La misericordia nelle relazioni sociali
2016/10, p. 29
Non c’è misericordia senza relazione, senza il vedere
l’altro e il suo bisogno, la sua impotenza, la sua debolezza
e senza assumere il carico del soccorso prima ancora di
occuparsi delle responsabilità. La misericordia anima il
patto sociale.
Secondo lo stile di Dio nella Bibbia
LA MISERICORDIA
NELLE RELAZIONI SOCIALI
Non c’è misericordia senza relazione, senza il vedere l’altro e il suo bisogno, la sua impotenza, la sua debolezza e senza assumere il carico del soccorso prima ancora di occuparsi delle responsabilità. La misericordia anima il patto sociale.
Il papa Francesco ha spesso riflettuto sulla grande importanza della misericordia nelle relazioni sociali, invitando tutti a fare altrettanto. Quella che viene più spesso intesa come una specie di commozione tipica degli animi sensibili, è, in verità, un fondamentale criterio per tutte le relazioni sociali. «Usiamo l’espressione: Opere di misericordia perché consapevoli del fatto che, se fosse racchiusa solo nella sfera del pensiero o del puro sentimento, la misericordia sarebbe vana», dice, in un suo magnifico libretto, Piero Stefani.
Sì, basti semplicemente pensare alle opere di misericordia cosiddette “corporali” per avere il primo e principale impatto con la sostanza della misericordia: si tratta di visioni che diventano azioni, di volontà che si trasformano in interventi reali e concreti. Per questo non c’è misericordia senza relazione, senza il vedere l’altro e il suo bisogno, la sua impotenza, la sua debolezza e senza assumere il carico del soccorso prima ancora di occuparsi delle responsabilità. La misericordia anima il patto sociale.
Del resto il kèrigma stesso: «possiede un contenuto ineludibilmente sociale: nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita comunitaria e l’impegno con gli altri» dice Papa Francesco.
La più antica Confraternita della Misericordia nacque a Firenze nel 1244 per curare il trasporto e l’assistenza dei malati, quanto basta per dire che: «la misericordia ha più volti (…) un conto è essere di fronte alla colpa, altro è essere di fronte all’impotenza (…)». Nelle opere di misericordia corporali «l’urgenza sta nel soccorrere», appunto. Dar da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, vestire gli ignudi e alloggiare i pellegrini; curarsi degli ammalati, occuparsi dei carcerati, seppellire i morti, sono opere di assoluto impatto sociale. Un elenco di azioni che sono alla base non solo delle politiche del welfare, ma, prima ancora, delle carte dei diritti umani e civili, delle cure primarie che tutte le Istituzioni, i governi nazionali, ma anche gli organismi internazionali, hanno – o dovrebbero avere – in ogni ordine del giorno e in ogni Conferenza, nei Meeting, G8, G20, ecc.
Della fame nel mondo si occupa un gigante come la FAO, solo per citare la sigla più nota; della sete e dell’acqua si parla in ogni dove: dalle cronache di guerra alle stime della siccità dovuta ai disastri che i Paesi ricchi portano sull’equilibrio ecologico terrestre. Dei carcerati si occupa anche l’ONU e sulla sepoltura di tutti i morti – dei giusti e degli empi! – veglia, tra l’altro e tra gli altri, Amnesty International. Poteri pubblici e privati servizi di volontariato non fanno altro che “misericordia”! Per non parlare dell’“alloggiare i pellegrini”, che oggi si traduce in: accoglienza agli immigrati, ospitalità ai profughi, ponti contro i muri, destra vs sinistra, egoismo sociale e spirito di condivisione, temi che costituiscono il nodo più aspro e intricato delle attuali politiche mondiali.
Di tutto questo sommovimento Gesù, nel Vangelo di Matteo, parla nel suo ultimo discorso e dice: su queste azioni sarete tutti voi giudicati! (cf Mt 25,31-46). Altro che sentimenti, o forme facoltative di generosità: le opere di misericordia sono il metro su cui ogni cristiano verrà a paragone, cioè posto dinanzi alla sua ineludibile responsabilità davanti a Dio!
Come se non bastasse, la tradizione cattolica aggiunge un secondo elenco di tali opere che chiama “di misericordia spirituale”: “Consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti”. Si tratta di opere che coinvolgono la vita dell’anima, ma in un orizzonte in cui questa è un tutt’uno col corpo. Per fare un esempio: l’“insegnare agli ignoranti” chiede un doppio impegno sociale: quello intra-ecclesiale della conoscenza della fede e quello civile della scuola e di ogni altro tipo di impegno educativo, perché i ragazzi e i giovani possano emendarsi da ogni forma di deleteria “ignoranza”.
L’impatto sociale
della misericordia nella Bibbia
Lo stile di Dio nella Bibbia è quello di chiedere all’uomo quanto Egli per primo ha fatto e fa. Quando, ad esempio, il Dio di Mosè invita Israele ad ascoltare la sua voce, nello Shema’, (“Ascolta Israele”, cf Dt 6,4ss), Egli stesso ha già ascoltato per primo la voce del suo popolo nella schiavitù dell’Egitto. Essi “gridarono” ed Egli “ascoltò” il loro grido, è scritto nel libro dell’Esodo (cf Es 2,23-24). In seguito, una volta usciti dal grembo dei Faraoni, avvenne che gli Israeliti fossero assetati e affamati nel deserto e anche qui Dio ebbe cura di loro e diede loro l’acqua dalla roccia e fece scendere dal cielo il pane della manna (cf Es 15/16). Nel libro di Genesi si racconta che Adamo ed Eva uscissero nudi dall’Eden, quando Dio li vide e se ne diede pensiero, confezionando, per vestirli, delle “tuniche di pelle” (cf Gn 3,21); e quando gli Ebrei furono forestieri nella terra di Canaan, o in quella d’Egitto, Dio gli fece avere una buona accoglienza da parte di quei popoli, al punto che essi vi restarono in pace per molti anni. Quando, poi, gli Israeliti si ammalarono di lebbra, il Signore li guarì (cf Nm 12,15); quando furono tenuti prigionieri nell’esilio babilonese, Dio li liberò facendoli ritornare nella terra promessa “ai nostri padri”, e gustare di nuovo la gioia di Gerusalemme (Ger 30/31).
E avvenne che quando i cadaveri degli ebrei venivano lasciati insepolti e gettati sulla superficie della terra, esposti al ludibrio delle iene e degli uccelli, nella valle descritta da Ezechiele, venne la mano di Dio a ordinare al profeta non più di dare sepoltura a quelle ossa aride, piuttosto l’energia spirituale della rinascita: “Ecco, io faccio entrare in voi lo Spirito e rivivrete” (Ez 37,5).
Per tutte queste opere di misericordia, Dio è riconosciuto e adorato come: “Giusto” e fedele al suo popolo, nel Primo Testamento. Sarà solo quando avrà a che fare col peccato di Israele che, allora: “egli si alza dal trono della giustizia per sedersi su quello della misericordia”.
A imitazione del Padre, anche il Figlio di Dio, dà da mangiare agli affamati, prima di chiedere a sua volta da mangiare; dà da bere agli assetati, prima di chiedere a sua volta da bere. Nel grande affresco della moltiplicazione dei pani, si celebra il grande banchetto della fame umana che trova soddisfazione nella condivisione di Gesù e degli Apostoli. A questi ultimi, che gli dicono di congedare la folla per la cena, Gesù risponde: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mc 6,37). Quelli restarono sorpresi non solo perché avevano solo cinque pani e quella folla era di cinquemila persone, ma perché non si ritenevano in dovere di dar da mangiare agli affamati. Non capivano come la fame di quegli sconosciuti fosse una cosa che li riguardasse. Gesù annuncia loro che dinanzi a una folla affamata c’è un’unica contingenza: offrire ciò che si può! Domani, poi, si procederà ad altre cose, a organizzare, a protestare, a denunciare le eventuali ragioni di quella mancanza di bene primario. La misericordia è un “pronto soccorso”; viene prima e dopo la “giustizia”.
Questi comportamenti “divini” istruiscono i cristiani sulle loro più elementari responsabilità: che ogni creatura al mondo abbia da mangiare e da bere, da vestire e una terra e una casa dove abitare. Nei paesi poveri del mondo significa ancora lottare e impegnarsi in ogni modo per trovare acqua e cibo; in quelli ricchi vuol dire promuovere e realizzare l’accoglienza, agire con creatività e scienza per il lavoro, l’istruzione e l’integrazione, la salute e i diritti per tutti. “Opere” in cui il cristiano è doppiamente chiamato in causa: come cittadino e come credente. Queste opere sono, infatti, atti di umanità e doveri sociali e civili; inoltre, per il cristiano, una carezza attesa dal Signore stesso, un bicchiere di “acqua fresca” per le sue labbra assetate: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).
Misericordia
e libertà
Una delle emergenze sociali più implicate con la misericordia – dopo quelle della fame e alla sete – è la lotta per la libertà di ogni persona, a cominciare dai più deboli, dagli esclusi, dai reietti. La misericordia trova, in questo ambito, un vastissimo campo di “battaglia”. Si pensi alla schiavitù che ancor oggi affligge tantissime creature. Si pensi alla “tratta” che Papa Francesco non smette mai di denunciare, specialmente quando è fatta sulla carne dei bambini, o delle giovani donne; dei migranti, o delle creature delle favelas, dei cui organi si fa illecito e libero commercio, facilitato dal fatto che i loro nomi non appaiano in nessun ufficio anagrafico.
Anche su questo fronte, la Parola mette dinanzi a noi l’esempio di Gesù. Anch’Egli un giorno si trovò davanti a un uomo che i suoi concittadini avevano isolato fuori le mura della sua città, l’avevano denudato e legato, costringendolo ad abitare nelle tombe, urlando di notte e di giorno come un essere bruto (cf Lc 8,26-39). Quest’uomo era schiavo persino di se stesso e nella sua povera mente avevano fatto casa una legione di demoni. Neppure la parola sapeva usare più, visto che era solo e selvaggio in luoghi deserti da ogni piede umano. Gesù lo vede e lo libera dalla sua schiavitù, semplicemente reintroducendolo nella società da cui era stato escluso. L’esclusione dal consesso sociale è, infatti, la madre di ogni schiavitù.
La libertà per l’uomo di Gerasa significò l’essere riaccolto nella sua famiglia, il ritrovare un nome, la lingua e le parole per dialogare con tutti; la dignità di un vestito e di una casa, al posto delle catene con cui era stato condannato alle dimore dei morti. La libertà è tornare in vita!
Le viscere di misericordia
di Paolo
Un grande discepolo di Gesù in quest’opera di misericordia fu Paolo. C’è una lettera che è la più breve di tutte (appena 25 versetti!); qualcuno la chiama “biglietto”, tanto è piccola e confidenziale. Si tratta della Lettera a Filemone che Paolo scrive di suo pugno quando si trova prigioniero ad Efeso. L’esperienza del carcere gli fa comprendere l’impotenza in cui vive lo schiavo. Forse per questo scrive al suo amico Filemone queste stupende righe, supplicandolo di riaccogliere il suo “schiavo” Onèsimo, fuggito da casa sua, tempo prima. Ma: “non più come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo” (Fm 16).
Nella comunità cristiana: “non c’è più Giudeo, né greco, schiavo né libero” (Gal 3,28) e ogni creatura ha la piena dignità dinanzi e dentro il Corpo di Cristo. “Accogli Onesimo come me stesso” – chiede Paolo a Filèmone – e “se ti ha offeso in qualcosa e ti deve qualcosa, mettilo sul mio conto (…) pagherò io” (Fm 17-18).
Nella comunione di carne e spirito in cui vive la Chiesa, Corpo mistico di Cristo, tutti acquistano una sacra libertà: quella di essere membra gli uni degli altri. E Onèsimo, lo schiavo, tra tanti membri metaforici che formano le Chiese di Paolo, lui, dice l’Apostolo, è: “le mie viscere” (Fm 12): il mio grembo di vita, la mia speranza, la mia stessa libertà, la “misericordia” di Dio che in me ha preso carne.
Rosanna Virgili