenire tempestivamente in difesa della dignità umana e della pace. Vorrei esprimere la mia vicinanza ad ogni testimone della Shoah ancora vivente; e rivolgo il mio saluto particolare a voi, che siete qui presenti. Cari fratelli maggiori, dobbiamo davvero essere grati per tutto ciò che è stato possibile realizzare negli ultimi cinquant’anni, perché tra noi sono cresciute e si sono approfondite la comprensione reciproca, la mutua fiducia e l’amicizia. Preghiamo insieme il Signore, affinché conduca il nostro cammino verso un futuro buono, migliore».
Consuetudine
fissa
Il rabbino capo, Di Segni, ha notato che con questa visita, si compie la «consuetudine fissa», in ebraico chazaqà, propria di ogni atto ripetuto tre volte, qui con la terza visita di un Pontefice alla comunità ebraica. Un segno di buon auspicio, soprattutto a fronte della «triste novità dei nostri giorni» che «dopo i due secoli di disastri prodotti da nazionalismi e ideologie, la violenza torna a scatenarsi alimentata e giustificata da visioni fanatiche ispirate dalla religione». Di fronte a tutto ciò, ha sottolineato, «un incontro di pace tra comunità religiose differenti è un segnale molto forte che si oppone all’invasione e alla sopraffazione delle violenze religiose». Non un semplice atto di denuncia, ma l’impegno comune a collaborare nel quotidiano mettendo al servizio della collettività «le esperienze, i valori, le tradizioni, le grandi idee che ci identificano».
Al Rabbino ha fatto seguito l’intervento di Renzo Gattegna il quale, innanzitutto, ha ripercorso le tappe che negli ultimi cinquant’anni hanno caratterizzato il cammino, l’una incontro all’altra, delle due religioni. Per il presidente dell’Ucei occorre ora che «il grande lavoro svolto» e il «consolidamento dei sentimenti di rispetto reciproco, di amicizia e fratellanza», a oggi «rimasti circoscritti ai vertici religiosi e culturali», trovino «un’ampia diffusione presso tutta la popolazione» attraverso «una strategia comune». Purtroppo, infatti, «ancora circolano con frequenza pregiudizi e discorsi improntati a un disprezzo che ci offende e ci ferisce». Considerando il panorama internazionale in cui «cristiani ed ebrei sono accomunati dallo stesso destino», sarà fondamentale stare «fianco a fianco, nel rispetto delle diversità. Consapevoli però «dei valori che ci uniscono». Pertanto «occorre una testimonianza comune per difendere il mondo «da spietati nemici, violenti e intolleranti, che stanno usando il nome di Dio per spargere il terrore compiendo i più atroci crimini contro l’umanità». Gli fa eco Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma, che incalza: «La fede non genera odio. La fede non sparge sangue, la fede richiama al dialogo». E aggiunge: «La nostra speranza è che questo messaggio giunga ai tanti musulmani che condividono con noi la responsabilità di migliorare il mondo in cui viviamo. Solo insieme possiamo farcela».
Fabrizio Mastrofini