In "uscita" per "incontrare"
2016/1, p. 32
In un tempo in cui le comunità religiose perdono forza e
significato, e per le opere si è innescato l’effetto
“domino”, tutto questo può essere letto come una grazia,
un’ora in cui Dio chiama al cambiamento e a «scrutare il
cielo per riconoscere i segni forieri di benedizioni per le
nostre aridità».
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Testimoni
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Investire i carismi in “altri luoghì”
“IN USCITA”
PER “INCONTRARE”
In un tempo in cui le comunità religiose perdono forza e significato, e per le opere si è innescato l’effetto “domino”, tutto questo può essere letto come una grazia, un’ora in cui Dio chiama al cambiamento e a «scrutare il cielo per riconoscere i segni forieri di benedizioni per le nostre aridità».
Il mondo attuale chiede alla vita religiosa “segni”, piuttosto che “servizi"; luoghi e spazi di relazione prima e più che funzionalità e capacità organizzativa. È urgente allora «mettere a dimora uno stile di opere e di presenze piccole e umili come l’evangelico granello di senapa, in cui brilli senza frontiere l’intensità del segno». Questa indicazione del documento vaticano “Scrutate” stenta a passare perché la vita religiosa è vittima del vedere generatività nel quantitativamente grande: è stato questo nel passato a imporsi come dato importante e decisivo. Ma una istituzione a fine apostolico non può pensarsi come mera espansione quantitativa, ma solo in termini di “senso” per il quale tutto il resto è solo strumentale.
In questo tempo in cui le comunità religiose perdono forza e significanza, e per le opere si è innescato l’effetto “domino”, tutto questo può essere letto come una grazia, un’ora in cui Dio chiama al cambiamento e a «scrutare il cielo per riconoscere i segni forieri di benedizioni per le nostre aridità».
Cosa vuol dire non poter più gestire tutti quei servizi che ci davano prestigio? Che cosa dice il fatto che oggi i religiosi/e siano spesso riconosciuti come persone subordinate al mantenimento delle istituzioni, o persone che prese dal lavoro non hanno il tempo di vedere cosa sia ancora immaginabile sulla linea del Vangelo?
Tutto ciò viene a dire che non è più possibile mantenere in piedi quella situazione che si è creata in altri tempi in base ad altri presupposti. È finito il tempo di quella vita religiosa che per ogni malattia o bisogno produceva assistenza, carità, cultura: tutte necessità che altrimenti in quel tempo sarebbero rimaste inevase. È venuto meno quel modello di vita ma non una forma di vita evangelica che per l’intensità e l’energica tensione spirituale, evidenzi il tendere ad essere memoria vivente di Cristo, in particolare attraverso “segni” di gratuità e di amore.
Che la stagione dell’utilità debba volgere al termine è auspicato anche nel documento della s. Sede, Ripartire da Cristo ove si dice che «le persone consacrate sono obbligate a cercare nuove forme di presenza, e a porsi non pochi interrogativi sul senso della propria identità e del loro futuro», intravisto nel «recuperare il proprio compito essenziale di lievito e di fermento».
La gestione delle opere ha funzionato bene in tempi di delega, ora la trasformazione dello stato sociale, le ha messe in situazione di precarietà. Ma dal congedo dalla forma sociale che la vita religiosa ha assunto in passato e che è oggi al tramonto, può sorgere un nuovo inizio.
Il pericolo è l’ ideologia
neo-manageriale
«Può accadere – è detto nella istruzione “Scrutate” – che col tempo le esigenze sociali convertano le risposte evangeliche in risposte misurate sull’efficienza e la razionalità «da impresa». Può allora succedere alla vita religiosa di perdere l’autorevolezza, l’audacia carismatica perché attratta da luci estranee alla sua identità».
È stata la consapevolezza di ciò a spingere il papa a prendere posizione con un forte e più volte ripetuto «no alle ONG», incapace di ascoltare il respiro inedito del Vangelo, nella cui prospettiva – scrive il papa con parole severe – «non c’è più fervore evangelico, ma il godimento spurio di un autocompiacimento egocentrico», finalizzato all’autopromozione e all’autoconservazione, mettendo così in guardia dal pericolo che il disorientamento religioso e spirituale si esprima oggi attraverso attività a volte frenetiche senza mistica né coscienza di missionarietà, che fanno posto a pragmatismi di ogni sorta.
La tentazione in questo momento di difficoltà per la vita religiosa è di cercare la salvezza in quell’organizzazione che non può produrre che altra organizzazione. Ed è così che la cultura manageriale d’impresa implementata dalle società di consulenza che solo di questo sono esperte, sta diventando una pervasiva ideologia globale che oltre ad essere stata fatta propria dalle Ong e dall’economia sociale, è entrata senza inibizioni nelle prospettive dei religiosi, i quali «senza battere ciglio etico, accettano che le proprie relazioni siano sempre più immerse e gestite con logiche ingabbiate dentro algoritmi e indicatori nati dall’economia», disattendendo il fatto che nella vita consacrata «una economia ridotta a pura economia si smarrisce e non è più capace di generare vita e neanche buona economia».
Pur di mandare avanti le opere, i religiosi e le religiose, hanno ridotto le motivazioni ideali proprie del carisma, accontentandosi spesso di quelle meno profonde di coloro che ci chiedono solo una opportunità lavorativa. È un prezzo che sta mettendo a dura prova la forza del carisma di quegli Istituti in cui i membri attivi, ormai residui, ritiratisi in ruoli direttivi si sono portati a non saper più «odore del gregge» ma quello sintetico delle sale riunioni o degli strumenti d’ufficio.
Scelte nello stile
dell’umile e del piccolo
Il tempo presente invita a ridimensionare l’importanza degli apparati per mettere al primo posto risposte impastate (lievito) con quelle delle altre vocazioni che formano la Chiesa, decostruendo i propri miti, senza accontentarsi di risposte accomodanti o di soluzioni ripetitive di quelle del mercato. Non si tratta di svalutare quelle opere che sono trasparente testimonianza dell’amore, ma di correggere una tendenza, dovuta al mutamento in atto che rischia di svuotare di senso la vita di molti Istituti impegnati ad offrire «servizi».
Le attività dei religiosi devono essere costruite sul paradigma relazionale della famiglia e della comunità con parole tipiche degli ambienti familiari, amicali, ideali, empatici, etici, spirituali: parole e codici che attivano nella persona le stesse dinamiche che ha appreso e praticato nella vita privata e familiare, con lo stesso impegno richiesto, con le stesse passioni in gioco. Ma non possono essere le opere-impresa con i loro obiettivi i luoghi dove tali promesse si possono compiere, nascendo queste, per lo più dal cogliere un’opportunità di lavoro e di mercato il cui fine prevalente non può non essere la massimizzazione del profitto, che molto spesso non va di pari passo con la massimizzazione del fine per cui si opera.
Nell’erogare servizi, è evidente la diversità del paradigma della vita religiosa dall’ideologia organizzativa manageriale per la quale, ad esempio, non è professionale mescolare i linguaggi, le emozioni, della vita privata con quelli della vita di impresa. Parole come dono, gratitudine, amicizia, perdono, gratuità, che tutti riconosciamo essere fondamentali delle relazioni familiari, sociali, comunitarie, devono essere tenute assolutamente fuori dal luogo di lavoro, perché improprie, inefficienti – a loro dire – e soprattutto pericolose. Ma non è questo l’humus del modo di operare in cui brilli l’intensità del “segno” carismatico. Questo è riposto o può nascere soltanto dalla passione e dagli ideali di una o più persone, consacrate e no, che in quella loro idea mettono e incarnano le parole alte e i progetti grandi della loro vita.
Ricentrarsi
“uscendo”
Il papa parlando ai vescovi disse: «Promuovete la vita religiosa; ma se ieri la sua identità era legata soprattutto alle opere, oggi costituisce una preziosa riserva di futuro a condizione che sappia porsi come segno visibile, sollecitazione per tutti a “vivere secondo il Vangelo”». È questo il passaggio a cui è chiamata la vita religiosa.
L’autentica scelta di appartenenza a una forma di vita da discepoli, oggi non proviene primariamente da argomentazioni funzionaliste ma piuttosto da esperienze concrete di vita secondo il Vangelo. Questo è l’orizzonte su cui le eventuali nuove vocazioni scelgono di organizzare le proprie scelte e le proprie progettualità. Finora il più delle energie le abbiamo spese nella supplenza, con l’occupazione degli spazi sociali, cosa possibile nel passato quando questi erano pochi e molti i religiosi/e. Oggi ci accorgiamo di avere tante strutture e poca capacità di testimonianza; strutture che annunciano il Vangelo ma non si lasciano evangelizzare: il rischio è forte. Allora se la vita religiosa vuole intercettare le attese su di essa riposte da un mondo sempre più complesso e disorientato, deve uscire dalla situazione di stallo in cui si trova. Uscire significa che non è sufficiente una modalità di presenza portata a fare missione in casa propria (opera), al cui fine sono stati creati strumenti, servizi, strutture: così a ben guardare sono gli altri a dover venire da noi. Ma oggi «piuttosto di essere solo una Chiesa che accoglie tenendo le porte aperte, è necessario essere una Chiesa che trova nuove strade; che è capace di uscire da se stessa e andare verso fuori» con scelte evangelicamente più efficaci e nel contempo umanamente più significative, perché nate dalla capacità (carisma) di guardare il mondo con occhi diversi, da parte di persone che coltivino e attivino anche quelle dimensioni fondamentali dell’umano che da millenni chiamiamo dono, reciprocità, condivisione, interiorità, che rendono la vita degna di essere vissuta non solo a casa ma anche nel lavoro.
Investire il carisma
in “altri luoghi”
Luoghi che si propongano quale spazio per scelte dove l’incontro, prima o al di là che con il bisogno cui rispondere (didattico, assistenziale, culturale ecc.), avvenga con il volto delle persone; luoghi che rispondano alla ricerca e all’inquietudine che accompagnano la vita delle persone, specie dei giovani.
In altri termini è tempo di passare dalle opere all’ “operare”. Allora, se fino ad oggi «il senso della vita religiosa era da considerarsi come inserimento in uno o più ambiti di impegno, ora piuttosto il suo senso è da leggersi nel modo di essere in tutte le situazioni in cui i consacrati sono chiamati a vivere», coinvolti giorno per giorno nei problemi del quartiere e in quelli del mondo per far emergere la prospettiva evangelica scaturente dal proprio carisma. «Il resto pur valido, non le spetta né più né meno che a ogni uomo».
È questo il tempo di «una purificazione radicale […] delle identità ripiegate sul primato dei servizi ecclesiali e sociali», «destabilizzando modelli e stili ripetuti nel tempo, incapaci di interloquire, come testimonianza evangelica con le nuove sfide e le nuove opportunità».
È giunto il momento – scrive il papa – «di far sorgere altri luoghi dove si viva la logica del dono, della fraternità, dell’accoglienza della diversità»; in fondo sono le relazioni così connotate che danno alla vita il suo valore.
Privilegiare la relazione nel nostro operare è fare spazio a scelte apostoliche che permettano di «sentirci viandanti con coloro che camminano e cercatori con coloro che cercano», essendo i religiosi e le religiose uomini e donne di Dio nella misura in cui lo sanno portare a tutti come il dono più prezioso per l’uomo.
Rino Cozza