Cozza Rino
Per una VC senza mura e barriere
2016/10, p. 39
Da oltre cinquant’anni viene proclamato lo slogan “vino nuovo in otri nuovi” ma, come ha detto il Papa, «vi siete proposti di discernere se gli otri che lo contengono sono adeguati a contenere questo vino nuovo?». È il momento di chiederci perché il nostro annuncio e la nostra testimonianza non sono più attrattivi.
Dimensione missionaria della VC
PER UNA VC
SENZA MURA e barriere
Da oltre cinquant’anni viene proclamato lo slogan “vino nuovo in otri nuovi” ma, come ha detto il Papa, «vi siete proposti di discernere se gli otri che lo contengono sono adeguati a contenere questo vino nuovo?». È il momento di chiederci perché il nostro annuncio e la nostra testimonianza non sono più attrattivi.
È giunto il momento di «far sorgere altri luoghi dove si viva la logica del dono, della fraternità, dell’accoglienza della diversità», che ci permettano di sentirci viandanti con coloro che camminano e cercatori con coloro che cercano.
Il punto di partenza è nella consapevolezza che non si può più affrontare il futuro in dispersione; che nessuna vocazione basta da sola; che è tempo di riscoprire legami e dinamiche solidali tra membra dell’unico corpo.
Oggi la forza comunicativa della vita religiosa passa attraverso la fine degli spazi chiusi; attraverso il conoscersi per accogliersi e l’accogliersi per collaborare.
Le seguenti riflessioni trovano grande spazio e approfondite valutazioni nel recente libro delle edizioni EDB, «Servitori della cultura dell’incontro» di Rino Cozza csj.
Oggi siamo consapevoli che il tempo in cui viviamo ha segnato un grande turbamento per la vita religiosa, dovuto soprattutto al fatto di «non aver saputo scorgere i non pochi indizi che sembrano offrire auspici di un’epoca migliore per la Chiesa e per l’umanità».
È il momento di radicali purificazioni che nascono dal chiederci: perché il nostro annuncio e la nostra testimonianza non sono più attrattivi? Il calo vertiginoso dell’interesse viene a dire che non bastano le sue tradizionali forme espressive e che attualmente il concetto e la prassi di “separazione”, “superiorità”, “offerta di servizi sacri o profani”, non convince più; come non persuade un gruppo di eletti chiusi in una particolare nicchia di Chiesa che trova mille motivi per tenersi alla larga dalle ferite e dai problemi della gente, per non lasciarsi coinvolgere. «Così si diventa narcisisti – disse mons. Galantino –- povera gente che cammina su una china pericolosa, con la conseguenza di auto-condannarsi ad essere sempre meno significativi».
Eppure in questo tempo in cui le comunità religiose perdono forza e significanza e per le opere si è innescato l’effetto “domino”, tutto questo può essere letto come una grazia, un’ora in cui Dio chiama a «scrutare il cielo per riconoscere i segni forieri di benedizioni per le nostre aridità».
È questo ciò che il Papa sta facendo vedere, che il clima culturale del postmoderno è favorevole alla riscoperta del Vangelo e dell’approccio sapienziale, per cui ogni «carisma, per vivere ed essere fecondo, non va conservato come una bottiglia di acqua distillata, va fatto fruttificare con coraggio, mettendolo a confronto con la realtà presente, con le culture, con la storia». Se questo non accade, «se siete diventati distratti, o peggio ancora non conoscete questo mondo contemporaneo ma conoscete e frequentate solo il mondo che vi fa più comodo o che più vi alletta, allora è urgente una conversione!».
«Per rimanere fedeli bisogna “uscire”… dai propri “recinti” »
Con queste espressioni il Papa invita a non concentrarsi unicamente su se stessi o sulla propria perfezione, prendendo così le distanze da coloro (scribi e farisei) che conoscevano tutto il contenuto dell'amore di Dio ma non sapevano tradurlo sul piano dell'esistenza perché vittime di pratiche senza vita, di conformismi esteriori, finendo con l’essere mercanti di un parlare vuoto.
Può esserci di aiuto la domanda che Francesco suggerisce: «ci lasciamo inquietare dalle necessità della gente o rimaniamo chiusi in noi stessi, nelle nostre comunità, che molte volte sono per noi comunità-comodità?».
La vita religiosa è chiamata a una modalità di essere cristiani dentro la vita degli uomini, con l’impegno di dare al Vangelo, nella sua essenzialità, la pienezza di credibilità attraverso parabole di vita vissuta in cui le persone tornino a contare più dei principi astratti, e la fede sia più che una dottrina. Si tratta allora di costruire comunità la cui prima caratteristica, in quanto missionarie, non sia quella di innalzare una società nella società, organizzata ai fini dell’ “osservanza”, ma comunità in cui sia possibile restare figli/e del proprio tempo, della società e della cultura in cui si è immersi, per far emergere nella propria esistenza il modo d’essere di ogni vita cristiana, preferendo alla conservazione la proiezione verso il mondo e i suoi problemi, perché le risposte del Signore sono sempre all’interno di un “qui, ora”.
“Fuori” «per non essere vista come una condizione a parte»
È questo quello che in vario modo va dicendo papa Francesco: la vita religiosa «non è stata vista come una condizione a parte, propria di una categoria di cristiani ma come punto di riferimento per tutti i battezzati, per cui nel voto non deve emergere solo ciò che i consacrati/e possono vivere ma deve rimandare chiaramente in modo diretto a quello che è il senso di ogni vita cristiana». Vale a dire che il messaggio evangelico della vita religiosa non è in ciò che la distingue ma nella intensità rappresentativa di un dato valore. Oggigiorno, far consistere la vita evangelica in alcuni elementi di diversità rappresenta un impoverimento della più ampia prospettiva evangelica. In ogni caso questi non possono più essere dati secondo quelle modalità concettuali fisse che hanno portato alla de-storicizzazione del messaggio stesso. È fuori della storia, ad esempio, lo sguardo sui “voti” ristretto a prospettive morali ed ascetiche individuali, colte dalla maggior parte della gente come disinvestitura delle proprie possibilità umane piuttosto che come espressione, attraverso la sovrabbondanza di trasparenza evangelica, di una sollecitazione rivolta a tutti a vivere il Vangelo in forma chiara e forte secondo il sogno di Cristo. Nella vita consacrata i “voti” non sono in funzione di una strategia di salvezza solo per se stessi, ma per far diventare compagni e compagne della storia degli uomini e delle donne del mondo.
Secondo questa prospettiva, allora la povertà si qualifica nel considerare i poveri parte della propria vita per sentire con loro, per sceglierli e partecipare alle loro difficoltà, collaborando nella soluzione di situazioni di bisogno, a nome e nella forza del Signore. Povertà e compromettersi con coloro che hanno perso il lavoro, la casa, gli affetti. Dire “obbedienza” inoltre è affermare la capacità-dovere di “ascoltare” umilmente tutti e anche tutto.
In riferimento al celibato, il Papa parlando ai consacrati/e in formazione e ai seminaristi disse: «Per favore non siate zitelli e zitelle», intendendo così richiamare l’attenzione sul fatto che il celibato e nubilato evangelici devono trovare il loro significato e ragion d’essere non tanto nella rinuncia, ma soprattutto nella fecondità e nella generatività di quanto può nascere da cuori che osano l’amore senza contraccambio, da persone che amano senza possedere.
Quali sono altri “recinti” entro cui nel corso della storia la vita religiosa si è rinchiusa?
Ci sono innanzitutto dei “recinti mentali” dati da lontane ortodossie i cui contorni teologici ed etici risultano oggi oltre misura sfuocati. È anche per questo che «le nostre certezze possono diventare un muro, un carcere che imprigiona lo Spirito Santo». In questo caso l’ “uscita” consisterà nel «saper lasciare le vie di quelle epoche in cui il pensiero era chiuso, rigido, istruttivo-ascetico invece che mistico».
L’irrigidimento dogmatico su cui la vita religiosa si è costruita disomogenea rispetto alla società, l’ha resa incapace a suscitare nelle nuove generazioni il desiderio di essa, portandosi così ad essere avvicendata nel compito di generare all’evangelismo dalle nuove forme che nel frattempo sono sorte.
Non attraggono più quei modelli di pensiero che faticano a muoversi in armonia con le aspirazioni profonde delle persone, perché improntati talvolta a conoscenze teorico-dottrinali del mondo platonico o stoico, tenute assieme da documenti, dichiarazioni, teorie, tendenzialmente omologanti di cui si è soltanto ricettori, silenziosi esecutori.
Il pericolo conseguente – detto con parole forti dalla teologa Antonietta Potente – è di portarci ad essere «semplici cultori o cultrici di tradizioni inutili, quasi degli attori da teatro; oppure illusi “messia” di un avvenire puramente inventato a immagine e somiglianza di quello che abbiamo sempre fatto e già capito. È chiaro che in questo modo non possiamo parlare di vita e, tanto meno, della sua insita religiosità».
Altro “recinto” entro cui la vita religiosa si è rinchiusa, sta nel credere che basti tenere le porte aperte. Ma questo non basta. Uscire significa che non è sufficiente una modalità di presenza rivolta a fare missione in casa propria, al cui fine sono stati creati strumenti, servizi, strutture: così che a ben guardare sono gli altri a dover venire da noi. «È necessario invece essere una Chiesa che trova nuove strade; che è capace di uscire da se stessa e andare “verso” con scelte evangelicamente più efficaci e nel contempo umanamente più significative, perché nate dalla capacità (carisma) di guardare il mondo con occhi diversi, da parte di persone che coltivino e attivino anche quelle dimensioni fondamentali dell’umano che da millenni chiamiamo dono, gratuità, reciprocità, solidarietà, condivisione. Ma per riuscirci, la vita religiosa deve imparare a non aver paura di prendere le distanze da se stessa investendo nel restituire alla gente della strada il Vangelo che le appartiene, attraverso il vivere in prima persona quello stile che comunica la possibilità di una vita diversa, alternativa agli idoli che non danno vita. Quindi il compito della vita religiosa, non consisterà nel gestire, ma nell’essere segno di una comunione diversa, fatta di rapporti umani diversi, segno del primato dell’ascolto della Parola rispetto ad altro. Il problema sta nella ri-comprensione della funzione della vita religiosa dentro il “popolo di Dio”, concetto biblico, diventato autocoscienza conduttrice della Chiesa, a partire dalla riaffermata dignità comune del battesimo. L’ “uscire" cui siamo invitati contribuirà ad avere una “visione” della consacrazione maggiormente propositiva rispetto all’attuale, che non riduca il proprio spazio al mondo attorno a sé ma faccia piuttosto intravvedere la vocazione ad essere fratello e sorella con i fratelli e sorelle, cercatori con chi cerca, compagni di strada, passando dall’essere esperti nel predicare ad esperti dell’ascoltare, condividere, dialogare attraverso una particolare, concreta prossimità all’uomo contemporaneo che porta ad abbandonare quelle posizioni elitarie che in passato esercitava.
Altra chiusura è una spiritualità fuori dai percorsi dell’umanità più autentica
Recinto chiuso” è quella spiritualità che parte dal presupposto che essa sia qualcosa di privato o intimista in funzione di sé o dei propri interiori interessi, A dirlo è l’esortazione apostolica Evangelii gaudium: «La vita spirituale si confonde con alcuni momenti religiosi che offrono un certo sollievo ma che non alimentano l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo, la passione per l’evangelizzazione». Si è espresso così papa Francesco nel ricordare che la spiritualità è altra cosa rispetto al cliché di altri tempi, simbolo di una santità da fenomeni speciali, da penitenze eroiche, da scelte straordinarie ed eccezionali.
Spirituali sono invece – scrive B.Secondin – «quelle forme di vita che a partire dal Vangelo sanno inventare nuovi spazi di ospitalità dei nuovi temi della vita: della felicità, della libertà, della corporeità, della sensibilità, della volontà. Una spiritualità in armonia con la vita, espressa con categorie appropriate alla mentalità secolarizzata con modelli evangelici che interpellino l’uomo del postmoderno piuttosto che schemi di spiritualità poveri di originalità, sovraccarichi di forme devozionali alla deriva, diffidenti verso la società e le sue correnti spirituali. Una spiritualità che «sappia anche indicare alcune delle virtù sociali più urgenti: verità, responsabilità, libertà, dignità umana, pace, sobrietà, solidarietà, diritti umani, reciprocità, legalità, tolleranza, cultura della speranza e della vita». La santità sarà allora data da un modello di spiritualità, mutuata da Gesù, che si fa attenta a cogliere le inquietudini dell’uomo.
Oggi la spiritualità per riacquistare la capacità fecondativa, non può prescindere dal reinterpretarsi attraverso l’espressione di alcune irrinunciabili istanze di umanità, non estranee al Vangelo. Se dopo il Concilio, alla vita religiosa è venuto meno lo status di élite evangelica, ora non può essere disatteso l’invito della Costituzione pastorale sulla Chiesa, Gaudium et Spes a essere «testimoni della nascita di un nuovo umanesimo in cui l’uomo si definisce anzitutto per la sua responsabilità verso i fratelli e verso la storia». Vale a dire che non può ora venirle meno il chiarore di un umano attratto dalla grazia di Cristo, non solo con l’annuncio di una salvezza nell’aldilà, ma nel renderla presente nell’oggi attraverso storie vissute, in grado di far suscitare domande e d’interpellare altri in riferimento alla trascendenza.
A dirlo oggi è la forza di uno stile fatto di volti umani da guardare con il cuore: qui è riposta la sacralità dell’attuale agire pontificio. Uno sguardo – dice il papa – che sia un tu a tu: «Io riesco a guardare le singole persone, una alla volta, a entrare in contatto in maniera personale con chi ho davanti». Ebbe anche a dire: «Ho visto che è stata ripresa dai giornali la telefonata che ho fatto a un ragazzo che mi aveva scritto […] per me questo è stato un atto di fecondità. Mi sono reso conto che quel ragazzo ha riconosciuto un padre; […] il padre non può dire “me ne infischio”. Questa fecondità mi fa tanto bene». «Diversamente si è incapaci di fecondità, incapaci di dare vita perché non si è né padri né madri». Da qui l’appello ai consacrati perché abbiano «la ferialità degli uomini e delle donne di oggi, condividendone gioie e dolori, e a essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi».
Tutto ciò viene a dire quello che è necessario alla vita religiosa per poter essere presente nella nuova esperienza storica che stiamo vivendo.
È questa la cristologia cui ispirarci: dire che Dio si è fatto uomo significa dire che la dimensione divina non prescinde dalla dimensione umana ma anzi questa è il luogo della manifestazione del divino. Se Gesù si è incarnato per narrare Dio con la sua pratica di umanità scegliendo quali segni messianici i segni del suo cuore espressi non con gesti da imprenditore, ma da innamorato allora i consacrati, hanno da esprimere trasparentemente l’attitudine ad annunciare la storia della salvezza come la salvezza dell’uomo, di tutto l’uomo, atta a comprovare l’entrata della vita divina nel vivere in pienezza la dimensione umana. Per questo traguardo – è detto nella lettera ai consacrati “Rallegratevi” – «siamo invitati a impegnarci a destrutturare modelli senza vita per narrare l’umano sognato da Cristo mai assolutamente rivelato nei linguaggi e nei modi».
È tempo dunque di prendere le distanze da ciò che fa percepire i religiosi e le religiose come credenti senza emozioni, votati alla sofferenza piuttosto che alla festa e alla gioia. Certamente non ci sono grandi realizzazioni umane senza fatica, dedizione, sacrificio, come non ci sono mai stati dei santi senza la partecipazione alla croce di Gesù con l’accettazione del sacrificio, ma altra cosa è credere che questo vada ricercato, senza dargli il giusto posto e avere un rapporto adeguato con questa realtà misteriosa di cui Cristo stesso nel Gethsemani ha avuto paura.
Cosa dovrebbe vedere chi si avvicina a un religioso?
Dall’intero Vangelo traspare che Cristo è venuto perché imparassimo relazioni che valorizzino l’umano: «la cultura dell’incontro e della relazione questo è il modo cristiano di promuovere il bene comune, la gioia di vivere». Il Papa lo dice così: «l’ostacolo alla testimonianza non è dato dall’essere peccatori, ma dal non sentirsi davvero appassionati e vitali nell’incontro con l’altro». Allora nel religioso e nella religiosa dovrebbe vedersi una persona dal cui modo di vivere traspaia che credere non è farsi imbrigliare l’umanità, la vitalità, la bellezza, la spontaneità ma semmai farla esplodere in pienezza, perché la qualità della nostra vita dipende dalla qualità delle relazioni. Y.Congar lasciò scritto: «Per la Chiesa come per ciascuno di noi, la salute non consiste soltanto nell’essere se stessi ma nel realizzare la verità della propria relazione con gli altri».
Dal Concilio in poi, «paradigma della Vita Religiosa è la spiritualità di comunione che si alimenta della mistica dell’incontro» per fare spazio a relazioni che danno sapore alla vita, per dire a ogni creatura un desiderio di amore che solo Dio potrà soddisfare. «In ogni caso è da combattere l’immagine della vita religiosa come rifugio e consolazione davanti ad un mondo esterno difficile e complesso». Un segno sicuro, chiaro che la vita religiosa è chiamata a dare oggi è quello di una spiritualità declinata con l’autentica umanità attraverso una vera e sana “vita di fraternità”. Una vita “sana” perché la malattia della fraternità ha una forza da distruggere anche la relazione con Dio. Oggi nella vita religiosa non si sta assieme per farsi dei meriti o per rendere maggiormente produttivo il lavoro apostolico, ma per arrivare ad amare e sentirsi amati. Questo dire rivela il sentire di avere un significato per gli altri e viceversa rendersi conto che gli altri hanno un significato per me.
A tal fine sono necessarie relazioni vere, buone, interessanti, che possano sviluppare gusto. Alle volte il pericolo dei nostri tessuti comunitari è di non sapere di niente, e presentano una dinamica relazionale con Cristo e con gli altri così debole che non fa venir voglia di nulla; sembra di avere a che fare soltanto con qualcosa di organizzativo e amministrativo, con tensioni sul nulla, piuttosto che con spazi di umanità serena, che trasmetta la voglia di incontro, di frequentazione, di sintonia.
Le recenti forme discepolari vengono a dire che la visibilità convincente è data dalla potente umile testimonianza di vita che parla all’uomo d’oggi attraverso forme di vita fraterna che respirano e lasciano respirare il profumo liberante e consolante del Vangelo.
Questi sono i presupposti che permettono la costruzione di una comunità di fede che vede donne e uomini capaci di uscire da sé, per sentirsi ognuno servo con servi, libero con liberi, attenti al riconoscersi dai volti e non dalle maschere.
Oggi non si è più disponibili per una finta comunione, per cui non è più concepibile una comunità religiosa, unita solo sul piano formale, giuridico, e occupazionale, priva di una reale, fraterna comunicazione interpersonale. Si è invece disponibili per una fraternità in cui ognuno si fa dono e gioisce del dono dell’altro. Una fraternità «non giocata sulla perfezione ma che, come ha insegnato Gesù, ci sia di aiuto a gestire l’imperfezione; una comunità che non ci giudichi se non avremo raggiunto l’ideale, ma se avremo camminato nella buona direzione senza arrenderci».
È solo una fraternità pensata su queste basi nuove, in spazi nuovi, in contesti culturali completamente nuovi, con linguaggi che devono essere, necessariamente nuovi, quella che è in grado di «generare comunità che respirino e lascino respirare il profumo liberante e consolante del Vangelo, profondamente attraversate dall’interesse verso il regno piuttosto che all’autopromozione e all’autoconservazione». Una fraternità inoltre che con la vita racconti Dio al di fuori, e lo renda desiderabile. Perché questo possa accadere – dice il Papa – «ci è richiesto di umanizzare le nostre comunità, curare l’amicizia tra voi, la vita di famiglia, l’amore tra voi. E che il monastero non sia un purgatorio, ma sia una famiglia».
È siffatto segno, identitario della vita religiosa proposto con evidenza, ciò che è in grado di aiutare la Chiesa e la società, nel far circolare la linfa della fraternità a partire dalla Parola di Dio letta in un fecondo rapporto tra testo e contesto sociale, culturale, ecclesiale.
È il momento di «guardare al mondo non come una minaccia ma come al proprio chiostro».
Nell’Enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI, ci sono varie espressioni che dicono il rovesciamento di quella originaria prospettiva di vita religiosa che vedeva nella fuga dal mondo la sua ragion d’essere. In particolare viene detto: «Non si salva il mondo dal di fuori, occorre, come Colui che si è fatto uomo, immedesimarsi, in certa misura, nelle forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio di Cristo; occorre condividere, senza porre distanza di privilegi, o diaframma di linguaggio incomprensibile, se si vuole essere ascoltati e compresi».
In un tempo in cui la Chiesa si sta ri-configurando secondo uno stile di generosa accoglienza degli altri mondi o di altri modi di stare nel mondo, la vita religiosa per essere a misura della Chiesa, deve farsi «capace di incontrare la gente nella loro strada», nelle loro case e non solo nelle proprie istituzioni.
Il noto teologo Marie-Dominique Chenu osservava che soltanto accettando a fondo l’evidenza del mondo, le sue dimensioni, la sua unità, la sua storia; soltanto credendo profondamente ad esso si potrà, dall’interno, ricollocare e far riapparire Dio ed il Cristo. Dunque chiamati non a lottare contro il mondo ma contro la propria mondanità.
Da qui l’ urgenza di prendere atto che nella vita religiosa, ad aver bisogno di un supplemento di luce è proprio la qualità delle “relazioni”, perché non portino ad essere funzionalmente in mezzo agli altri rimanendo soli, e in quanto soli più propensi alla stagnazione che alla generatività. La Chiesa è un corpo comunicativo essendo stata fondata per la “comunione”, dunque non è una istituzione che vive in sé e per sé. Allora è altrettanto vero che la vita religiosa non è in funzione dei propri interessi, nemmeno di quelli spirituali, (perfezione e salvezza), ma è nata da una relazione che riempie la vita, quella con Cristo, che deve creare a sua volta capacità di essere «uomini e donne di Dio la cui misura sta nel saperlo portare a tutti come il dono più prezioso per l’uomo». Per la Chiesa come per ciascuno di noi, la salute – scrisse Y.Congar – non consiste soltanto nell’essere se stessi ma nel realizzare la verità della propria relazione con gli altri. È proprio la qualità di queste ad aver bisogno di una intensificazione di luce a partire dal credere che non sono le idee o i libri, ma gli incontri che cambiano la vita, per cui se cambiamo poco è perché non sappiamo incontrare.
È stata la mancanza di relazioni a far perdere alla vita religiosa il suo ancoraggio alla cultura della gente che, per il forte tasso di sufficienza, si è portata pian piano ad essere imbalsamata. Se oggi si trova impoverita, deve trovarne la causa nel non essere stata fecondata dalla sana “contaminazione” delle relazioni intensamente umane e dai contatti con i diversi. Oggi la speranza di futuro e l’esemplarità dell’esserci, nascono e rinascono dai luoghi promiscui del vivere, dall’incontro di umanità intere, dall’essere nutriti dai tanti cibi del villaggio globale. Quando smettiamo di incontrarci e di abbracciarci, soprattutto con i poveri smettiamo di essere generativi. Se in questi sessant’anni la vita religiosa non ha fatto passi avanti è stato perché ha continuato a rispondere agli interrogativi del tempo con impennate identitarie. Diceva già il noto teologo conciliare Yves Congar: «la sua arcaica rigidità rischia di impedirci di essere in mezzo agli uomini come essi stessi e il Vangelo ci chiedono di esservi. […] La conseguenza è che non incontriamo più la gente là dove maggiormente è se stessa, dove si esprime liberamente, dove sperimenta le sue sofferenze e le sue gioie più reali, dove incontriamo i veri problemi. Rischiamo di vivere in mezzo a loro separati da un alone di finzione».
Come deve essere l’incontro per dire relazione evangelica
La relazione vera non è un movimento unidirezionale di elargizione, e non è solo guardarsi più benevolmente ma sta nel parlarsi, nel comunicare il proprio pensiero e nel contempo comprendere quale sia il vero pensare altrui, per poi guardare insieme la società, il futuro, i problemi.
Michel De Certeau definiva il cristiano «l’uomo del faccia a faccia», intendendo dire che bisogna prendersi in carico lo sguardo altrui perché «possiamo amare solo chi incontriamo».
Il Dio che Gesù ci comunica è pieno di prossimità compassionevole, vicinanza solidale, conforto, e lo fa stando in mezzo alla gente e insegnando una sensibilità, un modo di essere e di sentire ricco di misericordia quale atto di amore incondizionato fatto di attenzione, ascolto, perdono, guarigione, incoraggiamento, fiducia, superamento dei pregiudizi, tabù, separazioni.
«L’incontro misericordioso con l’altrodice il Papanon è intellettuale o astratto, bensì è contatto con la sua carne e la sua sofferenza». C’è qui l’invito a stare nel bisogno delle persone, condividendone la situazione per il fatto che «in forza dell’amore di Dio che avete incontrato e conosciuto, siete capaci di vicinanza,[…] tanto vicini da toccare la carne dell’altro, le sue ferite e le sue attese, le sue domande e i suoi bisogni, con quella tenerezza che è espressione di una cura che cancella ogni distanza». L’immagine suggestiva che il papa ha proposto è quella di essere impregnati dell’ “odore” degli uomini d’oggi. Il che significa mettersi in gioco, sporcarsi le mani, toccare in profondità la miseria umana. Tutto ciò viene a dire che non possiamo incontrare l’altro solo furtivamente, per un utile ma necessariamente breve scambio funzionale, ma solo investendo la vita nel farsi prossimo per prendersene cura, parola che nella sua radice latina rimanda a scaldare il cuore facendone vibrare le corde. Allora la vita del consacrato non può essere principalmente legata a prescrizioni e abitudini, ma a quelle parole nelle quali Gesù ha messo tutta la forza del suo racconto: la compassione e la misericordia.
La crisi di fede e di fiducia nei confronti della Chiesa, papa Ratzinger sperava forse di guarirla con ricette intellettuali, ad esempio riconiugando fede e ragione; per papa Francesco invece la crisi della Chiesa può essere vinta dalla capacità di accogliere l’umanità dell’altro. Senza questa scelta preferenziale è difficile ripensare la fede, avendo la fede cristiana il suo elemento cardine proprio nelle relazioni vere, buone, sane, interessanti, quelle che possono sviluppare ragione di vita.
Se si chiedesse a papa Francesco: chi è Dio per te, penso che non direbbe che Dio è il perfettissimo, l’onnipotente ecc.: questo lo dicono tutte le religioni; probabilmente rispecchiandosi nel Cristo del Vangelo, lui direbbe: Dio è “abbraccio”, facendoci intendere quanto le ragioni del cuore siano le condizioni perché l’umano incontri il divino e che la relazione ha bisogno di essere aiutata dagli affetti i quali non si possono togliere dalla persona umana, perché sono integrati nella vita.
È possibile rimettersi in gioco purché …
Da oltre cinquant’anni viene proclamato lo slogan “vino nuovo in otri nuovi” ma ciò che è mancato, almeno quanto basta, è il domandarci quello che il Papa ha così espresso: «vi siete proposti di discernere se gli otri che lo contengono, rappresentati dalle forme istituzionali presenti oggi nella vita consacrata, sono adeguati a contenere questo vino nuovo?». L’inadempienza risulta dall’ulteriore sua proposta di «non aver paura di lasciare gli otri vecchi non rispondenti a quanto Dio ci chiede per far avanzare il suo regno; le strutture che ci danno falsa protezione e che condizionano il dinamismo della carità».
Per fare questo servono persone capaci di interpretare la nuova stagione sociale ed ecclesiale, non fermandosi soltanto alle prassi e alle conoscenze che finora le hanno orientate, ma persone capaci di transitare a mondi possibili, in cui la preoccupazione non sia quella di riaggiustare ciò che non può essere più aggiustato, (è questa la fatica di Sisifo che sta logorando la vita religiosa) ma di vedere quali siano i tessuti culturali che si devono abbandonare perché ci stanno ferendo. Diversamente c’è il rischio che la Chiesa si abitui, un po’ per volta, all’assenza della vita religiosa: se certi orientamenti, quelli da cui oggi si è facilmente tentati, sono proposti quali “carismi”, allora sono i “carismi” a non venire sentiti essenziali.
Rino Cozza csj