I bambini che mancano
2016/11, p. 34
Il bilancio demografico italiano è gravemente “in rosso” da
molti anni. La crisi demografica minaccia la sopravvivenza
del sistema. Valori umani, spirituali e di “interesse” per
aprire una attenzione non episodica sulla famiglia.
Demografia in Italia
I bambini che mancano
Il bilancio demografico italiano è gravemente “in rosso” da molti anni. La crisi demografica minaccia la sopravvivenza del sistema. Valori umani, spirituali e di “interesse” per aprire una attenzione non episodica sulla famiglia.
Chi pensava che il 2015, etichettato come “l’anno dei record” - dal minimo di nascite mai registrato prima, alla forte crescita anomala dei decessi, sino a un calo di popolazione che ha evocato i tempi della Grande Guerra - dovesse rappresentare un caso isolato nella storia demografica del nostro Paese sembra già costretto a ricredersi. Anche nel 2016, nonostante la realistica prospettiva di un ritorno ai livelli di mortalità “clementi” come quelli di cui si è beneficiato nel 2014, il bilancio demografico della componente naturale della popolazione italiana (nascite e morti) continuerà ad essere pesantemente “in rosso”. I dati del primo semestre dell’anno in corso segnalano, infatti, un saldo negativo (più morti che nati) pari a 93mila unità: solo 10 mila in meno rispetto allo stesso periodo del 2015 che pur si era caratterizzato per ben 25 mila morti in più.
Cosa è dunque che determina quel persistente stato di criticità sul fronte del ricambio generazionale, verosimilmente destinata a portare l’Italia a perdere popolazione per il secondo anno consecutivo?
Il futuro che non si vuol vedere
La spiegazione è nel numero dei nati. O meglio: nella variazione/riduzione del numero dei nati. Mentre nell’anno dei record si è toccato il minimo di 486mila nascite, di cui 236mila nei primi sei mesi, durante il primo semestre del 2016 si è scesi ulteriormente del 6% (con 222mila nati) e si stima che a fine anno il nuovo record verrà stabilito a 456mila unità. Parafrasando, in direzione contraria, lo slogan di una famosa pubblicità degli anni ’80 viene da dire: «Sempre più in basso!». Magari evitando di aggiungere, come si faceva allora, un propiziatorio: «Allegria! ».
Si, perché con questi numeri e con le tendenze che essi richiamano c’è ben poco da stare allegri. O almeno non dovrebbe esserlo chi ha a cuore il futuro del nostro Paese.
È ben noto che il persistere di livelli di natalità come quelli attuali ci porterebbe non solo a un ridimensionamento del totale degli italiani – con 450mila nati annui e una “vita attesa” di 85anni una popolazione si stabilizza, in assenza di apporti migratori, attorno a 38milioni di abitanti (oggi siamo 60milioni)– ma soprattutto modificherebbe per alcuni decenni i parametri che stanno alla base del “patto” tra le generazioni. La scarsità di giovani, e quindi di potenziali lavoratori, finirebbe per mettere in crisi un welfare comunque ”condannato” per gran parte del secolo a prendersi cura di folte schiere di anziani (i numerosi figli del baby boom andranno in pensione attorno al 2030) senza poter contare su adeguati supporti da parte del ridotto numero di lavoratori/contribuenti.
Anche le stesse immigrazioni – che pur ringiovaniscono il Paese e forniscono un importante apporto al bilancio della natalità – non possono venir pensate come del tutto risolutive nel panorama del cambiamento demografico. L’esperienza insegna che l’accoglienza e la successiva integrazione di chi viene da altri Paesi non è né immediata né priva di costi. E ciò che è indiscutibilmente doveroso sul piano etico non è detto che sia esente da obiezioni e oppositori sulla base di logiche di convenienza e di sostenibilità: il giovane immigrato di oggi può diventare domani un pensionato a rischio di povertà se, come spesso potrà accadere, sarà privo di un’adeguata carriera lavorativa e contributiva. D’altra parte anche sul fronte del contributo alle nascite i dati più recenti mostrano che la fecondità delle donne straniere, pur restando decisamente più alta rispetto a quella delle italiane, si è fortemente ridotta nell’arco di pochi anni. Nel 2015 esse sono scese sotto il livello del ricambio generazionale (1,93 figli in media) e il loro contributo in termini di numero assoluto di nati è in calo a partire dal 2012.
I quattro pilastri per ripartire
Se questa è la diagnosi, viene allora da chiedersi quale sia la terapia, se ne esiste una, e quali siano i medici che, al capezzale di una demografia così malata, si adoperano per rimetterla in sesto.
Sul primo punto viene facile rimandare alla parte conclusiva di un recente volume, “Il cambiamento demografico” (Laterza, 2011), con cui il “Progetto Culturale” della CEI ha cercato di indicare una proposta per governare i fenomeni e le trasformazioni in campo demografico. La “terapia” suggerita dal Rapporto consiste nel fare in modo che venga recuperato il ruolo della famiglia quale mediatore fondamentale delle decisioni individuali che incidono sul bene di tutta la comunità. Entrando nel dettaglio delle azioni, il Rapporto si fa promotore di una strategia orientata al sostegno della famiglia sulla base di quattro pilastri fondamentali che vanno dall’equità nella imposizione tributaria e nelle politiche tariffarie, alla conciliazione famiglia-lavoro, ai contratti relazionali sino alle politiche abitative a misura di famiglia.
Quanto poi all’individuazione di chi dovrebbe farsi carico della progettazione e dell’esecuzione dei necessari interventi di natura terapeutica, va preso atto che l’impressione oggigiorno è di grave latitanza da parte delle istituzioni e della politica.
L’agire in campo demografico richiede un’ottica lungimirante, coerente nelle scelte e paziente nell’attesa dei frutti. Si semina oggi per raccogliere domani. Ma tutto ciò mal si concilia con una politica che ha un respiro di breve periodo – si opera, quando va bene, entro l’orizzonte massimo di una legislatura – e che non può/vuole certo impegnarsi (e rischiare il consenso su scelte talvolta impopolari) per fornire strumenti in grado di orientare decisioni, come quella di fare un figlio, che impegnano tutta una vita.
Che fare dunque? La posta in gioco è troppo alta per accettare gli eventi senza tentare di riprenderne il controllo. Le azioni e i soggetti su cui intervenire sono chiaramente identificati, così chiari sono i risultati che, alla luce di esperienze di altri Paesi, si potrebbero conseguire se ci si mettesse seriamente in moto. Ciò che manca ancora è una cultura condivisa del cambiamento demografico come fenomeno da conoscere, nelle manifestazioni e nelle conseguenze, ma soprattutto da governare accettando gli eventuali costi e i sacrifici che ne derivano. Senza dimenticare che anche in un mondo globalizzato, con una popolazione in crescita e sempre più aperta alla mobilità, le grandi problematiche sul fronte demografico sono e restano “locali”. Il crollo della natalità in Italia va innanzitutto risolto in Italia, restituendo a chi vive nel nostro Paese (italiano o non) il piacere/coraggio di scommettere sul futuro, per sé e per i propri cari.
Gian Carlo Blangiardo
Italia: Nati vivi. Anni 1862-2016
Fonte: Istat (stime per il 2016)